Unicef l’ha definita “Generazione Covid”: bambini, adolescenti e giovani che all’improvviso si sono ritrovati nel bel mezzo di una pandemia che ha stravolto le loro vite sul piano sociale, affettivo, fisico e psicologico. Sono loro le vittime che più sono passate inosservate in questi due anni, soprattutto perché gli effetti non sono così immediati da cogliere. Certo, non servono molte spiegazioni quando si leggono alcune delle frasi estratte dal testo di Anna, una ragazza di quattordici anni che ha vinto il concorso letterario indetto lo scorso anno dall’Ordine degli Psicologi della Regione Lombardia in collaborazione con il Garante regionale dell’infanzia e dell’adolescenza. Le ha pubblicate Unicef sul proprio portale e sono emblematiche quanto preoccupanti: “Adesso per me è difficile aprirmi al mondo. Prima ero diversa”, ha scritto in un testo intitolato Vorrei non essere mai nata.
A ribadire la gravità della situazione sono state diverse ricerche condotte in molteplici fasi della pandemia. Nel dicembre scorso è stata la Fondazione Soleterre, in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano, a rendere noti i risultati di una ricerca effettuata negli ultimi mesi del 2021. Si parla, tra l’altro, del 17,3% dei giovani intervistati che avrebbe pensato “quasi ogni giorno” e “più della metà dei giorni”, in relazione al proprio stato d’animo attuale, “che sarebbe meglio morire o farsi del male a causa del dolore che la vita provoca”. Un’indagine della Società Italiana di Pediatria, condotta sul periodo marzo 2020-marzo 2021, ha rilevato un incremento dell’84% degli accessi al pronto soccorso per patologie neuropsichiatriche, con un aumento delle situazioni di ideazione suicidaria (+147%), depressione (+115%) e disturbi della condotta alimentare (+78,4%).
Per provare a comprendere il problema bisogna fare due premesse. Innanzitutto è necessario inquadrare da un punto di vista psicologico la questione. Lo psicologo Erik Erikson aveva individuato nell’adolescenza il periodo della ridefinizione delle conquiste identitarie precedenti. In poche parole, il momento in cui si smonta la propria rassicurante identità costruita durante l’infanzia e se ne ricostruisce una nuova, che guarda verso l’età adulta, attraverso un periodo di “crisi psicosociale”. Una fase cruciale che avviene attraverso l’interazione con gli altri e, se gestita male, può generare una frammentazione identitaria, con un conseguente senso di inadeguatezza derivante da un conflitto interiore non risolto. I diversi lockdown e la situazione sociale di costante incertezza che abbiamo vissuto in questi anni sono trascorsi mentre almeno il 6,67% della popolazione italiana attraversava questa fase evolutiva.
Una seconda premessa va fatta inquadrando il sistema in cui gli adolescenti, oggi, si trovano immersi. La costruzione della propria identità si inserisce infatti in un contesto sociale fortemente individualista e competitivo, che porta i ragazzi a subire le pressioni che giungono dalla società stessa e, spesso, anche dalla famiglia. Una realtà che spinge a essere sempre performanti rimanendo costantemente al centro della scena e rifiutando a priori una fisiologica “normalità” spesso confusa con mediocrità e, di conseguenza, con il “pericolo” di finire nell’anonimato. In questo, giocano un ruolo decisivo i social, che offrono principalmente modelli incentrati sull’apparenza e sull’esteriorità. Questi modelli hanno una forte influenza anche sulla concezione di futuro dei ragazzi, per i quali il successo diventa un’ossessione sempre meno legata allo sviluppo delle proprie attitudini o passioni, ma fine a se stesso. A questo si aggiunge una vera e propria paura del futuro, che si presenta sempre più precario e incerto, con l’effetto di intimorire gli adolescenti invece che stimolarli. I social, poi, raccolgono ciò che ognuno desidera mostrare di sé, creando una percezione distorta della realtà verso la quale un adolescente è portato a vivere un senso di inferiorità ed esclusione, anche se immotivato. Così, l’unico appiglio rimane la ricerca ossessiva dell’approvazione altrui attraverso il sistema dei like, che influisce fortemente sulla percezione di sé. È la fotografia di una generazione già di per sé fragilissima, vittima di un modello culturale costruito negli ultimi decenni che l’ha resa ancor più sensibile agli stravolgimenti avvenuti in questi due anni di pandemia.
In questo contesto, dunque, le criticità sono state – e continuano a essere – molte e sono individuabili soprattutto su tre piani: il primo è quello scolastico, luogo principale non solo della formazione, ma anche della socializzazione. Affrontare la pandemia con la didattica a distanza (DAD) è stato necessario ma ha visto acuirsi le disuguaglianze sociali insieme alla crescita della dispersione scolastica. A farne le spese, naturalmente, sono stati soprattutto i più fragili, sia dal punto di vista personale che del contesto familiare di appartenenza. Il secondo piano è quello dello stile di vita: si registra una crescita dei livelli di inattività fisica, di sedentarietà, di obesità infantile, disturbi del sonno e di qualità di gestione del tempo libero. Infine, l’aspetto più corposo che, in un certo senso, racchiude anche gli altri due, è quello prettamente psicologico.
Sono aumentati sintomi di depressione e ansia, disturbi dell’alimentazione, irritabilità e sintomi di stress. Ancor più preoccupante è l’aumento dei tentativi di suicidio da parte di adolescenti, che si unisce ai numeri impressionanti relativi all’autolesionismo. Emerge poi anche il fenomeno del languishing, ovvero un senso di stagnazione, di vuoto emotivo e di assenza di benessere, diffuso soprattutto tra i ragazzi e potenzialmente molto dannoso, essendo appurato che rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di disturbi mentali.
Purtroppo, si tende ancora a sottovalutare l’importanza della salute mentale dei ragazzi e spesso non si ha la capacità di riconoscerne gli eventuali campanelli d’allarme. Intercettare segnali di difficoltà specifiche è diventato più difficile e si è reso sempre più determinante il contributo di figure esterne alla famiglia, come insegnanti e altre figure educative. Proprio per questo si rivela importante intervenire a monte, supportando le famiglie nella gestione e soprattutto nella prevenzione di problematiche di questo tipo.
Negli scorsi mesi è stata presentata una proposta di legge finalizzata a rendere lo psicologo una figura stabile in ogni istituzione scolastica: nel frattempo, un incentivo al supporto psicologico a scuola è già stato finanziato dal Governo per il 2022. L’obiettivo, in sostanza, è quello di istituzionalizzare una figura già presente in molti istituti, di cui però in passato ci si poteva avvalere principalmente attraverso accordi con professionisti e Asl. Questa è sicuramente una soluzione molto positiva perché darà un supporto utile al lavoro degli insegnanti, ma non sarà sufficiente per affrontare la situazione attuale. Il potenziamento del Sistema Sanitario Nazionale, infatti, resta il punto chiave della questione, anche per i servizi che riguardano la salute mentale. Serve però un rafforzamento strutturale, di diversa natura rispetto al tanto discusso bonus-psicologo che alla fine non è stato inserito nella legge di Bilancio per mancanza di fondi. Oltre a un potenziamento del servizio di neuropsichiatria infantile, che il Governo ha in parte avviato, il presidente dell’Ordine degli Psicologi David Lazzari ha chiesto un potenziamento di servizi di prossimità come i consultori psicologici.
Se è urgente intervenire sulle situazioni critiche già esistenti, è altrettanto fondamentale impegnarsi rispetto alla prevenzione. Il problema del disagio dei più giovani, in tutte le sue sfaccettature, deve essere messo al centro delle politiche sociali. Interessanti sarebbero soluzioni che prevedano una spinta per dar vita a maggiori opportunità aggregative, nonostante la pandemia, così come è decisivo affrontare le problematiche legate all’ingresso al mercato del lavoro che generano nei ragazzi un continuo senso di incertezza. Sarebbe poi fondamentale intervenire in maniera strutturale offrendo supporto alle famiglie e, in particolare, sostenendo la formazione di chi lavora a stretto contatto con bambini e adolescenti, in tutti i settori: nella scuola in primis, ma anche all’interno di associazioni sportive e culturali. Insomma, per arginare questa situazione, sarebbe determinante investire per creare figure competenti in grado di lavorare con i giovani, che possano essere in grado di intercettare le loro difficoltà e, allo stesso tempo, di svolgere un ruolo educativo e inclusivo, in collaborazione con le famiglie.