Nell’ottavo giorno di proteste scaturite in seguito alla sentenza della Corte costituzionale polacca, che ha reso illegale l’aborto anche nel caso di gravi malformazioni del feto, si è tenuta a Varsavia una delle più grandi manifestazioni della storia del Paese. Così facendo, la Corte ha ulteriormente ridotto il diritto di interruzione di gravidanza, restringendolo a un solo caso: l’aver subito violenza sessuale. Venerdì 30 ottobre le proteste per il diritto all’aborto, unite a quelle in difesa della comunità LGBTQ+ sempre più attaccata dalle autorità, hanno raggiunto il culmine, anche se ormai il dissenso contro un governo sempre più autoritario e nazionalista si sta allargando, coinvolgendo tutta la società civile. La decisione della Polonia in materia di interruzione di gravidanza si inserisce infatti in un più ampio quadro di regresso dei diritti civili nel Paese, che sembra essere condiviso da molti altri Stati, dentro e fuori l’Europa.
Come ha raccontato a The Vision Luigi Salierno, un analista finanziario italiano che da qualche anno vive a Varsavia e che sta documentando le proteste nella capitale, la situazione polacca è singolare, perché è in corso un vero e proprio conflitto generazionale, che vede una gioventù sempre più aperta e laica scontrarsi con il conservatorismo di chi è nato e cresciuto durante il comunismo e che ha vissuto la sua caduta come un ritorno alla tradizione e allo strapotere religioso. “Mi sono reso conto di quanto le cose stiano evolvendo velocemente negli ultimi tempi”, racconta Salierno. “Il partito che è al governo dal 2015, il Pis, sta attuando una politica di centralizzazione del potere e di nazionalizzazione dei media sempre più palese, che funziona soprattutto nelle province, dove la Chiesa riveste un ruolo fondamentale nel tessuto sociale”. Secondo Salierno, nelle grandi città l’ingerenza della Chiesa è meno forte e l’apertura maggiore, per cui l’insofferenza nei confronti delle decisioni del governo si è trasformata in dissenso organizzato.
Le proteste di Varsavia sono organizzate dal movimento Strajk Kobiet (Sciopero delle donne), che nel 2016 aveva già condotto la grande manifestazione di Czarny Protest (Proteste in nero) contro un disegno di legge che avrebbe vietato totalmente l’aborto. Oltre a scendere in piazza vestite di nero, le donne avevano scioperato dal lavoro salariato e da quello di cura, coinvolgendo anche varie personalità pubbliche come i presentatori dell’emittente televisiva privata TVN24 e la comunità internazionale. Proprio per le grandi pressioni ricevute, il disegno fu ritirato. Nonostante ciò, la possibilità di accedere all’interruzione di gravidanza era già molto limitata nel Paese. Secondo il quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung, dei 150mila aborti praticati in un anno dalle donne polacche, solo mille si svolgono nei confini del Paese. Tutte le altre vanno all’estero per poter svolgere l’operazione – in Repubblica Ceca o in Germania – tanto che alcuni ginecologi polacchi come Janusz Rudzinski si sono trasferiti poco oltre il confine per poter continuare a praticare seguendo i loro principi e assistere le donne che lo richiedono. Anche quest’anno le manifestanti hanno deciso di ricorrere all’astensione dal lavoro per protestare contro la sentenza della Corte costituzionale, insieme a dimostrazioni nelle chiese. Oltre alle manifestazioni, Strajk Kobiet ha anche diffuso un decalogo di richieste rivolte alle autorità polacche per una “corte suprema autentica e trasparente”, “pieni diritti umani”, autentica laicità dello Stato e dimissioni del governo.
Nel tentativo di calmare le acque, il giorno della manifestazione, il presidente Andrzej Duda aveva dichiarato di capire la rabbia del movimento e, in alcuni casi, di comprendere la scelta dell’aborto. Tuttavia, come riportano anche molte testimonianze di attivisti locali raccolte e tradotte in italiano dal progetto divulgativo Est/ranei, il vicepresidente Jarosław Kaczyński, capo del partito di governo Diritto e Giustizia (Psi), non sembra intenzionato ad arretrare di un passo e c’è il timore che possa rispondere con ancora maggior forza e repressione. Secondo Bartosz Wielinski, vicedirettore del quotidiano polacco Gazeta Wyborcza, Kaczyński “ha perso i contatti con la realtà che lo circonda” e ha reso “un Paese europeo ostaggio di un autocrate”. Kaczyński ha guidato il processo di nazionalizzazione della Polonia e uno degli elementi chiave di questo processo è stata proprio la nomina dei giudici della Corte suprema, la cui indipendenza rispetto al potere esecutivo è ormai un ricordo: la presidente della Corte Małgorzata Manowska è iscritta al Pis e i giudici del Consiglio nazionale giudiziario, il Csm polacco, sono stati tutti scelti e nominati da Duda e Kaczyński.ù
Il giorno stesso dell’emissione della sentenza sull’aborto, la Polonia ha firmato insieme ad altri 32 Paesi la Geneva Consensus Declaration, un documento che impegna i firmatari a “promuovere la salute delle donne e rafforzare la famiglia come unità fondamentale della società”. Il documento, nato in seguito all’Assemblea mondiale della sanità dell’Oms a Ginevra lo scorso agosto, dopo un lungo preambolo che riprende vari principi sull’uguaglianza di genere sanciti in diverse assemblee delle Nazioni Unite, afferma che l’aborto non fa parte del diritto alla salute delle donne e che non esiste un diritto internazionale all’aborto poiché non c’è nessun obbligo imposto agli Stati di facilitarlo o finanziarlo. Tra i firmatari della dichiarazione figurano il Brasile, l’Egitto, l’Ungheria, l’Indonesia, l’Uganda e soprattutto gli Stati Uniti.
Non deve stupire la presenza degli Stati Uniti in questo elenco, soprattutto nell’ambito della politica e della cooperazione internazionale: nel 2017 Trump ha reintrodotto sia la Mexico City Policy, che concede finanziamenti alle Ong a patto che non promuovano l’aborto, sia la Global Gag Rule, che vieta a tutte le Ong internazionali finanziate dagli Stati Uniti di fornire servizi di interruzione di gravidanza nei Paesi in via di sviluppo. Nel 2019 ha minacciato il veto sulla risoluzione Onu sullo stupro di guerra a meno che non fosse tolto ogni riferimento all’aborto. Ma anche all’interno degli Stati Uniti l’aborto è sempre più osteggiato: l’amministrazione ha infatti progressivamente tagliato i fondi a Planned Parenthood, la principale organizzazione a fornire servizi di salute riproduttiva, incluso l’aborto, mettendo a rischio l’accesso alle donne più povere. A gennaio scorso, Trump è stato il primo presidente a partecipare alla March for Lives, la più grande manifestazione antiabortista degli Stati Uniti. Nel suo discorso ha detto di essere lì “per una semplice ragione: difendere il diritto di ogni bambino, nato o non nato, di raggiungere il potenziale che Dio gli ha dato”. Ora un altro problematico tassello si aggiunge a questo quadro, e cioè la nomina di Amy Coney Barrett alla Corte suprema, che ha sostituito la campionessa dei diritti civili Ruth Bader Ginsburg, scomparsa a settembre. Gli esperti vedono nella nomina di Barrett, una giurista originalista (che crede cioè che la Costituzione americana non vada interpretata ma seguita alla lettera) e vicina al gruppo fondamentalista religioso People of Praise, una possibile minaccia alla sopravvivenza della Roe v. Wade, la sentenza della Corte suprema che depenalizzò l’aborto negli Stati Uniti. Secondo il Guardian, Barrett si è votata “professionalmente e personalmente a ribaltare il diritto all’aborto”, avendo preso parte attivamente a gruppi antiabortisti e avendo firmato un appello per la criminalizzazione dei ginecologi che lo praticavano insieme a un gruppo che il quotidiano inglese definisce estremista, il St Joseph County Right to Life.
In Polonia una sentenza della Corte costituzionale è bastata a spazzare via il diritto all’aborto, già gravemente limitato, e lo stesso potrebbe presto accadere negli Stati Uniti. La cosa grave è che questo attacco globale ai diritti riproduttivi passi non da un iter legislativo e democratico, ma attraverso una sentenza che nel caso polacco proviene da una magistratura legata a doppio filo con il governo. Anche negli Stati Uniti la Corte suprema pende ormai a destra, anche grazie alla nomina affrettata di Trump della sua favorita a pochi giorni dalle elezioni. Nel 2016, a Obama, che si ritrovò con un posto vacante sei mesi prima delle elezioni, fu impedito persino di audire il suo candidato. Per Trump, invece, la nomina di Amy Coney Barrett è stata l’occasione perfetta per ribadire, per l’ennesima volta, la sua vicinanza ai gruppi antiabortisti, tra i principali finanziatori delle sue campagne elettorali.
Non è un mistero che gli enormi interessi economici dei gruppi anti-choice siano appetibili per i politici conservatori, nonché un aggancio nei confronti dell’elettorato più religioso e reazionario. La nomina giusta al momento giusto nelle più alte cariche della magistratura si rivela così uno strumento molto più comodo e sicuro rispetto alla lunga e difficile approvazione di una legge. Ma non è detto che cittadine e cittadini si rassegnino al loro destino e restino soltanto a guardare.