Come il “people pleasing”, l’ossessione di piacere agli altri a tutti i costi, ci rovina la vita - THE VISION
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Alcuni giorni fa l’attrice Matilda De Angelis ha dichiarato di aver sofferto di “people pleasing”, una tendenza che – pur non rientrando nelle patologie riconosciute dal DSM – può avere gli effetti di un vero e proprio disturbo psicologico. Con people pleasing si intende l’ossessione di piacere agli altri, che porta ad annullare la propria natura per ottenere approvazione ed evitare un possibile rifiuto. “Sono stata ossessionata da un ideale di perfezione e dall’impossibilità di deludere,” ha detto De Angelis, “figlia perfetta, fidanzata perfetta. E anche nel lavoro mi sono ammazzata e non ho detto mai no, con l’unico scopo di meritarmi la posizione in cui mi trovavo. E nelle relazioni personali ho represso la mia natura e la mia volontà, in una schiavitù mentale che mi ha logorata”. Un perfezionismo lavorativo e un’affabilità relazionale che l’attrice sostiene di aver simulato per anni, probabilmente legati a paure ataviche come quella del rifiuto e dell’abbandono. Chi soffre di people pleasing, infatti, ricerca continue gratificazioni e validazioni esterne e, se non le riceve, pensa di non valere nulla; nel lavoro per esempio, può vedere acuita la sindrome dell’impostore, propria di chi crede di avere di più di ciò che meriterebbe.

Matilda De Angelis

Recitare tutti i giorni un ruolo che non ci appartiene o negare i nostri bisogni e le nostre idee per andare incontro al favore esterno è qualcosa che può farci soffrire molto, sofferenza che può arrivare a manifestarsi con sintomi anche fisici. Per De Angelis sono stati gli attacchi d’ansia a inseguirla per anni e, inoltre, l’attrice ha sofferto di una forma molto seria di acne da stress, che più volte ha mostrato sui social. Ma possono essere tanti i sintomi del people pleasing, che porta ad alterare costantemente il proprio comportamento per andare incontro al favore altrui e che, talvolta, origina da storie di maltrattamenti, abusi o svalutazioni subite dalla famiglia o durante l’infanzia.

Sebbene non siano state ancora accertate tutte le cause, la psicologa Roberta Milanese ha provato a dare un quadro di questa tendenza nel libro L’ingannevole paura di non essere all’altezza. “Alla base c’è una profonda insicurezza della persona relativamente alla propria desiderabilità,” ha detto Milanese a Repubblica, “e la premessa implicita di chi nutre questa paura è quella per cui, se la persona si concedesse di essere sé stessa fino in fondo […], gli altri non la vorrebbero, stimerebbero o amerebbero. Queste persone finiscono quindi per tessere relazioni che in apparenza funzionano bene, ma che comportano per loro una grande fatica e la paura di non poter mai mollare, pena il rischio di impopolarità o, addirittura, abbandono”. Milanese ha dichiarato anche che questo disturbo è più frequente – soprattutto in ambito relazionale – nelle donne, che assumono comportamenti concilianti col partner, spesso condannando sé stesse a una vita di coppia insoddisfacente. Gli uomini affetti da people pleasing, invece, sempre secondo Milanese, sembrano sperimentare il disturbo prevalentemente in ambito professionale, evitando compiti di responsabilità e delegando il più possibile per paura di fallire e di deludere, rimanendo così chiusi nella propria comfort-zone o, peggio, caricandosi oltremodo di lavoro e impegni onerosi col rischio di essere fagocitati da stress e burnout.

Ma l’approvazione altrui è qualcosa con cui tutti dobbiamo fare i conti, soprattutto oggi che grazie ai social possiamo e ci sentiamo in dovere di esporci costantemente e condividere contenuti, anche con sconosciuti. Se non possiamo attribuire ai social la causa del people pleasing, possiamo dire però che questi accentuano il disturbo proprio perché ci danno accesso alle gratificazioni del mondo esterno in qualunque momento della giornata. Il rischio che ne diventiamo dipendenti, modificando il nostro aspetto, vita e personalità per risultare desiderabili e “popolari”, è molto alto. Non sono rari i casi di cronaca che raccontano di persone – soprattutto tra i più giovani – suicidatesi per qualche like in meno a un proprio post o a una foto su Instagram.

Qualche anno fa, il corpo della diciannovenne Chloe Davison è stato ritrovato privo di vita dai suoi familiari; dopo la tragedia Jade, la sorella della ragazza, ha dichiarato che Chloe si sarebbe suicidata perché se non prendeva like alle sue foto non si sentiva bene. Una dipendenza da social network che Jade ha descritto così: “Chloe era il tipo di persona che quando metteva una foto su Facebook chiedeva a tutta la famiglia di mettere un mi piace. Oppure si sedeva con me e mi chiedeva quale foto pensavo fosse la migliore prima di pubblicarla. Credeva di non valere abbastanza, a meno che non ricevesse tanti like e commenti. Altrimenti non si sentiva accettata”. Anche Ruby Seal, quindicenne inglese, nel 2017 ha deciso di togliersi la vita per un motivo simile: si era convinta di non piacere agli altri, per questo si era rinchiusa nel suo mondo virtuale riducendo drasticamente le sue relazioni sociali. Quel bisogno di approvazione così forte, unito alla paura e alla certezza di essere rifiutata da tutti, l’ha portata al suicidio quando un suo post non ha ricevuto il numero di like sperati. La mamma della ragazza aveva invocato un maggiore controllo sull’uso dei social da parte dei giovani, più vulnerabili perché vivono una fase di strutturazione e ricerca della propria identità.

La tendenza ad adattare i propri comportamenti sulle manifestazioni di apprezzamento altrui può portare poi, nei casi più gravi, a veri e propri stati depressivi e a gesti estremi, poiché i propri bisogni restano inascoltati, si recita un ruolo e si finisce per aumentare la propria insicurezza. Talvolta, poi, compiacendo sempre gli altri si ottiene l’effetto contrario, attirando a volte disistima e giudizi negativi nel caso si sia eccessivamente docili. Ed è proprio in questi casi che questo disturbo potrebbe diventare pericoloso non solo per chi ne è affetto, ma anche per chi gli sta intorno. Bisogna tener presente, infatti, che il “people pleaser” non pratica gentilezza disinteressata, non fa del bene per il piacere di farlo ma perché ha un unico scopo: piacere. Agisce quindi secondo l’immagine che gli altri gli rimandano di sé. Se quindi non dovesse ottenere la validazione con comportamenti dolci e accondiscendenti, potrebbe anche cambiare strategia e modificare la propria personalità.

Un esempio di questo cambiamento l’ho incrociato nel mio lavoro di docente di scuola superiore. Uno dei miei studenti, un po’ di tempo fa, mi ha raccontato di aver assunto comportamenti da bullo perché, a suo dire, quando si mostrava affabile e sensibile gli altri tendevano a sminuirlo, prevaricarlo o prenderlo in giro. Nel momento in cui ha assunto un fare spavaldo, duro e in alcuni casi prevaricante rispetto a chi era considerato più debole, aveva finalmente ottenuto l’approvazione del gruppo tanto desiderata. Era diventato un leader, una persona degna della stima degli altri. E non è difficile crederlo: sappiamo che i cosiddetti bulli, o tutti quei giovani che deridono o prevaricano chi è in una posizione di fragilità, non lo fanno sempre per mero sadismo, ma per attirare l’attenzione su di sé ed essere rispettati e “ammirati” dal branco. Il people pleasing è poi uno dei comportamenti che a volte vengono collegati al disturbo narcisistico di personalità: per il suo bisogno compulsivo di sedurre ed essere apprezzato, il narcisista patologico si costruisce infatti una personalità, indossa costantemente una maschera, a volte condannando all’infelicità sé stesso e, molto più spesso, chi si lega a lui.

Il people pleasing non va sottovalutato, ma andrebbe risolto con i dovuti accorgimenti e strumenti. Non possiamo mettere costantemente al centro della nostra vita e del nostro interesse le opinioni altrui. Dovremmo risparmiare invece tutte quelle energie che investiamo nel ricercare il plauso di chi ci circonda e usarle per prenderci cura di noi stessi. Bisogna smetterla di credere di poter piacere a tutti ma, soprattutto, di credere che se riusciamo a piacere a un gran numero di persone allora saremo felici e appagati. Imporci dei limiti nelle relazioni con gli altri per far sì che nessuno si approfitti della nostra disponibilità è fondamentale per non cadere nell’autosvalutazione e, oltretutto, ci aiuta a comprendere che la gioia che riceviamo dal soddisfare i nostri bisogni sarà sempre maggiore di quella che proviamo se accontentiamo gli altri sacrificando noi stessi.

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