Devi accettare che stai pagando la pensione dei tuoi e nessuno lo farà per te - THE VISION

Era il 1976 e Francesco Guccini aveva appena 36 anni quando cantava: “Mio padre in fondo aveva anche ragione a dir che la pensione è davvero importante, mia madre non aveva poi sbagliato a dir che un laureato conta più di un cantante”. Sono passati più di quarant’anni ed è arrivato il momento di chiedersi: i genitori di Guccini avevano ragione?

Quarant’anni fa stava per iniziare la crisi petrolifera e l’Italia combatteva contro il terrorismo eversivo, ma non si stava poi così male. Ad esempio, si poteva andare in pensione dopo aver versato i contributi per soli 35 anni.

Nel dibattito politico attuale è frequente sentire esperti, studiosi e/o sedicenti tali discutere sulle differenze tra sistema contributivo e sistema retributivo. Cerco di riassumere la questione. Con il sistema retributivo, un lavoratore ha diritto a ricevere una pensione parametrata agli ultimi stipendi ricevuti nel corso della sua attività lavorativa. Un esempio per chiarire: se durante la carriera una persona passa da 1.000 euro di stipendio iniziale a 3.500 euro di retribuzione corrisposta in prossimità alla pensione, il trattamento pensionistico sarà parametrato ai 3.500 euro finali, senza prendere in considerazione i contributi versati dal lavoratore durante il corso della propria attività lavorativa. È possibile versare pochi contributi e ricevere una pensione da favola. Ma come in tutte le favole c’è una fine, soltanto che questa volta non è per niente lieta.

Il sistema retributivo, infatti, è rimasto in vigore sino alla metà degli anni Novanta, quando è stato introdotto il sistema contributivo. In base a tale modalità di calcolo, la pensione viene determinata sulla base dei contributi effettivamente versati dai lavoratori durante l’intero arco della loro carriera lavorativa. Quindi, anche se finisco la carriera con un salario di 5.000 euro, potrei avere una pensione inferiore (e di molto) rispetto a chi è andato in pensione con il sistema retributivo. Come vi dicevo, niente lieto fine.

Dopo la prima riforma del sistema previdenziale, ne sono state introdotte altre sette. Le pensioni sono da vent’anni la voce di spesa da aggredire per garantire la stabilità dei conti del nostro Paese. Loro creano debito pubblico e noi prendiamo una miseria di pensione, non fa una piega. Questa fantastica abitudine, però, non tiene minimamente conto delle generazioni future. Il risultato è quello di rischiare seriamente la rottura del patto intergenerazionale che avverrà quando le conseguenze di queste riforme si manifesteranno sui giovani lavoratori che oggi versano i contributi. Al momento alla rivoluzione preferiamo il Fantacalcio, ma non si sa mai. Il lavoro è diventato più “flessibile”, che è un modo moderno per dire “precario”. A sua volta, anche il versamento dei contributi è diventato più flessibile, che è un modo gentile per dire che le nuove pensioni saranno decisamente più povere rispetto al passato. Le carriere lavorative sono sempre meno stabili e l’ingresso nel mercato del lavoro avviene sempre più tardi. Tutti questi elementi concorrono a creare una vera e propria disuguaglianza generazionale, che si manifesterà quando verranno corrisposte le prime pensioni calcolate interamente con il metodo contributivo.

È di questi giorni la notizia che il governo intende confermare l’aumento dell’età pensionabile previsto dalla famosa e non amatissima riforma Fornero. Dal 2019 per ricevere la pensione di vecchiaia si passerà dagli attuali 66 anni e 7 mesi a 67 anni. Un aumento ritenuto giusto dall’ISTAT che ha certificato come dal 2013 ad oggi l’aspettativa di vita media degli italiani sia aumentata proprio di 5 mesi, con le donne che sfiorano gli 85 anni e gli uomini, da sempre meno longevi, che superano gli ottanta.

Come è facile intuire, l’età pensionabile è ormai collegata all’aspettativa di vita. Questa regola è stata introdotta per la prima volta nel 2009 ed è stata rivista negli anni successivi, senza tuttavia modificarne la sostanza: l’uscita dal mercato del lavoro deve tenere in considerazione i fenomeni demografici e in particolare l’allungamento dell’aspettativa di vita. Si vive di più, si lavora di più: fin qui tutto bene, il perché si debba ricevere una pensione da fame invece ancora non ci è stato rivelato.

A guardare i dati formali, l’Italia rappresenta uno dei Paesi occidentali con la più alta età di pensionamento legale. Ma in questa terra di santi, poeti, navigatori e pensionati nulla è come sembra. Infatti, le numerosissime deroghe alla disciplina principale fanno sì che l’età effettiva in cui matura il diritto alla pensione sia molto più bassa. Pensate a tutte quelle persone più vecchie di noi che hanno iniziato a lavorare tra i 16 e i 18 anni. Loro non dovranno attendere i 67 anni per poter beneficiare della pensione di anzianità, ma potranno andare in pensione a circa 60 anni grazie alla pensione di vecchiaia che prende in considerazione soltanto gli anni di contribuzione e non l’età anagrafica dei lavoratori. Questo indipendentemente dall’innalzamento dell’età pensionabile. La nostra generazione, però, entra tardi nel mercato del lavoro e si può tutelare soltanto attraverso il riscatto degli anni universitari a fini pensionistici. Riscatto che non è esattamente gratis, per usare un eufemismo.

I sindacati hanno accolto con estremo sfavore la decisione dell’innalzamento dell’età pensionabile. D’altronde non rivelo niente di nuovo se dico che ormai i sindacati rappresentano gli ex lavoratori, dunque i pensionati, e non gli attuali lavoratori con tutti i nuovi problemi che dovrebbero essere affrontati. Il ragionamento è semplice: paga prima il pensionato di un rider di Foodora. Il confronto tra le parti, al momento, verte sull’introduzione dell’ennesima deroga, rivolta ai lavoratori che svolgono attività definite “usuranti”. Tra queste attività rientrano, ad esempio, i conciatori di pelli, gli stampatori a caldo e i macchinisti ferroviari. Tutte attività della new economy, insomma.

Il punto di vista di chi è nato dopo il 1980 è lo sguardo disilluso di chi ha davanti un enorme paradosso. Da un lato, il continuo innalzamento dell’età pensionabile porta i ragazzi che entrano oggi nel mercato del lavoro a vedere la pensione come una specie di chimera, una cosa da raccontare ai propri nipoti. Inoltre, finire di lavorare più tardi significa non liberare spazio ai giovani in un mercato del lavoro che ha raggiunto livelli di saturazione quantomeno preoccupanti.

Attenzione, però: non è necessariamente un bene fare il tifo per un abbassamento dell’età pensionabile. In primo luogo, le simpaticissime riforme previdenziali sono state fatte per assicurare un equilibrio più o meno stabile nelle finanze italiane. Se l’INPS torna ad essere il “bancomat dei cittadini”, il debito pubblico torna ad aumentare e la fiducia nel nostro Paese scende. I mutui saranno più cari, l’IVA aumenterà e le aziende investiranno di meno. Vi ricordate il 2012? Ecco. Così, se adesso si entra tardi nel mercato del lavoro magari domani non ci si entra proprio. Insomma: meglio andare in pensione tardi e male che non andarci e basta.

Bisogna anche precisare che la new economy richiede competenze molto diverse rispetto ai cosiddetti “lavori tradizionali”. Non tutti, quindi, sono in competizione con la generazione precedente per entrare nel mercato del lavoro. Siate onesti, non conoscete tanti ragazzi che vogliono fare i conciatori di pelli.

Quindi, se da un lato il nostro sistema previdenziale cerca faticosamente di diventare più sostenibile a pagarne le conseguenze sono i millennials e più in generale tutti coloro che sono entrati nel mercato del lavoro dopo la prima metà degli anni Novanta. Si è creato una sorta di circolo vizioso, dove migliorare il sistema previdenziale significa garantire meno tutele alle nuove generazioni. Riparare i danni facendoli pagare a chi non li ha causati non è un’idea geniale, ma tant’è.

Il sistema contributivo garantisce equità nel pagamento delle pensioni, ma anche una forte disuguaglianza generazionale in un mercato del lavoro senza regole e fortemente ridimensionato dopo la crisi economica. In proposito è sufficiente ricordare come l’Italia sia abbondantemente sopra la media europea per quanto riguarda i neet – i giovani che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in altri percorsi formativi.

Senza lavoro da giovani, senza tutele da grandi. La generazione dei choosy, quella degli insoddisfatti che sono costretti ad andare all’estero (che quando torna comodo vengono persino definiti mammoni), ha molte meno garanzie di quelle che hanno permesso ai genitori di Guccini di rimproverarlo per il mancato versamento dei contributi. E allora mi perdonerete se chiudo pensando che forse eravate anche voi choosy, solo che ve lo potevate permettere. Il futuro non è più quello di una volta.

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