Nel 1968, il New York Times pubblicò un breve articolo sulla protesta di una decina di femministe che interruppero i lavori dell’Equal Employment Opportunities Commission, un’agenzia indipendente creata con il Civil Rights Act, la legge del 1964 sui diritti civili. Con questo articolo, intitolato “The second feminist wave: what do these women want?”, l’autrice Martha Lear coniò una delle metafore più celebri del femminismo, quella delle ondate. Sebbene oggi questa metafora, usata per identificare i periodi di maggior fortuna del movimento femminista, sia stata messa in discussione, si è abbastanza concordi nel pensare che intorno al 2013-2014 sia iniziata la quarta ondata del femminismo. Dopo il periodo di disimpegno dell’inizio del nuovo millennio (secondo alcune teorie, motivato dalla voglia di leggerezza dopo il trauma dell’11 settembre), l’esplosione dei social network e la crisi economica del 2008 hanno portato alla nascita di una nuova consapevolezza sui temi politici e sociali, in particolare sul femminismo. A distanza di dieci anni, però, questa quarta ondata comincia a mostrare alcuni segni di declino, a partire dallo stesso Paese in cui è iniziata, gli Stati Uniti.
Il successo e la diffusione della quarta ondata femminista, che ha avuto il suo apice con il #MeToo nel 2018, si devono alla combinazione favorevole di viralità social e celebrity culture. Al 2013 e al 2014, infatti, risalgono alcuni eventi legati in un modo o nell’altro alle questioni di genere che hanno avuto un’eco mediatica incredibile: la pubblicazione del libro dell’ex direttrice di Facebook Sheryl Sandberg Lean In sul gender gap nel mondo del lavoro, il TED Talk della scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie We should all be feminists, il rapimento delle studentesse nigeriane da parte del gruppo terroristico di Boko Haram e la campagna #BringBackOurGirls, il discorso femminista di Emma Watson all’Onu, il Nobel per la pace a Malala Yousafzai e il massacro di Isla Vista compiuto dall’incel Elliot Rodger.
Secondo Sarah Banet-Weiser, professoressa di Comunicazione all’Università della California del Sud, questa quarta ondata femminista ha infatti un carattere eminentemente popolare, ovvero “si manifesta in discorsi e pratiche che circolano nei media popolari e commerciali”: senza Beyoncé che si esibisce di fronte a un enorme ledwall con la scritta “Feminist”, probabilmente il femminismo odierno non avrebbe conosciuto la stessa fortuna. L’aspetto più pop del femminismo convive però, spesso in maniera ostile, con movimenti più politicizzati, che hanno avuto grande successo specialmente in America Latina, come Ni Una Menos (che è arrivato anche in Italia come Non Una Di Meno) o il movimento della Marea Verde. Proprio questo movimento, nato nel 2018, ha portato alla depenalizzazione dell’aborto in molti degli stati del Sudamerica, dove fino al 2020 il 97% delle donne viveva in un Paese in cui era vietato interrompere una gravidanza.
A fare quasi da contrappasso al “femminismo popolare”, c’è quella che Banet-Weiser chiama “misoginia popolare”, che si manifesta specialmente negli spazi digitali della cosiddetta maschiosfera. Sia il femminismo che la misoginia popolare partono dalla constatazione di una crisi dei rispettivi generi e propongono un modo per risolverla. Negli ultimi anni, personaggi come Jordan Peterson o più di recente Andrew Tate hanno raccolto miliardi di visualizzazioni su YouTube e TikTok proponendo discorsi di esaltazione della mascolinità “tradizionale” messa in crisi dall’emancipazione femminile, spesso assumendo contorni misogini e violenti (Tate è attualmente agli arresti domiciliari con l’accusa di tratta di esseri umani, stupro e associazione a delinquere, ma continua ad avere numerosi sostenitori). Come scrive Henry Mance in un articolo sul Financial Times Magazine, a differenza della mascolinità crassa e demenziale dei modelli maschili degli anni Novanta, questi nuovi personaggi di riferimento ne propongono una visione più “intellettualizzata”, riuscendo ad attirare a sé un vastissimo pubblico che cerca una conferma autorevole per le proprie opinioni.
Proprio il successo di questi maestri di mascolinità, nonostante le numerose critiche di cui sono stati oggetto negli ultimi anni, è uno dei primi segnali dell’indebolimento del femminismo, perlomeno nella sfida dell’egemonia culturale negli spazi digitali. E proprio perché questa quarta ondata è nata in questi spazi, trainata dalla cultura pop, è bene vedere cosa sta succedendo da quelle parti per apprezzare altri segnali di crisi. Dopo anni spesi a parlare di body positivity, le modelle cosiddette “curvy” sono tornate a sparire dalle passerelle dell’ultimo fashion month: nelle 219 sfilate – a New York, Londra, Milano e Parigi – solo 17 brand hanno incluso almeno una modella plus-size, ovvero con una taglia superiore alla 46, secondo gli standard delle agenzie. La drastica perdita di peso delle Kardashian, che hanno dettato gli standard estetici dell’Instagram face negli ultimi dieci anni, il ritorno dello stile heroin chic con modelle magrissime e soprattutto la diffusione dell’Ozempic negli Stati Uniti, un farmaco contro il diabete che ha anche effetti dietetici, sembrano aver ampiamente ridimensionato nel giro di pochi mesi molti di quei discorsi sull’accettazione del proprio corpo che il femminismo aveva promosso.
Anche gli sforzi sulla “diversity” sembrano non portare ai risultati sperati: dopo le tante critiche sulle nomination agli Oscar (e in particolare sull’assenza di candidature femminili nella categoria “miglior regia”) e dopo che l’Academy ha cambiato i requisiti affinché un film possa entrare in lizza, generando le solite polemiche sulla “dittatura del politicamente corretto”, gli Oscar del 2023 sembrano essere tornati al punto di partenza: nemmeno una regista candidata, un solo film diretto da una donna nominato a miglior film e l’assenza di due date per favorite – entrambe nere – per la categoria di miglior attrice: Viola Davis e Danielle Deadwyler.
Questi cambiamenti nella cultura pop possono sembrare poco importanti, ma non va affatto sottovalutata l’importanza che il discorso mediatico ha per l’attivazione politica. Durante la presidenza Trump, tutto il mondo della cultura pop si era mobilitato per contrastare le azioni del presidente, tanto che riviste che si occupavano di tutt’altro (come ad esempio Teen Vogue) si erano improvvisamente messe a parlare di politica e di femminismo. Dopo l’elezione di Biden questa tendenza sta scomparendo e gli effetti si vedono anche nel dibattito sui temi di genere: il ribaltamento della sentenza Roe v. Wade del 1973, che ha portato al divieto di aborto in 13 Stati, non ha generato una mobilitazione massiccia come quella che ci si aspetterebbe dopo un momento storico come questo. Ci sono state, sì, delle proteste, ma non si è riusciti (o non si è voluto) replicare, per esempio, la Women’s March on Washington, la marcia organizzata nel giorno dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, che è diventata la manifestazione più grande della storia degli Stati Uniti.
Non è plausibile che i cinque milioni di persone portate in piazza nel 2017 dal movimento femminista nel giro di cinque anni abbiano cambiato idea su un argomento tra l’altro cruciale per le donne quale il diritto di aborto. Il fatto che Trump non sia più presidente e che quindi non ci sia più un “nemico” unico e facilmente individuabile a cui addossare tutti i mali del mondo ha senz’altro giocato un certo ruolo, ma non basta a spiegare perché il femminismo sembra stia scomparendo dibattito pubblico statunitense, sempre più succube delle assurde guerre ideologiche dei governatori repubblicani.
La periodizzazione canonica della seconda e della terza ondata femminista fa durare ciascuna stagione una decina di anni, e nel 2023 anche la quarta ondata ha raggiunto questo traguardo. Tra i motivi che hanno spinto molte femministe a criticare la divisione in ondate c’è proprio il fatto che ciascuna di esse viene identificata con una serie di conquiste, successi e tematiche che però riflettono soltanto i momenti in cui il femminismo è uscito dalla sua dimensione di “movimento” ed è entrato nella cultura pop e all’interno delle istituzioni. Negli anni Ottanta la stagione delle lotte oceaniche del decennio precedente sembrava conclusa, ma ciò non significa che in quegli anni non siano successe cose importanti per le donne o che le femministe siano andate in letargo per poi risvegliarsi all’alba degli anni Novanta.
Oggi lo scenario sembra lo stesso: potremmo trovarci sulla soglia, alla fine di un’epoca di mobilitazione massiccia che ha trovato il plauso quasi unanime di celebrità e politici, spesso saliti sul carrozzone femminista più per interesse personale che per una reale adesione. È un momento complicato, perché molte volte questo plauso porta con sé una legittimità politica che convince anche chi non è sempre così attento alle questioni femministe: quando il Cile era sotto i riflettori di tutto il mondo per la rivolta sociale al grido di El violador eres tú, sembrava aprirsi una nuova stagione di speranza per il Paese. Ora invece la nuova costituzione che includeva l’aborto come diritto umano è saltata e i cittadini hanno preferito un’assemblea costituente di destra conservatrice.
Nel saggio del 2016 Vulnerability in Resistance, Judith Butler, Zeynep Gambetti e Leticia Sabsay scrivono: “In che modo la richiesta politica di affrontare questi problemi deve essere diretta verso quelle istituzioni che dovrebbero rispondervi, mentre cerchiamo allo stesso tempo di resistere ai modelli di potere rappresentati da quelle istituzioni? Siamo bloccate nella situazione in cui ci sono due alternative opposte, il paternalismo o la vittimizzazione?”. Questa domanda riassume bene il cortocircuito entro cui il femminismo popolare della quarta ondata sembra essersi bloccato: è impossibile pretendere il cambiamento dalle stesse istituzioni (politiche, economiche e culturali) che sono responsabili della nostra oppressione. Il femminismo non può avere come unico obiettivo quello di far approvare delle leggi, sebbene siano una parte fondamentale delle lotte delle donne. Già negli anni Ottanta le femministe della Libreria delle donne di Milano evidenziavano come fosse sbagliato riporre tutta la fiducia del cambiamento nelle istituzioni, perché per la loro stessa natura appiattiscono la diversità delle vite delle donne accomunandole tutte in un’astratta “condizione femminile”. Il problema è che questo approccio, già problematico di per sé, è diventato una specie di prassi che si è allargata anche al di fuori dei confini della politica. Chiediamo alle aziende, agli e alle intellettuali o alle piattaforme tecnologiche di rispondere alle nostre richieste di inclusione e cambiamento anziché andare alla radice delle cose.
Parlare di una crisi del femminismo popolare in Italia può sembrare prematuro (basta solo entrare in una qualsiasi libreria per vedere quanti libri a tematica femminista escono ogni mese), ma la convivenza tra movimenti politicizzati e la banalizzazione delle istanze femministe proposta da celebrità e brand comincia a essere difficile e complessa anche qui. Così come la quarta ondata è arrivata con qualche anno di ritardo rispetto agli Stati Uniti, non è difficile immaginare che anche per noi presto o tardi comincerà un periodo di stallo, con l’incognita di un governo particolarmente ostile ai diritti delle donne e ai movimenti sociali.
Per questo, ora che ci affacciamo verso una crisi, è necessario sforzarsi di andare oltre l’ipoteca della legittimazione e del riconoscimento. Se vuole sopravvivere, il femminismo ha bisogno di smettere di inseguire l’endorsement delle celebrità e di uscire dal circuito delle giornate istituzionali. L’inganno del sistema delle ondate è quello di pensare che arriveranno tempi migliori, modi migliori e battaglie migliori, ma il femminismo è uno “stare in situazione”, una politica del presente. Quindi è necessario smettere di sperare che in futuro arriverà una nuova ondata a salvarci e continuare a creare le condizioni perché si possa cavalcare quella attuale.