Uno degli argomenti che sembra mettere d’accordo il centrodestra in una campagna elettorale segnata da tanti disaccordi è la necessità di una nuova rivoluzione liberal-sessuale. Il tema non viene discusso solo tra le schiere di Salvini e del Cav, ma il leader della Lega se ne è appropriato con più forza in questi giorni, immaginando un ritorno alle case chiuse – espressione virgolettata in un secondo momento su Twitter – e la realizzazione di una società dove fare l’amore fa bene e drogarsi no. Altrove c’è lo stesso vento di rinnovamento: la difesa di Tarantini nel processo Escort ha infatti sostenuto, a fine dicembre scorso, che favorire il lavoro volontario di una escort – come accaduto nel caso le ragazze portate nelle residenze di Berlusconi – non è reclutamento della prostituzione (reato punito dalla Legge Merlin), ma un sostegno all’imprenditorialità del business di chi sceglie volontariamente di vendere sesso. C’è differenza tra le due cose; e anche se ai partiti politici del centrosinistra non può fare piacere trovarsi d’accordo con quelli del centrodestra, specialmente di questi tempi, sono venti le proposte di legge che dal 2014 a oggi sono state presentate da quasi tutte le parti politiche per superare la Merlin (promulgata il 20 febbraio 1958).
I tempi sono cambiati e alla tragica vittima sfruttata, che per strada sta in equilibro precario su tacchi altissimi e sul filo della sopravvivenza, si è affiancata una figura sociale diversa, determinata ed emergente: la prostituta per scelta, anche detta sex worker. La legge Merlin sulla prostituzione è però un ostacolo al sex working: pur non vietando la pratica di per sé, la rende di fatto difficilmente realizzabile, a causa dell’ipotesi di reati come il favoreggiamento e l’induzione alla prostituzione. Per esempio, il locatore di un appartamento dove avvengono incontri può rischiare di essere perseguito per favoreggiamento o per induzione, mentre i siti che pubblicano annunci di escort non sono perseguibili perché si inquadrano come semplici fornitori di spazio per inserzionisti. Ancora, alcuni tentativi urbani, come la sperimentazione delle zone rosse, vengono discussi pubblicamente senza nessun richiamo al favoreggiamento. Infine, anche rispetto alla prostituzione forzata – in caso cioè la ragazza venga costretta –, la legge non ha né migliorato le condizioni delle vittime né promosso il distinguo tra questa e quella volontaria.
Certamente, prostituzione forzata e sex working sono agli antipodi per intenzioni e condizioni. Quando però si parla di misure per la regolamentazione del fenomeno che superino la legge Merlin – legalizzazione e depenalizzazione per esempio, ipotesi in cui non si punirebbero domanda e offerta e verrebbero stabiliti diritti e doveri delle prostitute – è molto probabile che le due condotte vengano accomunate e giudicate nello stesso modo.
Legalizzare o depenalizzare la prostituzione infatti, permettendo a quella forzata di uscire dalla marginalità e a quella volontaria di essere regolamentata, può rappresentare una risposta alla crisi economica, alla mancanza di lavoro, al desiderio di auto-imprenditorialità e di autonomia professionale, alla lotta contro la criminalità organizzata, alle disuguaglianze di genere e alla discriminazione di alcune categorie sociali, nonché al miglioramento delle condizioni di vita di prostitute e prostituti. Ma si tratta di una risposta ammissibile per la nostra società?
Se vogliamo parlare di libertà in maniera meno ossessiva – chi del resto può schierarsi in maniera assoluta contro il desiderio di libertà – dobbiamo chiedere a noi stessi: depenalizzare il sex working, o legalizzarlo, corrisponde alla scelta del male minore rispetto all’impossibilità di estirpare il fenomeno nella sua interezza? Oppure no? La prostituzione volontaria fa male a chi la esercita?
Seguendo il punto di vista delle sex workers, sostenuto nel nostro Paese soprattutto dalla Onlus Lucciole, le leggi sul lavoro e quelle di mercato in Italia dovrebbero concentrarsi sulla protezione dallo sfruttamento e dalla violenza, piuttosto che sul vietare il lavoro sessuale e sul penalizzare, oltre che discriminare, le persone che lo svolgono in maniera volontaria. Secondo questa visione lo Stato dovrebbe consentire pienamente la libera iniziativa economica e preoccuparsi soltanto di fare leggi che abbiano a cuore la sicurezza di lavoratori e lavoratrici del sesso: la prostituzione volontaria, se regolamentata, espone infatti agli stessi rischi di un qualsiasi altro lavoro usurante. Sono la strada, la coercizione, l’assenza di diritti individuali e personali – insomma, le condizioni di lavoro prive di diritti – a essere un problema e un ostacolo da rimuovere in futuro, non la vendita di prestazioni sessuali di per sé. Il come, però, è tutto da vedere.
Ci sono Paesi che in questo campo hanno scelto la via della legalizzazione attraverso leggi ad hoc, come la Germania. Altri, hanno scelto di depenalizzare, come la Nuova Zelanda. Tra i due approcci c’è differenza: il primo ha visto entrare in vigore leggi speciali per la prostituzione, come l’obbligo del controllo sanitario, mentre il secondo la mette sullo stesso piano di tanti altri lavori. C’è anche chi ha una visione opposta e punta all’estirpazione del fenomeno. È per esempio il caso della condotta neo-proibizionista di Svezia o Islanda, che considerano la prostituzione una forma di violenza e puniscono esclusivamente chi compra il sesso, cioè i clienti. La misura risponde a una visione del fenomeno molto tranchant: la prostituzione – anche quella volontaria – è vista come una pratica che fa male alle persone che la esercitano e quindi va vietata, fine della storia. Anche a costo di entrare con maggior forza nel campo delle libertà personali, lo Stato impedisce così l’autolesionismo del singolo, perché legge nel fenomeno non tanto una risposta alla crisi economica – sono in condizioni di povertà anche i maschi eterosessuali – ma un’espressione della disuguaglianza di genere e una forma di violenza nei confronti di donne e di alcune minoranze.
Gli effetti delle misure si contano a fatica. In Svezia, dove il provvedimento è in vigore dal 1999, in meno di dieci anni il numero di prostitute a Stoccolma è diminuito di oltre la metà. È anche vero che si parla dei numeri della prostituzione di strada, più visibile e monitorabile rispetto al sommerso della prostituzione indoor. Un dato sembra poi andare in controtendenza con la scomparsa del fenomeno: la crescita della prostituzione online, ossia di quei siti che mettono in contatto prostitute e consumatori.
Sul fronte della depenalizzazione si schiera anche Amnesty International, mentre uno studio italiano mostra che questa strada non ha prodotto evidenze nell’aumento della domanda, ma le ha invece indicate chiaramente quando si è trattato di quantificare il miglioramento delle condizioni delle prostitute. La depenalizzazione, però, è guardata ultimamente con maggior favore anche in conseguenza al fatto che Paesi che hanno legalizzato – e non depenalizzato – la prostituzione, come la Germania, stanno vivendo molte criticità. Come ha già raccontato un’inchiesta dello Spiegel nel 2013, la debolezza del modello tedesco, che per questo si è già pensato di riformare, riguarda proprio la struttura dei luoghi dove nella maggior parte dei casi viene esercitata la prostituzione: i bordelli legalizzati. Si tratta di una sorta di parchi divertimento che assorbono la maggior parte della grande richiesta del mercato sessuale tedesco. Secondo Havocscope, che fornisce alcuni dati utili sul mercato del sesso, la Germania è al quarto posto nel mondo per ricavi ed è l’unico Paese europeo inserito nella classifica dei primi dieci. L’Olanda, dove la prostituzione è stata ugualmente legalizzata, raggiunge soltanto la 17esima posizione.
Spesso, poi, nei bordelli tedeschi il sesso non si vende: si svende. La tariffa media in quelli flat-rate, ossia dove si paga solo il biglietto di ingresso e si possono consumare rapporti illimitati, è di 65 dollari. Quasi tutte le sex workers che lavorano nei bordelli non hanno veri e propri contratti da prostitute – nel 2007 un rapporto del Governo evidenziava come solo l’1% di loro avesse un accordo di questo tipo. In molti casi le lavoratrici, regolate con contratti da bartender o da hostess, pagano i proprietari dei bordelli come fossero semplici affittuarie delle stanze dove esercitano la professione e dove, spesso, finiscono anche per vivere. Questa misura permette a chi vuole evadere i controlli e le regole in materia fiscale e sanitaria di poterlo fare molto facilmente. Inoltre, non esistendo un permesso di soggiorno per questo tipo di mestiere – almeno, non ancora – ci sarebbe sempre una categoria di persone potenzialmente più a rischio di finire impiegata nella prostituzione forzata e migrante.
Le storture del modello tedesco hanno spinto molte sex workers locali a sostenere con decisione la strada della depenalizzazione, sul modello della Nuova Zelanda, un Paese dove la prostituzione è trattata alla pari di altri lavori e senza leggi speciali: per questo potrebbe avere presto persino un Ministero per lo sviluppo del mercato sessuale. C’è anche da dire che in questo Paese, vista la particolarità geografica che lo vede isolato rispetto alle tradizionali tratte migratorie, è più facile slegare la prostituzione volontaria da quella forzata. Nonostante i problemi, le sex workers sono molto convinte della propria lotta e testimoniano attraverso la voce delle associazioni non solo di essere soddisfatte della propria professione, ma anche di non considerarla affatto lesiva del benessere personale.
Eppure bisogna valutare anche la posizione opposta: quella di chi non crede che il sex working possa essere una risposta possibile a temi quali crisi economica, libera iniziativa, esclusione sociale o desiderio di libertà. Mi sono fatta l’idea che chi respinge il concetto stesso di sex working non finisca che per negare del tutto che il consenso sessuale può essere comprato. Perché, nel momento in cui lo si acquista, diventa automaticamente qualcos’altro e non siamo più nel campo delle libertà personali. Un po’ come avviene nella logica della compravendita di voti elettorali. Pagare qualcuno per ottenere il suo voto rappresenta sicuramente una risposta alla mancanza di consenso politico, ma si tratta di una risposta fuorviante a un problema reale, che nel momento in cui si realizza distorce la natura stessa del consenso e lo priva della sua libertà.
Tra le posizioni dei proibizionisti c’è anche la convinzione che il sex working possa avere delle conseguenze negative sulla salute mentale della persona. Uno studio condotto in Svizzera evidenzia come il carico di lavoro tipico del sex worker abbia un impatto negativo sulla salute mentale delle persone coinvolte. Altre testimonianze negative, anche in prima persona, delle lavoratrici del mercato sessuale sono contenute in Stripped, il libro di una ex lap dancer inglese che racconta come la presa di coscienza dei danni di un lavoro del genere sia stata lunga e successiva a un’iniziale fase di negazione del problema.
A giudicare, alla fine, sono anche e soprattutto i cittadini. C’è da scegliere tra uno Stato del ‘laissez-faire’ rispetto all’affermazione del mercato del sesso e uno Stato più presente, che pur normando il campo dei diritti individuali finisca per decidere che determinati sistemi di scambio, di lavoro e di mercato non sono compatibili con il benessere degli individui. Da questo giudizio dipenderà o meno un’altra rivoluzione liberale mancata. Sorry, ex Cav.