Da un po’ di tempo molti italiani si svegliano e si accorgono di essere radical chic a loro insaputa. Così sono stati definiti dal compagno di bevute o dall’hater di turno su Facebook. Possibilmente non sono nemmeno di sinistra e non hanno un euro bucato in tasca, ma si beccano l’ingiuria e incassano. È la terza Repubblica, e la pacchia è appena iniziata.
L’origine del termine radical chic non ha nulla a che vedere con l’accezione con cui viene usato e abusato oggi, nel 2018. Anzi, no, una cosa in comune ce l’hanno: un attico a New York.
Tom Wolfe, lo scrittore de Il falò delle vanità e giornalista d’alto rilievo, coniò per primo questa espressione nel 1970, in un articolo per il New York Magazine in cui descriveva un party che aveva catturato la sua attenzione. La moglie del direttore d’orchestra Leonard Bernstein, Felicia, aveva organizzato un ricevimento nel loro attico su Park Avenue, a Manhattan, per raccogliere fondi a favore delle Pantere Nere, un’organizzazione rivoluzionaria che in quegli anni portava avanti le battaglie delle comunità afroamericane negli States. I camerieri erano tutti rigorosamente bianchi, per non urtare la sensibilità degli ospiti: un miscuglio tra neri della classe operaia, bianchi dell’alta società, uomini di potere e cultura. L’intellighenzia di New York. Wolfe criticò aspramente l’atmosfera che si respirava quella sera, quei signori tutti caviale e Champagne che dal loro piedistallo inscenavano un’appartenenza proletaria, affezionandosi alle istanze delle classi più deboli più per tendenza che per un reale coinvolgimento.
Quasi 50 anni dopo, il termine radical chic ha subito diverse trasformazioni e viene usato, per lo meno in Italia, come un’onta da scagliare contro l’avversario politico. Il popolo segue il lessico martellante degli esponenti politici e si esprime con gli stessi toni. L’uomo che più di tutti incarna la figura del radical chic moderno, colui che non può parlare dei problemi della gente “perché ha fatto i soldi”, è senza dubbio Roberto Saviano. Molti, tra cui il turbofilosofo Diego Fusaro, lo accusano di fare il tuttologo da un lussuoso attico di New York. Posto che Pasolini e De André non vivevano in una catapecchia di periferia, e che Lennon e Sartre non rovistavano tra le pattumiere per procurarsi del cibo, Saviano non possiede nessun attico a New York.
La strategia del populismo è quella di demonizzare la fetta della società di cui fanno parte artisti, intellettuali e pensatori d’ogni genere, coloro che vengono definiti “di sinistra ma col portafoglio a destra”. Spesso a lanciare anatemi del genere sono esponenti del calibro di Giorgia Meloni, che si lamenta del Rolex di Gad Lerner, ma si presenta in Parlamento con una costosissima borsa Loius Vuitton.
La tattica del “finto poraccio” è la stessa del presidente-operaio Berlusconi, o di Grillo che predica la povertà di San Francesco da un resort di lusso a Malindi. Conquistare l’elettorato ormai è una pratica che assomiglia pericolosamente al televoto di un reality-show: vince chi si immedesima meglio nel popolo, o chi finge di comprenderlo fino in fondo. I premi Nobel sono diventati dei professoroni con la puzza sotto il naso, il parere degli artisti e degli scrittori conta meno di zero. I punti di riferimento sono cambiati: la politica non pende più dalle labbra del Moravia di turno, oggi certi personaggi fanno paura, sono considerati dei nemici di quel popolo che ha bisogno di un volto rassicurante. Di uno di loro.
E quindi ci dobbiamo sorbire Di Maio che retwitta un pensiero sulle banche e sulle coperture finanziare scritto da Jerry Calà, e va a pranzo con Lino Banfi – Truffaut chi? – mentre Salvini loda Rita Pavone nella battaglia contro i Pearl Jam. Chi mostra una parvenza di progressismo, di umanità o di tolleranza finisce automaticamente nella lista nera, alla voce radical chic.
Questa espressione assume contorni diversi in ogni parte del mondo, a partire dalle varianti nella terminologia. Noi italiani associamo il radical chic a un individuo, mentre in origine Wolfe lo collegava al concetto e non alla persona. Per lui i radical chic erano quelli che fingevano posizioni radicali senza esserlo veramente, solo per apparire nel proprio ristretto circolo autoreferenziale. Se Wolfe voleva stigmatizzare chi si occupava di politica solo per apparenza, oggi paradossalmente viene usato per attaccare qualcuno ritenuto troppo engagé per il suo status sociale. Come se chiunque guadagni più di 800 euro al mese non possa provare empatia per nessuno. In questo senso, il termine è usato solo nel nostro Paese.
In molti altri – ad esempio Brasile, Spagna, Portogallo e Francia – il termine corrispettivo è “sinistra al caviale”. I francesi usano anche la variante bobo: borghese-bohèmien. In Irlanda il caviale viene sostituito con il salmone affumicato, piatto considerato elitario, mentre in Inghilterra con lo Champagne. Negli Stati Uniti si usa l’espressione limousine liberal (liberale da limousine) sempre ricollegandosi al lusso. Particolari i termini tedeschi, con una doppia versione: Salonbolschewist, ovvero bolscevico da salotto, e Toskana-Fraktion, per schernire le villeggiature in Toscana degli intellettuali di sinistra. In Italia, soprattutto nei meandri più rabbiosi del web, il termine perde i connotati ideologici, considerando che partiti come il M5S tendono a recidere la dicotomia destra-sinistra, e tutto si riduce a quella che un tempo veniva definita invidia sociale.
Quando la forbice sociale si allarga a dismisura – complici la crisi e le politiche che da decenni colpiscono i ceti deboli – nasce l’anarchia della frustrazione. Chiunque può dire qualsiasi cosa, protetto dall’anonimato del web e armato di pallottole d’odio. Aizzare il popolo ferito non è mai stato così facile, basta mettere il dito nella piaga premendo proprio sulle difficoltà economiche. Invece di combattere il precariato è più comodo incattivire la massa incolpando chi precario non è. Il mantra suona più o meno come: “Voi siete poveri e la colpa è di quello scrittore che invece è ricco.” Scrittore che, per inciso, in quest’epoca storica non può fare un discorso sull’immigrazione senza venir definito un ipocrita, soltanto perché non ospita qualche migrante a casa sua o perché ha troppi soldi per capire il degrado delle periferie, il dramma di non arrivare a fine mese, la vicinanza di un campo rom. Anche quando a fare certi discorsi “di sinistra” è uno studente fuorisede che campa facendo il cameriere a settecento euro al mese, la sostanza non cambia: è comunque un radical chic. Lo scrittore perché non è abbastanza povero, lo studente perché non è abbastanza barbaro.
È la rivolta contro l’intellettuale, l’appiattimento sociale che porta a una guerra tra disgraziati. Ha analizzato bene la situazione Michele Serra – radical chic anche lui, ovviamente: “Nella vulgata di destra è diventato ‘radical chic’ tutto ciò che odora di solidarismo (è per lavarsi la coscienza!) o di amore per la cultura (è per umiliare la gente semplice!) e ovviamente di critica del populismo (è disprezzo per il popolo!). Più in generale, il termine è semplicemente perfetto per ridurre quel vasto e disorientato mondo detto ‘sinistra occidentale’ a una ipocrita cricca di potenti con la puzza sotto il naso che hanno perduto ogni rapporto con ‘il popolo’.”
Siamo arrivati al punto in cui se osi criticare la chiusura dei porti, o indossi una maglietta rossa, immediatamente vieni considerato un mondialista al soldo di Soros, una puttana dei poteri forti che si avvale del gonfiore del proprio portafoglio. Anche se in tasca non hai un centesimo.
Se è tollerabile (e persino condivisibile) una ritrosia nei confronti di certi ambienti riconducibili al significato primario di radical chic (Bertinotti col pullover di cashmere che sorseggia un brandy tra ciellini e vallette del Bagaglino starebbe sul cazzo anche a un santo) è invece quasi un obbligo morale ripristinare l’ordine lessicale, dare il giusto nome alle cose. La prosopopea di chi stigmatizza le magliette rosse, le Ong, i volontari e persino una semplice presa di posizione contraria al governo attuale, non è altro che una distorsione di un termine, e quindi dell’intero fenomeno. Perché la gente poi replica le mosse e le parole del proprio idolo: in passato faceva lo sguardo alla Clint Eastwood e si muoveva come Clark Gable, adesso parla come Sibilia. Quando Nanni Moretti afferma che “Le parole sono importanti” (e proprio in quel film gli sarebbe venuta un’ulcera perforante solo a sentire la parola radical chic) intende proprio denunciare un sopruso verbale, un’alterazione dei meccanismi basilari del linguaggio e del significato stesso. Un linguaggio che si è esteso ben oltre le competenze canoniche.
A Pisa, sul muro del convento di Sant’Antonio, è presente da 29 anni il murale Tuttomondo di Keith Haring. La famosissima opera è fotografata da turisti di tutto il mondo e rappresenta il pensiero di un autore iconico nel Novecento. Il nuovo assessore alla cultura, il leghista Andrea Buscemi, l’ha considerato “Modestissimo e banalissimo” e ha accusato coloro che ne hanno autorizzato la realizzazione di essere “Delle menti perverse, profondamente e grottescamente radical chic”. D’altronde non stupisce sentire il termine fuoriuscire dalla bocca dell’esponente di un partito che ha come leader il massimo esponente di questa mistificazione verbale: Matteo Salvini, sempre pronto a puntare il dito, meglio se contro gli intellettuali, appellandosi alla loro condizione economica – come se lui fosse un cassaintegrato che per comprarsi una caffettiera utilizza i punti del discount. Perché, inutili girarci intorno, ormai intellettuale è diventato un sinonimo di radical chic.
È in atto un processo di fobia nei confronti delle forme di pensiero più elaborate. Questo ha radici storiche ben delineate. D’altronde nel Mein Kampf, Hitler definiva gli ebrei degli “intellettualoidi”, in tono dispregiativo, mentre considerava i dotti come uomini poco inclini alla concretezza di risultati.
A quanto sembra, i principali nemici della terza Repubblica sono i radical chic, che comprendono sia milionari dell’alta società che padri di famiglia costretti a stringere la cinghia. Un ammasso disorganico accomunato da un unico aspetto: l’intolleranza verso il populismo. Non verso il popolo, di cui fanno parte esattamente come gli urlatori da tastiera e i politici milionari che odiano gli altri milionari. È giusto riconsegnare il termine radical chic alla sua dimensione, quella di Wolfe e della patinatura mascherata da délabré. Tutto il resto non c’entra nulla, è solo un ragliare continuo nella direzione sbagliata, in una guerra fratricida. Perché se il significato è quello attribuitogli da Meloni, Grillo e Salvini, allora sì: in Italia siamo in tanti a essere radical chic.