Quando nel 1990 Julia Roberts interpretò la prostituta in Pretty Woman le reazioni degli spettatori furono unanimi: milioni di persone si innamorarono di lei, decretandone il successo internazionale. Ventiquattro anni dopo, all’uscita del primo capitolo di Nymphomaniac nel 2014, Charlotte Gainsbourg raccontava le scene di sesso estreme girate sotto la regia di Lars Von Trier e di come avesse indossato una vulva di silicone per coprire gli organi sessuali, mentre le scene di vero e proprio sesso furono girate da anonimi attori porno. L’attrice francese dichiarava che non sapeva se sperare che al cinema poi si vedesse che non fosse lei, o invece confidare nella verosimiglianza.
Julia Roberts, che nella sceneggiatura era una che offriva rapporti a pagamento, verrà vista per sempre come una principessa salvata dal cavaliere sulla Lotus. Gainsbourg, invece, come un’eccentrica attrice europea che ama scandalizzare, ma che non ha fatto veramente quelle scene.
Poche settimane fa mi sono imbattuta in un’intervista a una ex pornostar, Nikita Bellucci, che ha iniziato la sua carriera nel porno nel 2011 per poi terminarla nel 2016. Bellucci, il cui vero nome è Nikolett Pósán e di cui si trovano su internet dettagliate informazioni a proposito della sua collocazione geografica e della sua famiglia, diceva di aver deciso di non aver figli. Scelta libera e personale, se non fosse che in questo caso la decisione era dettata da fattori esterni, come la paura per l’incolumità propria e del futuro bambino. Dal momento in cui ha deciso in piena autonomia e consapevolezza di mostrare dei filmati in cui fa sesso, infatti, la sua vita è diventata particolarmente difficile. Ai giornalisti ha descritto il calvario che vive quotidianamente e di come il suo vecchio lavoro la perseguiti nonostante lo abbia lasciato da oltre due anni, costringendola a difendersi da sola. Negli ultimi mesi, l’attrice francese ha iniziato una campagna in cerca di sostegno da parte della società, del movimento femminista e della politica, coinvolgendo anche Marianne Schiappa, l’equivalente francese del ministro alle Pari opportunità. La sua richiesta è semplice: anche le attrici porno hanno bisogno di voi, esattamente come Rose McGowen, Asia Argento e tutte le donne molestate da Weinstein.
Difendere le attrici porno, però, è nettamente più difficile: il confine tra quello che è recitazione e quello che è reale per molti non è così chiaro come nel caso delle attrici di cinema e teatro. Io stessa, devo ammetterlo, ho avuto grosse difficoltà a credere totalmente all’idea di completa libertà sostenuta da alcune attrici. Quello che mi sono imposta di fare è stato cercare di guardare al fenomeno senza nessun moralismo o preconcetto sociale e religioso derivato dal mio essere una donna trentenne cresciuta in un Paese cattolico. Non trovo giusto applicare il mio metro di giudizio ad altri individui, in quanto frutto di esperienze personali non trasferibili su altri soggetti. Per certi versi, rimane il dubbio che il porno e tutta l’industria collegata siano solo una struttura che innesca un meccanismo fortemente degradante per la donna, la quale può essere inserita in uno schema di subordinazione rispetto all’uomo – di cui può essere moglie o madre – senza che la sua fisicità sia in nessun modo compresa nella propria descrizione soggettiva. La questione legata alla parità sessuale, ma soprattutto al potere del proprio corpo da rivendicare, ha viaggiato nei secoli abbastanza in sordina anche all’interno del movimento femminista. Alla fine degli anni Settanta, due attiviste come Gloria Steinem e Bella Abzug sostenevano che la pornografia rappresentasse un passo indietro per le donne e che si trattasse della pura mercificazione del corpo in rappresentanza dei gretti desideri maschili. In sintesi, il porno legittimerebbe il concetto della donna-oggetto e sarebbe lesivo dei diritti femminili.
Eppure sono diverse le donne che non la pensano così. Una di queste è Kelly Holland, CEO della Penthouse Entertainment. Holland – che ha iniziato a scrivere, dirigere e produrre porno nel 1994 – ha le idee ben chiare sul fatto che le donne nel porno non siano solo un soggetto passivo: scene che possono essere apparentemente degradanti come rough sex o bukkake, sono volontariamente e consapevolmente accettate dalle attrici che utilizzano il proprio corpo nei modi che preferiscono e consce che si tratti solo di un’esasperazione della realtà. Il cinema hard non è tanto diverso da una qualsiasi pellicola: la pornografia nutre delle fantasie, esattamente come succede nei film tradizionali, senza che nessuno debba spiegare agli spettatori che gli attori non sono realmente quello che interpretano. Se il pubblico immagina spesso le stesse attrici come delle poverine con problemi di droghe o storie di abusi, la Holland, che ha lavorato con centinaia di ragazze, parla invece di ragazze estremamente intelligenti, coscienti del proprio corpo e della propria sessualità, con – al peggio – un’innata insofferenza per l’autorità imposta.
Questo non significa che sia un mondo magnifico, uno shangrilà di vagine e peni felici. I casi di maltrattamenti sul set sono all’ordine del giorno, ci sono violenze sessuali come quella subita da Stoya da parte di James Deen che non sono state prese nella dovuta considerazione perché a danni di soggetti che vengono considerati moralmente meno difendibili. Le condizioni contrattuali sono pessime: gli attori spesso sono costretti a girare scene senza profilattico e contraggono malattie che impediscono loro di lavorare e mantenersi. La letteratura contro la pornografia è ampia e gli abusi sono largamente documentati: ci sono inchieste importanti che indagano sul lato particolarmente oscuro dell’intrattenimento per adulti.
Al di là dei problemi oggettivi che esistono in questo mondo, ci sono però anche dei luoghi comuni sul porno. Uno dei pregiudizi più diffusi, come già detto, è che le attrici siano donne con gravi problemi mentali, un passato di abusi e problemi di dipendenze o alcolismo e che la pornografia porti a un’escalation di violenze da parte degli uomini. Uno studio dell’Università del Texas confuta l’ipotesi per cui le interpreti femminili nell’intrattenimento per adulti abbiano tassi più alti di abuso sessuale infantile, problemi psicologici e uso di droghe rispetto alle donne “normali”. Lo studio ha preso in considerazione 177 attrici porno e i risultati hanno dimostrato che si identificavano per lo più come bisessuali, avevano più partner sessuali rispetto alla media, ma erano più attente alle malattie veneree e si godevano l’erotismo più del campione speculare di casalinghe e studentesse. In termini di caratteristiche psicologiche, le attrici porno avevano livelli di autostima più alti, sentimenti positivi, sostegno sociale, soddisfazione sessuale e spiritualità rispetto al gruppo di controllo.
Per quanto riguarda i tassi di stupri e violenze sessuali negli Stati Uniti, i livelli riportati sono i più bassi dagli anni Sessanta. In una recente ricerca Christopher J. Ferguson, professore di psicologia, sostiene che l’accesso alla pornografia è cresciuto in Giappone, Cina e Danimarca mentre le statistiche sugli stupri sono crollate. Negli Stati Uniti, le regioni con un minore numero di accessi a Internet e alla pornografia tra il 1980 e il 2000, hanno registrato un aumento del 53% dell’incidenza delle violenze sessuali, mentre gli stati dove la frequentazione di siti a luci rosse è maggiore hanno rilevato un calo del 27% nel numero di gli stupri denunciati, come riporta un articolo pubblicato nel 2006 da Anthony D’Amato, professore di legge alla Northwestern University.
La pornostar Casey Calvert non dà decisamente l’idea di una disperata strafatta di metanfetamine: laureata con lode, capace di scrivere un testo molto interessante per l’Economist, sostiene che la sua oggettivazione avviene solo quando è lei a decidere che questo accada, spostando così l’ago della bilancia. Il porno, tra l’altro, le ha dato la possibilità di controllare la propria sessualità e di sentirsi libera. Belle Knox è un’altra attrice che, per il fatto di aver deciso di pagarsi gli studi recitando scene di sesso, si è beccata – da parte dei più grandi giornali americani – dell’esibizionista, della manipolatrice, della drogata, della disturbata e della potenziale untrice di malattie sessualmente trasmissibili.
Stefanie Williams dell’Huffington Post, considerata una giornalista vicina al neo femminismo alla Lena Dunham, scrive un articolo che oscilla tra il compatimento della povera vittima Belle e la descrizione dettagliata di quello che una donna non dovrebbe mai fare (come portarsi vicino al viso un membro di grosse dimensioni), pena l’immediata perdita di potere decisionale e conseguente degradamento. Le anti-porno, moraliste e proibizioniste della prostituzione, delegittimano attrici come Calvert o Knox: le considerano vittime oppresse, carne da macello incapace di utilizzare il proprio cervello e – seguendo le teorie della scrittrice e femminista radicale Andrea Dworking – propongono leggi antipornografia, per rendere punibile a livello penale chiunque compia atti sessuali ripresi in video e destinati al commercio, perché assimilabili a uno stupro.
In Francia, totalmente d’accordo con quest’idea protezionista che vede nelle donne coinvolte nell’industria a luci rosse delle povere deficienti, le autodefinitesi femministe del Front National di Marine LePen hanno dato il loro contributo al dibattito, aggiungendo anche che occorrerebbe smetterla con questo femminismo di contrapposizione, perché le donne dovrebbero essere riconosciute in un ruolo complementare all’uomo. Aggiungono anche un delirante pamphlet contro i matrimoni omosessuali, colpevoli di ridurre il ruolo femminile in un’ottica di diminuzione della specie.
Pietro Adamo, scrittore e docente dell’università di Napoli, nel suo saggio del 2004 Il Porno di massa, ha una visione diametralmente opposta: l’hard non è solo una sostanziale riproposta dell’ordine esistente tra i due sessi come sostengono le femministe estreme e i conservatori. Il fatto che siano filmate anche pratiche visibilmente degradanti per le donne è solo sintomo di un bisogno dell’uomo e delle stesse – che sono anche spettatrici per quasi il trenta per cento dei casi. È una risposta tranquillizzante a un’esigenza naturale: riproponendo vecchi pregiudizi e schemi, allevia le ansie, conferma schemi mentali e non solleva questioni sulla realtà oggettiva dei rapporti tra uomo e donna.
Le femministe “pro-sex” ne fanno invece una questione di uguaglianza. Le donne godono del sesso allo stesso livello degli uomini, che sia in camera da letto, di fronte uno schermo o durante una scena che coinvolga delle attrici. La famosissima Erika Lust, regista a luci rosse svedese/spagnola con un gran gusto cinematografico, ha deciso di scegliere un altro punto di vista per mostrare il sesso. Stanca degli squallidi siti e dei pop-up che invitano a tentare la fecondazione delle vicine di casa, ha aperto il proprio studio e la propria piattaforma. La pornografia può essere intelligente, artistica e le donne non servono solo a dare piacere ma possono prenderne. I film di Lust si concentrano sul lato passionale e immaginifico del sesso, traducendo in immagini racconti profondamente erotici ed evitando di puntare la telecamera fissa su un atto puramente meccanico.
L’idea di fondo è di liberare l’immagine del sesso dalla grettezza che porta con sé, inevitabilmente, moralismi, condanne e le conseguenti azioni di disprezzo e minaccia nei confronti delle attrici che lo interpretano. Soprattutto perché la pornografia è attualmente la prima fonte di educazione sessuale per i ragazzi e, citando Lust, fornire del pessimo porno è equivalente al portare i ragazzini solamente al fast food.
Per quanto mi riguarda, sono dell’idea che fast food e ristoranti stellati possano convivere tranquillamente. Basta semplicemente spiegare bene come sono preparati i cibi, quali ingredienti vengono utilizzati e accertarsi che a un kebab venga garantita la stessa dignità e rispetto della pizza margherita di Cracco.