I ventenni non sono pigri o sfaticati: sono solo stanchi di essere sfruttati e precari - THE VISION
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Uno dei problemi che il nostro Paese si porta dietro da molto tempo è l’insofferenza di gran parte della classe politica e dell’informazione nei confronti delle nuove generazioni. Parlare dei giovani, in Italia, sembra che debba sempre e soltanto ridursi ad accusarli di qualcosa, attraverso luoghi comuni e rappresentazioni stereotipate ormai del tutto insopportabili. La pandemia ne è stata l’ennesima prova: nonostante la responsabilità che hanno dimostrato nell’aderire in massa alla campagna di vaccinazione – l’Italia ha il 79,2% di vaccinati fra i 18-24 anni, il numero più alto fra i grandi Paesi europei – nella narrazione comune sono stati, e continuano a essere, descritti come “untori” incoscienti, egoisti e opportunisti. Un altro racconto reiterato nell’ultimo periodo dai principali giornali generalisti e nei programmi televisivi è quello secondo cui i ventenni sarebbero pigri e sussidiati, poco innovativi e intraprendenti rispetto a un tempo. Per avvalorare questa tesi sono riportate, a cadenza quasi giornaliera, le testimonianze di imprenditori “disperati” che raccontano di non riuscire a trovare il personale per le proprie aziende e che se la prendono, dunque, con le nuove generazioni, accusandole di essere viziate, sfaticate, di poltrire sul divano e di preferire il “vergognoso Reddito di Cittadinanza” a un contratto di lavoro – spesso pessimo.

La realtà, con buona pace dei giornali e di certi datori di lavoro, è molto diversa da questa. L’Italia possiede la più alta incidenza di Neet – persone tra i 15 e i 29 anni che non sono né occupate né inserite in un percorso di istruzione o di formazione – in Europa, questi ultimi infatti sono 2,1 milioni. L’occupazione delle nuove generazioni, poi, rispetto all’inizio dell’anno è peggiorata di quasi due punti percentuali, raggiungendo il 29,8% – contro la media molto più bassa dei Paesi europei (17%) e Ocse (12%). L’attuale crisi pandemica ha aggravato questa situazione, con i neodiplomati e neolaureati che hanno pagato il prezzo più alto. L’indagine Eduscopio 2021 ha stimato che per i ragazzi che hanno terminato il proprio percorso scolastico presso gli istituti tecnici e professionali c’è stata, e continua a esserci, una maggiore difficoltà (-8%) nel trovare lavoro rispetto agli anni precedenti al Covid. Una contrazione sensibile è anche quella che è emersa nel Rapporto AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei neolaureati: il tasso è infatti sceso di quasi cinque punti percentuali per chi possiede una laurea triennale e del 3,5% per chi, invece, ha una magistrale. La situazione, già di per sé drammatica, è viziata in positivo dal contemporaneo aumento di assunzioni nell’area medico-infermieristica: se si trascende da queste, il quadro diventa ancora peggiore, con il -9,5% di occupazione nel Centro e con il -8,7% nel Nord, ovvero in quelle che sarebbero le due aree più dinamiche del Paese. Non va meglio neppure se si incrociano i dati occupazionali entro tre anni dalla laurea: in questo caso, gli occupati sono appena il 59,5% dei giovani fra 20 e 34 anni – con percentuali bassissime in Calabria (37,2%) e in Sicilia (38,3%) – a fronte dell’81,5% della media Ue.

La crescente disoccupazione giovanile viaggia di pari passo all’aumento di forme di lavoro instabile. Sempre più giovani sono infatti occupati in lavori precari involontari, sottopagati o in contratti part-time volti a mascherare rapporti lavorativi a tempo pieno. Oltre la metà – secondo Eures – dichiara di aver lavorato senza un regolare contratto, e quindi privata delle basilari tutele in materia di salute e sicurezza. Altrettanti giovani sono poi impegnati in stage e tirocini, pensati per formare le nuove generazioni e favorirne l’inserimento nel mondo del lavoro ma che, in verità, sono sempre più spesso usati per avere manodopera – già specializzata – a prezzo bassissimo. Diverse aziende purtroppo sfruttano tale misura, attivando tirocini per ragazzi con esperienze pregresse, facendoli lavorare a tempo pieno e scaricando parte della indennità sulla Regione d’appartenenza. A conclusione dell’esperienza, non solo molti non vengono assunti – si stima, ottimisticamente, che tale misura abbia permesso a un giovane su tre di trovare lavoro – ma spesso restano anche in balia dei ritardi di pagamento.

Anche per chi riesce a trovare un impiego il futuro è tutt’altro che in discesa o assicurato e ciò si deve anzitutto a una condizione di pre-esistente povertà. Circa un giovane su dieci, infatti, vive in assoluta povertà, circostanza che di certo non agevola i piani di chi cerca di raggiungere una condizione lavorativa dignitosa. A questo si aggiungono gli stipendi miseri – che sono troppo spesso inferiori ai 10mila euro annui. Più di due giovani su dieci, infatti, guadagna meno di 5mila euro all’anno, mentre tre su dieci arrivano a guadagnare a malapena fra i 5 e 10mila euro in dodici mesi. Una circostanza confermata di recente anche dal Rapporto Oxfam, secondo cui un giovane su tre guadagna meno di 800 euro lordi mensili. Non migliora la situazione dei laureati: fra gli occupati, quasi il 25% è costretto a rivedere al ribasso le proprie aspettative, adattandosi a svolgere lavori per i quali non si è formato e che richiederebbero un titolo di studio inferiore a quello che si possiede. Inoltre, proprio i laureati italiani – oltre ad avere maggiori difficoltà nel trovare lavoro rispetto ai colleghi europei – risultano anche fra i meno pagati d’Europa.

Rispetto a trent’anni anni fa il salario medio dei lavoratori anziché aumentare è diminuito, i redditi dei boomer invece sono cresciuti del 25% in più rispetto a quello delle nuove generazioni e il divario economico fra questi si è ulteriormente allargato. Gli anziani hanno una ricchezza media più alta del 13,5% della media nazionale, mentre quella dei giovani è inferiore del 54,6%. Non può stupirci dunque che, rispetto alla precedente generazione, i giovani conquistino sempre più tardi l’indipendenza, escano di casa intorno ai 30 anni, accendano più difficilmente un mutuo o siano già praticamente condannati a non poter replicare i guadagni dei propri nonni o genitori – nonostante abbiano più facile accesso all’istruzione universitaria e siano mediamente più istruiti di questi ultimi.

In una società che sembra costruita a misura delle generazioni precedenti, neppure si può pensare che, invecchiando, si possa finalmente raggiungere la tranquillità economica. Ciò dipende innanzitutto dal fatto che gli under 35 stanno ereditando dai più vecchi un debito pubblico in costante aumento e con cui dovranno fare i conti. Il sistema pensionistico, inoltre, è in enorme affanno e difficilmente sarà sostenibile nei prossimi anni. Un’analisi di Smileconomy per Repubblica è, a questo proposito, tristemente significativa. Secondo le proiezioni di questa società, la prospettiva di pensionamento per un lavoratore di 25 anni, con reddito netto fra i 1.000 e i 1.500 euro al mese, oscilla fra i 69 e i 73 anni; chi ha redditi inferiori, invece, potrebbe arrivare a sfiorare anche i 75. Tale situazione di profonda instabilità economico-sociale sta già gravando pesantemente sulla salute della società. Sempre più millennials e giovani della Gen Z finiscono per soffrire di seri disturbi psicologici, come ansia e depressione, per assumere psicofarmaci o comportamenti suicidari; gran parte di questi, inoltre, lamenta le differenze sociali presenti nel Paese; ritiene i partiti e i politici distanti e indifferenti ai problemi giovanili; accusa gli imprenditori italiani di essere interessati solo ai profitti, a discapito dei lavoratori.

Le nuove generazioni stanno subendo più di tutti i costi della crisi economica e dell’attuale pandemia, anche a causa di una direzione politica a carattere gerontocratico che non solo non li coinvolge dall’interno (gli incarichi politici in mano agli under 30, soprattutto nei ruoli chiave, sono pochi) ma che ne minimizza il ruolo e le battaglie sostenute. Se quello che viene offerto ai giovani è – nel migliore dei casi – un contratto a termine con scarsissimo investimento sul capitale umano, stipendio misero e turni massacranti, o nel peggiore dei casi un lavoro in nero, senza tutele per la salute e la sicurezza, non può stupire che ci sia chi preferisca ricevere un sussidio (solo il 3% degli under 25 ne ha fatto richiesta) o scappare all’estero, con tutti i problemi che comunque possono derivarne. Raccontare le nuove generazioni attraverso i soliti stereotipi, come egoiste, incoscienti o pigre e incapaci di approfittare dei gesti magnanimi di imprenditori dal cuore d’oro è comodo, ma rischia di sembrare l’ennesimo modo che la classe politica e gran parte della stampa utilizzano per non ammettere di aver fallito e mantenere il proprio prezioso status quo.

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