Oltre il 43% degli italiani sarebbe favorevole alla reintroduzione della pena di morte, percentuale che sale al 44,7% se si considera solo la fascia di popolazione compresa tra i 18 e i 34 anni. È questo il dato che emerge dall’ultimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese.
Si tratta di un trend in crescita da anni: secondo un sondaggio realizzato da Swg sempre nel 2020, il 37% degli intervistati si è dichiarato favorevole alla pena di morte. Tre anni fa la percentuale era del 35%, mentre nel 2010 si fermava al 25%. Dieci anni dopo, la percentuale è quasi raddoppiata.
“Il nostro modello individualista è stato il migliore alleato del virus, unitamente ai problemi sociali di antica data, alla rissosità della politica e ai conflitti inter-istituzionali” – si legge nel 54esimo Rapporto Censis – “Uno degli effetti provocati dall’epidemia è di aver coperto sotto la coltre della paura e dietro le reazioni suscitate dallo stato d’allarme le nostre annose vulnerabilità e i nostri difetti strutturali, del tutto evidenti oggi nelle debolezze del sistema […] e pronti a ripresentarsi il giorno dopo la fine dell’emergenza più gravi di prima”.
La giustificazione di molti favorevoli alle pena di morte è la sua azione deterrente, per cui la paura di morire scoraggerebbe le persone a commettere i reati. Diverse ricerche dimostrano che questo non è vero: un recente studio ha infatti provato che all’abolizione della pena capitale non è mai seguito un aumento dei crimini violenti in tutti gli Stati che hanno preso questa decisione. Vale lo stesso anche per quei Paesi che hanno diminuito il ricorso alla pena di morte, pur mantenendola nel loro ordinamento giudiziario. Al contrario, più esecuzioni non hanno alterato il tasso di omicidi in questi Paesi.
Secondo un altro studio statunitense del 2009, l’88% dei criminologi intervistati non considera la pena di morte un deterrente, da sommare a un 6% circa di non sicuri a riguardo. È innegabile che anche gli specialisti siano sfavorevoli o comunque nutrano forti dubbi sull’efficacia della pena di morte.
Non solo non è a tutti gli effetti un deterrente, ma la condanna a morte può anche essere la tappa finale e irreversibile di errori giudiziari che hanno causato l’esecuzione e l’incarcerazione anche di persone innocenti o presumibilmente tali. Uno degli esempi più eclatanti, sempre negli Stati Uniti, riguarda Clifford Williams, cittadino nero di 76 anni, e suo nipote Hubert “Nathan” Myers, il primo condannato a morte e il secondo all’ergastolo nel 1976 per aver ucciso una donna e averne ferita gravemente un’altra, poi scarcerati alla fine di marzo 2019 perché ritenuti innocenti, dopo 42 anni di detenzione, di cui quattro nel braccio della morte per Williams.
Le indagini poco accurate da parte della polizia, la presa in esame di prove discutibili, l’utilizzo di testimoni non affidabili e di confessioni poco attendibili sono le cause che più spesso hanno alterato il risultato di processi che si sono conclusi con la pena capitale. Negli Stati uniti, grazie all’Innocence Project, collettivo che si occupa di casi di malagiustizia, dal 1992 al 2019 sono state liberate 367 persone, avvalendosi del riesame delle prove e del test del Dna. Di queste 21 erano già nel braccio della morte e 41 erano state costrette a confessare sotto minaccia un crimine non commesso.
Basandosi su questi dati, la crescita della percentuale di favorevoli alla pena di morte non può che rappresentare un ritorno alla mentalità di uno dei periodi più bui d’Italia. Fu il regime fascista a riabilitare la pena di morte nel 1926 dopo la sua abolizione nel 1889. Dopo la caduta del regime, la pena capitale cessò di essere praticata nel 1947, mentre restò in vigore nel codice penale militare di guerra fino al 1994, quando venne abolita definitivamente (dalla Costituzione è stata rimossa 2007). Le ultime esecuzioni registrate nel nostro Paese riguardano le 88 persone giustiziate fra il 26 aprile 1945 e il 5 marzo 1947, colpevoli di aver aver collaborato con le forze di occupazione nazifasciste.
Nonostante siano passati più di settant’anni, il senso di insicurezza spinge sempre più italiani a ritenere legittima la reintroduzione della pena di morte. Eppure i numeri degli omicidi e dei reati avvenuti in Italia negli ultimi anni registrano un calo costante: nel 2018, secondo i dati Istat, sono stati commessi 345 omicidi contro i 357 dell’anno precedente. Nel 1991 sono stati 1901. In totale, negli ultimi 25 anni gli omicidi in Italia sono diminuiti di oltre cinque volte e in 10 anni si sono quasi dimezzati.
La pandemia di Covid-19, inoltre, ha portato con sé un effetto “positivo” sull’andamento della delittuosità e degli omicidi volontari, calati, fra il primo e il 21 marzo 2020, rispettivamente del 64,2% (dai 146.762 delitti commessi nel 2019 sull’intero territorio nazionale ai 52.596 nel 2020) e del 65,2% (da 17 omicidi volontari nel 2019 a 10 nel 2020).
Se i dati sul crimine non giustificano questa nostalgia per la pena di morte di quasi quattro italiani su dieci, questa si può in parte spiegare con le crescenti diseguaglianze economico-sociali causate dalla crisi economica e la cultura dell’odio sempre più diffusa nel confronto politico, attraverso l’estremizzazione di fatti di cronaca nera, alimentando la sensazione di insicurezza, paura e risentimento dei cittadini.
L’omicidio a Roma, nel luglio del 2019, del vice brigadiere dei Carabinieri Mario Cerciello Rega da parte di due giovani studenti statunitensi è uno degli esempi recenti di questa strategia comunicativa. Salvini ha invocato la pena di morte per i colpevoli, facendo un paragone con il sistema penale degli Stati Uniti, mentre Bruno Vespa ha indossato per un giorno le vesti del magistrato, spiegando con un tweet che avrebbe preferito che i due statunitensi subissero il trattamento riservato in molti Stati degli Usa a chi uccide un poliziotto. Da anni i tribunali si sono spostati nelle piazze, reali e virtuali, del Paese e nei salotti della tv, dove i delitti vengono sviscerati insieme alle vite di vittime e presunti colpevoli in cerca del dettaglio più macabro e voyeuristico. Un linciaggio mediatico a cui partecipano in molti: cittadini, celebrità, opinionisti e politici. Al grido di “certezza della pena”, “buttate le chiavi”, “nessuna pietà per gli assassini”, molta politica cavalca per prassi l’onda dello sdegno, della bava alla bocca, dell’occhio per occhio.
Sostenitore fino all’ultimo di questo “modello” è anche il Presidente uscente degli Stati Uniti Donald Trump, che non ha interrotto la somministrazione della pena di morte neanche durante la transizione tra la sua amministrazione e quella del neo eletto Presidente Joe Biden, fatto che non accadeva da 130 anni. L’ultimo in ordine cronologico è stato Brandon Bernard, ucciso con l’iniezione letale nel carcere di Terre Haute in Indiana, nella notte fra il 10 e l’11 dicembre scorsi. Morto a soli 40 anni, si tratta del detenuto più giovane a essere giustiziato in quasi settant’anni. Si tratta del nono da luglio, ovvero da quando Trump ha deciso di mettere fine a oltre sedici anni di moratoria federale sulle esecuzioni capitali. Altre quattro condanne a morte sono in programma da qui al 20 gennaio, data di termine del mandato presidenziale di Trump; il più alto numero di esecuzioni durante un’unica presidenza in oltre un secolo. La svolta conservatrice di Trump e di quasi il 40% degli italiani avviene mentre la pratica della pena di morte è ormai stata abolita nella legge o nella pratica (de facto) da più dei due terzi dei Paesi del mondo. Inoltre continuano a diminuire, anno dopo anno, le esecuzioni capitali (nel 2019 sono state almeno 657 in 20 Paesi, secondo il report di Amnesty International, contro le 690 del 2018 (-5%).
Sempre secondo il rapporto della Ong, la classifica dei Paesi che hanno eseguito più condanne a morte vede l’Egitto del generale Al Sisi al primo posto, seguito da Cina, Iran, Arabia Saudita e Iraq. L’anno scorso l’organizzazione non governativa britannica Reprieve ha pubblicato un archivio online sulla pena di morte in Egitto che contiene le informazioni su tutte le condanne a morte e le esecuzioni a partire dalla caduta del regime di Hosni Mubarak il 25 gennaio 2011. Sotto la presidenza del successore Al Sisi, nel periodo tra il 2013 e il 2018, i tribunali egiziani hanno comminato più di 1590 sentenze di morte e ne hanno fatto eseguire 145. A queste vanno aggiunte le torture, le sparizioni forzate e le morti in carcere (762 dal colpo di Stato del luglio 2013).
Il 30 novembre del 1786 il Granducato di Toscana abolì la pena di morte per qualunque reato. Si trattava della prima applicazione pratica nel mondo del pensiero illuminista di Cesare Beccaria, intellettuale italiano che nel 1764 si già schierato apertamente contro l’applicazione della tortura e la pena di morte nella sua opera Dei delitti e delle pene. Più di 250 anni dopo, nonostante la dimostrazione della crudeltà e dell’inefficacia come deterrente della pena capitale, ci troviamo di nuovo a discutere sulla necessità o meno della pena di morte tra quelle previste dal nostro ordinamento giudiziario. Una sconfitta ancora più grave per un Paese che dopo aver aperto la strada a una rivoluzione di civiltà vede ora una parte dei suoi cittadini favorevoli a una regressione che ci troverebbe in compagnia di alcuni Stati dove calpestare i diritti umani è ormai una prassi quotidiana.