Le razze non esistono, il razzismo sì. 8mila genetisti lo hanno dimostrato.
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Viviamo in una realtà in cui, sempre di più, gli episodi di razzismo sono all’ordine del giorno: nelle scuole, per strada, nello sport. La presunta superiorità di alcune “razze” su altre viene spesso tirata in ballo per fare propaganda politica: su quali basi, però? Certamente non scientifiche. Per la scienza, infatti, quello di “razza umana” non è altro che un costrutto sociale, che non si basa su nessuna evidenza scientifica.

Il concetto di “razze umane” ha radici ben lontane nel tempo: già nel Medioevo esisteva la discriminazione verso altri popoli o verso determinate categorie di persone, ma non si trattava tanto di motivi legati al colore della pelle, quanto piuttosto religiosi e politici. La suddivisione dell’umanità in “razze” è arrivata dopo, con l’espansione coloniale. Il periodo delle grandi esplorazioni ha messo in contatto le popolazioni europee con altre fino ad allora sconosciute, dall’aspetto differente da quello che era comune in Europa: questi popoli erano spesso considerati privi di ragione, sentimento e moralità, e per questo era considerato normale o giusto sottometterli, quando non sterminarli. 

Il primo testo a utilizzare il concetto di “razza” è stato La Nouvelle division de la terre par les différentes espèces ou races qui l’habitent (La nuova divisione della terra secondo le differenti specie o razze che l’abitano), scritto dal medico francese François Bernier nel 1684. Bernier ipotizzò l’esistenza di un diverso tipo di essere umano su ciascun continente, che si distingueva dagli altri per il colore della pelle e altre caratteristiche somatiche, senza però dare giudizi di superiorità o inferiorità di un tipo rispetto a un altro. La classificazione delle “razze” umane venne poi completata da Linneo alla fine del Settecento, che nel suo Systema Naturae divise gli uomini a seconda della provenienza e del colore della pelle. Le teorie razziste vere e proprie, però, risalgono al Diciannovesimo secolo, contemporaneamente alla comparsa del positivismo e della cieca fiducia nella scienza per risolvere i problemi sociali. Il loro scopo primario, negli Stati Uniti, era quello di giustificare su un piano “scientifico” l’istituzione della schiavitù. In Europa, il conte Joseph Arthur Gobineau, nel suo Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane del 1855, espose l’idea che la razza superiore fosse rappresentata dai tedeschi, considerati i discendenti più puri di un popolo mitico, gli ariani. Gobineau imputava inoltre la presunta decadenza delle civiltà alle mescolanze etniche.

Ad andare contro queste teorie fu Charles Darwin, che nel 1871 pubblicò L’origine dell’uomo. Darwin sosteneva che la specie umana fosse una sola, e quelle che venivano chiamate “razze” non erano abbastanza distinte da non risultare interfeconde, cioè da non potersi accoppiare tra loro. Le differenze tra queste presunte “razze”, benché vistose, erano del tutto irrilevanti. Ma l’insensato utilizzo del termine “razza” andò avanti: con la nascita del “razzismo scientifico” le persone venivano classificate non solo in base alla provenienza e al colore della pelle, ma anche in base alla bellezza e alle misurazioni antropometriche (l’indice cefalico e l’angolo facciale erano considerati una misura delle facoltà intellettive). Questo aprì la strada all’eugenetica, diventata tristemente nota nel periodo nazista. 

Per molto tempo, quindi, il concetto di “razza umana” è stato fondato su differenze nelle caratteristiche somatiche esterne (il fenotipo), come il colore della pelle, degli occhi, dei capelli. È solo nel secondo dopoguerra, però, che gli scienziati si resero conto che le misurazioni antropometriche non avevano alcun valore scientifico nel determinare le differenze fra popolazioni.

Lo sviluppo della genetica ha fatto sì che si cominciasse a guardare alla composizione genetica di un organismo (il genotipo) come elemento distintivo. A livello genotipico tutte queste differenze non ci sono. La genetica, infatti, ha più volte dimostrato che non esistono razze biologicamente separate e distinte in cui è possibile suddividere la specie umana. La variabilità genetica si distribuisce secondo un gradiente geografico, spiegabile con le numerose migrazioni e il mescolamento di popolazioni nel corso della storia. La “purezza razziale”, che alcune fazioni politiche vorrebbero riportare in auge anche oggi, non ha alcun senso.

Secondo Luigi Luca Cavalli Sforza, pioniere della genetica di popolazioni, “Vi è quasi sempre una sorta di continuità geografica della variazione fra i gruppi umani. Se andiamo da un’estremità all’altra del mondo in qualunque direzione, si passa piuttosto gradualmente da un tipo ereditario a un altro assai diverso. Le discontinuità sono rare e sottili, rendendo problematica la classificazione in razze. Quasi nessun altro mammifero mostra una variazione tra ‘razze’ tanto piccola quanto quella osservata nell’uomo”.

Luigi Luca Cavalli Sforza

Nel 1950, l’Unesco ha pubblicato una dichiarazione che attestava che tutti gli esseri umani appartengono alla stessa specie e che la razza non è un concetto biologico ma un mito. La dichiarazione era un sunto di tutti gli studi svolti fino a quel momento da antropologi, genetisti, sociologi e psicologi. Eppure, nonostante siano passati quasi settant’anni, c’è ancora bisogno di spiegarlo. Negli Stati Uniti, l’American society of Human Genetics, composta da 8mila genetisti, nel 2018 ha dovuto rilasciare una dichiarazione che, di nuovo, afferma che dal punto di vista scientifico parlare di razze umane e di supremazia di una razza su un’altra non solo non ha alcun senso, ma dimostra anche una scarsissima conoscenza della genetica umana. Ovviamente non è bastato, dal momento che alcuni studi scientifici vengono ancora strumentalizzati dalla politica per portare avanti idee e convinzioni del tutto sbagliate.  

John Novembre, biologo evoluzionista dell’Università di Chicago, ha portato come esempio al New York Times il caso dell’intolleranza al lattosio. Nel 2016, infatti, sono stati diffusi online video e immagini di esponenti di partiti di estrema destra che si facevano fotografare durante comizi e apparizioni pubbliche mentre bevevano latte. Questo perché uno studio del 2008 affermava che la possibilità di digerire il lattosio in età adulta era legata a una mutazione genetica presente solo in alcune parti del mondo, tra cui l’Europa. Questa variante genetica si è sviluppata in quelle popolazioni che, circa 5mila anni fa, allevavano vacche. Si trattava soprattutto di popolazioni del Nord Europa, ma i suprematisti bianchi hanno omesso di specificare che la stessa mutazione è presente anche in Africa e in Medio Oriente. Non è quindi possibile affermare che la possibilità di digerire il lattosio sia una prerogativa esclusiva degli europei o, comunque, di persone dalla pelle bianca.

John Novembre

Dopo la conclusione, nel 2003, dell’Hgp (Humane genome project), nel corso del quale è stato sequenziato l’intero genoma della nostra specie, gli scienziati si sono concentrati anche sulla storia evolutiva dell’uomo: l’uomo moderno ha un’origine sub-sahariana, e attraverso numerose migrazioni si è spostato dall’Africa colonizzando via via tutto il mondo. E proprio dall’Hgp arriva un esperimento che, una volta per tutte, dovrebbe far smettere di utilizzare a sproposito il termine “razza”. Tra i primi genomi completamente sequenziati c’erano quelli di James Watson e Craig Venter, genetisti americani di origine europea, e quello di Seong-Jin Kim, genetista coreano. Sia Watson che Venter condividevano più alleli (un allele è ciò che può variare in un singolo gene: per esempio, tutti gli umani hanno un singolo gene che determina l’aspetto dei capelli e i differenti alleli rappresentano le differenze di colore e consistenza) con Seong-Jin Kim, (1,824,482 e 1,736,340, rispettivamente) che tra di loro (1,715,851).

Altri studi sono arrivati allo stesso risultato: una review pubblicata su Nature nel 2004 afferma che le variazioni genetiche presenti all’interno della stessa popolazione sono più ampie di quelle riscontrate tra popolazioni di regioni geografiche diverse. Le caratteristiche genetiche che associamo a certe popolazioni non sono esclusive, non corrispondono a un unico gruppo, ma formano un gradiente. Per esempio, la mutazione che causa l’anemia falciforme, una malattia genetica del sangue che modifica la forma dei globuli rossi, è presente nelle zone del mondo in cui la malaria è comune. Il gene mutato, infatti, conferisce anche resistenza alla malaria. 

Un altro studio svolto da ricercatori della Stanford University ha esaminato la diversità umane osservando la distribuzione di 4mila alleli nelle sette maggiori regioni geografiche. Oltre il 92% degli alleli esaminati sono stati trovati in due o più regioni, e quasi la metà erano presenti in tutte e sette. Se esistessero razze diverse, o gruppi etnici totalmente separati, ci si aspetterebbe di trovare alleli caratteristici di un singolo gruppo e non presenti negli altri. Invece, solo il 7,4% dei 4mila alleli studiati erano specifici per una singola regione geografica. Non solo: non erano nemmeno così comuni, essendo presenti circa nell’1% delle persone appartenenti a quella regione. Come specie condividiamo tutti, indipendentemente dalla zona del mondo in cui siamo nati e viviamo, il 99,9% del Dna, e le poche differenze che esistono sono imputabili a fattori ambientali, non alla nostra biologia. 

Nonostante questo sia ormai noto, e nonostante ci sia stata anche la proposta di abolire la parola “razza” dalla Costituzione italiana, ancora oggi la politica cerca di etichettare come nemico comune chi ha un colore della pelle diverso, giocando sul fatto che ancora, per molte persone, il pregiudizio e i luoghi comuni valgono di più di una realtà dimostrata scientificamente.

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