La gestione della pandemia in Italia è stata un florilegio di esperti, tecnici, task force e commissioni, per un totale di 450 persone a cui è stato assegnato il compito di portarci fuori dal disastro del coronavirus. Uno dei problemi subito sorti, però, è che le composizioni delle task force non rispettavano le quote di genere di almeno il 30% di presenza femminile. Fortuna che però a riequilibrare le sorti delle italiane c’era la task force “al femminile” voluta dalla ministra per le Pari opportunità Elena Bonetti, chiamata “Donne per un nuovo Rinascimento” e annunciata su Facebook con un video motivazionale sui toni del fucsia il 10 aprile scorso, nel centenario della nascita di Nilde Iotti. Dodici donne dai profili autorevoli per “costruire un nuovo percorso, un vero e proprio Rinascimento per il nostro Paese”. Il 25 maggio il dicastero ha presentato il documento prodotto dalla commissione, che è però decisamente deludente e più che tracciare un nuovo Rinascimento è un perfetto esempio di gattopardismo: tutto deve cambiare perché tutto resti come prima.
Il documento, dopo una sintesi delle statistiche e dei dati disponibili sulla condizione femminile in Italia, individua cinque aree di intervento: parità di genere, lavoro, scienza, solidarietà e comunicazione. E già sul primo di questi punti sorge una domanda più che lecita: come si può parlare di parità di genere se a discuterne sono soltanto donne? Forse l’alto profilo delle componenti del comitato, tutte professioniste affermate in vari ambiti, ha condizionato la stesura del documento, che sembra ragionare su un unico modello, quello della “madre lavoratrice” – ancor meglio se leader, manager o dirigente. Una commissione che si prefigge di creare un nuovo corso per il Paese non sembra fare lo sforzo di andare oltre questo perimetro e provare a immaginare un altro possibile.
Questa premessa si riflette anche nel modo in cui il documento è impostato, e cioè nell’invito a inserire quote di genere all’interno delle istituzioni, delle aziende e della ricerca in un’ottica di diversity management. Si tratta senz’altro di un intento lodevole, ma miope. Le quote di genere sono necessarie in un contesto patriarcale come quello in cui viviamo ancora oggi, ma non bastano a risolvere il problema della disoccupazione femminile, che è ancora al 50,5% e che al momento sembra molto più urgente della parità formale nei board amministrativi. Considerato che il 30,4% delle disoccupate nella fascia d’età 45-74 anni non ha mai avuto esperienze di lavoro nella propria vita (cosa che per gli uomini accade solo nel 3,8% dei casi) sarà difficile che avere più CEO o amministratrici delegate nelle aziende servirà concretamente a cambiare qualcosa.
E infatti gli interventi previsti per potenziare il lavoro femminile si rivelano generici e insufficienti, nonché rivolti a chi un lavoro lo ha già e continuerà probabilmente ad averlo. In un momento di gravissima crisi come quello che stiamo vivendo, in cui si stima che 500mila persone perderanno il lavoro, sarebbe stato più opportuno proporre un potenziamento degli sgravi fiscali per chi assume donne disoccupate, già previsti dalla legge Fornero, o forme di sostegno al reddito come il reddito di autodeterminazione, e non soltanto parlare di conciliazione familiare. Si tratta di un tema vitale, ma anche in questo caso affrontato con quello che sembra quasi un rassegnarsi all’idea che il lavoro di cura sia il destino di ogni donna. Si parla molto di asili nido e servizi alle famiglie e poco di cogenitorialità o corresponsabilità. C’è un accenno al “rafforzare ed estendere la durata dei congedi di paternità”, ma l’impressione generale è che sia la madre a doversi comunque occupare della gestione della famiglia, a dover prendere decisioni in merito e a essere l’unica destinataria di politiche di genere. Resta poi completamente assente il tema della regolarizzazione delle donne migranti – in particolar modo colf e badanti, spesso di origine straniera, le cui condizioni sono state gravemente compromesse dal lockdown.
Sempre sul fronte del lavoro, alcuni interventi sono molto positivi, come ad esempio “prevedere una regolamentazione unica del lavoro a distanza nelle sue varie forme, nelle imprese private e nella PA, per impedire che sia utilizzato solo dalle donne”. Peccato che il punto si chiuda con l’invito a “salvaguardare il diritto alla disconnessione del lavoratore”, e non della lavoratrice. Anche il linguaggio è importante, lo è al punto che un’intera sezione del documento è dedicata proprio alla comunicazione. Il problema è che la stessa task force, che aspira alla creazione di un “nuovo linguaggio” per parlare di donne in Italia, poi non usi quel linguaggio già inclusivo che tutti conosciamo, la lingua italiana. Oltre al “lavoratore” disconnesso, Fabiola Gianotti è chiamata “direttore” del Cern, Federica Mezzani “ingegnere”, Floriana Cerniglia “professore associato”, Alessandra Smerilli “consigliere di Stato della Città del Vaticano”. Si tratta di mancanze significative, che riflettono un modo di pensare molto diffuso e molto “italiano”: per raggiungere la parità di genere servono politiche complicate e dispendiose, quando in realtà basterebbe partire dalle piccole cose. Bisogna per forza “Sostenere un vero cambiamento di paradigma per sradicare gli stereotipi, con un nuovo tipo di linguaggio verbale e visivo attraverso una campagna pubblicitaria chiamata ‘Pubblicità Futuro’”, ma poi ci si scorda – si spera per una svista e non in malafede – che basterebbe fare la cosa più semplice di tutte per cambiare la percezione delle lavoratrici in Italia, ovvero usare i femminili. È anche a costo zero, e sicuramente meno impegnativo che utilizzare i “ledwall presso i più importanti nodi ferroviari del Paese”.
La mancanza più evidente all’interno del documento, però, come sottolineato anche dai centri antiviolenza, è la violenza di genere. “È grave non aver incluso nell’analisi la violenza maschile contro le donne”, afferma la presidente della rete D.i.Re Donne in rete contro la violenza Antonella Veltri, “perché è proprio negli stereotipi e nella perdurante disparità di genere che la violenza affonda le sue radici, al punto da poter essere considerata quasi un termometro sociale della condizione femminile”. A pensar bene si potrebbe dire che la task force ha voluto lanciare un messaggio positivo e anti-vittimistico che non vuole relegare le donne al ruolo di vittime di violenza. Ma questo silenzio stride dopo il clamore suscitato dall’impennata di violenza domestica registrata durante il lockdown, a cui il ministero ha risposto in modo criticabile e con operazioni annunciate in pompa magna ma dai dubbi risultati. Innanzitutto, i 30 milioni per i centri antiviolenza “per far fronte all’emergenza da Coronavirus”, che sembravano essere in aggiunta ai finanziamenti già previsti, ma che in realtà sono i soldi che i presidi aspettavano ancora dallo scorso anno. Poi il pasticcio dell’iniziativa “Mascherina 1522”, che prevedeva che attraverso questa frase una donna maltrattata potesse trovare aiuto in farmacia, secondo un protocollo nato da un accordo tra il ministero e la Federazione degli ordini dei farmacisti italiani, di cui però non sono stati informati né i farmacisti né i centri antiviolenza.
L’impressione generale che si ha leggendo il documento della task force è che questa operazione, nata con tutte le migliori intenzioni possibili, si sia rivelata l’ennesima stanca analisi sulla “questione femminile”, dove la “femmina” presa in considerazione è solo la madre lavoratrice, che si barcamena tra il proprio impiego e la famiglia, con l’aggiunta del problema dello smartworking. E se, come dimostra una ricerca del 2016 citata anche nella relazione, in condizioni normali il lavoro agile sembra riequilibrare i ruoli di genere all’interno del nucleo familiare, il racconto dello smartworking all’interno della pandemia è ben diverso e ha fatto parlare di “ritorno agli anni Cinquanta” e di “disastro per il femminismo”. In ogni caso, una task force che si prefigge di essere un “Rinascimento femminile” non può ragionare soltanto nell’ottica dell’emergenza e sul breve periodo. Un documento con questa lungimiranza, a dire il vero, l’Italia lo ha a disposizione dal 2013: la Convenzione di Istanbul. Proprio lo scorso gennaio Grevio, il gruppo di esperti del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne, denunciava la cattiva applicazione della Convenzione in Italia, sottolineando come il nostro Paese consideri ancora l’uguaglianza di genere un problema di diritto di famiglia e non una conquista di civiltà.