Più che chiederci cosa ci faccia davvero paura, negli ultimi tempi, ci siamo spesso trovati a domandarci quanto di questo sentimento potessimo ancora reggere, quale fosse il limite oltre il quale il nostro stato d’allerta, ormai portato all’esasperazione, è diventato impossibile da gestire. Lo scoppio della pandemia, così come l’inizio della guerra in Ucraina, per arrivare agli ultimi drammatici sviluppi del conflitto israelo-palestinese e alle manifestazioni sempre più distruttive della crisi climatica, si sono presentati come degli eventi per cui ci siamo resi conto di non aver mai sviluppato degli “anticorpi emotivi”, e che quindi ci hanno in un certo senso ammalati, anche a livello sociale. Basta guardarci attorno infatti per leggere negli altri i nostri stessi sintomi, molto simili a quelli di una condizione che in psicologia viene chiamata “panofobia”: una paura vaga e persistente associata a un male sconosciuto, che non incanalandosi verso una direzione, un oggetto specifico, finisce per contaminare gli stessi contorni del nostro orizzonte esistenziale, prendendoselo tutto.
Mi è capitato spesso, ultimamente, di confrontarmi con le persone che conosco su quale fosse la nostra più grande paura, ma quasi nessuno aveva più risposte pronte come il buio, l’ignoto o l’altezza, anche se ogni tanto è stata citata la solitudine. Sembra, infatti, che oggi sia ormai impossibile immaginare questa emozione in forma di cosa, e nemmeno associarla a quella “paura liquida” di cui scriveva il sociologo polacco Zygmunt Bauman nel suo omonimo saggio del 2006: un sentimento fluido, che condivide con la panofobia la capacità di occupare qualsiasi spazio vuoto lasciato a sua disposizione – anche in un presente in cui ce ne concediamo sempre meno –, ma non risulta comunque altrettanto totalizzante. A distanza di pochi anni, infatti, la paura ci appare come ancor più diffusa, disancorata e opprimente, tanto da dare l’impressione di essere passata allo stato gassoso. Come se si fosse condensata in un nuovo strato, il più basso, dell’atmosfera, arrivando a coprire il nostro intero mondo, e a porsi dunque come condizione preliminare di ogni nostro tentativo di abitarlo, pur rimanendo invisibile, impalpabile e allo stesso tempo insopprimibile. Una premessa emotiva, che ha ridefinito il nostro stesso modo di stare nel presente, così come quello di pensarci nel futuro, impedendoci soprattutto di credere davvero in molti dei progetti che ci immaginiamo, e che percepiamo come inevitabilmente tronchi, a breve termine.
C’è invece una cosa che non è mai cambiata, ovvero la reazione che sviluppiamo quando siamo spaventati. La tensione, le palpitazioni, il senso di offuscamento della realtà che genera quella situazione perenne di stress, scollegata dai fatti, da cui scaturisce l’attuale epidemia da disturbi d’ansia. Ma anche la pulsione ancestrale progettata per farci stare incollati al momento, pronti a combattere, a scappare o comunque ad agire nel più breve tempo possibile: un principio di sopravvivenza che secondo lo storico britannico Robert Peckham opera su scala sia individuale che sociale, tanto in una folla in preda al panico, quanto in un moto rivoluzionario. Lo stesso germe fisiologico, emotivo, che si fa poi soggettivo, ideologico, politico, e che può dunque diventare anche una spinta motivazionale, una leva per l’azione, nel momento in cui viene riconosciuto come un potenziale punto d’innesco per la mobilitazione sociale. Per questo, nel suo libro Fear. An Alternative History of the World Peckham parla della paura come della controparte di ogni cambiamento epocale – citando la rivoluzione industriale, l’avvento dei nuovi sistemi democratici o dal capitalismo globale come eventi attraversati da una “corrente sotterranea di paura” – capace di far virare la Storia (anche in senso positivo), e conferisce a questa emozione un significato proattivo a cui dovremmo provare a guardare, soprattutto in un momento in cui il paradigma illusorio in cui la cultura e la morale occidentale si sono sviluppate è ormai in declino, sfibrato dagli avvenimenti che si stanno avvicendando a livello globale, e di cui non sembra più essere in grado di assorbire le spinte.
Il contesto in cui viviamo oggi, si è infatti rivelato ben diverso da quello che avevano previsto e iniziato a progettare i filosofi dell’Illuminismo. A essersi rotto, infatti, non è tanto un sistema di metabolizzazione individuale della paura, quello che ognuno di noi cerca di far funzionare come meglio gli riesce per trovare un personale palliativo a ciò che lo turba; si tratta del meccanismo culturale che ha segnato tutta la storia dell’occidente, e che ha sempre agito attraverso il controllo – in ambito politico, sociale e religioso – di questa emozione, convincendoci di poterla frammentare in tante componenti più piccole, di poter fabbricare paure particolari. Per secoli i corpi di potere che plasmavano la cultura dominante si sono impegnati nello stilare l’inventario dei mali che il mondo e l’esistenza erano capaci di provocarci, aggiornando la lista dei colpevoli, per trasformare un sentimento apparentemente inafferrabile e ingovernabile in una causa di malessere determinata da nemici con volti e nomi precisi – come musulmani, ebrei, streghe, ma banalmente anche figure ai limiti tra folclore e realtà, come ad esempio il fantomatico uomo nero e così via. In questo modo, proprio nel passaggio dalla paura in sé a timori che sono colpa di qualcosa o qualcuno, di un altro da noi, si poteva trovare un antidoto ai traumi collettivi della Storia – collettiva e personale.
Da quando le evidenze della nostra corresponsabilità negli eventi mondiali che ci provocano paura sono diventate innegabili (per quanto indirette), invece, non possiamo più affidarci a questo processo di tribunalizzazione, dato che muovendo i fili dell’accusa, vi rimaniamo per forza di cose coinvolti in prima persona. Dallo scoppio della pandemia di Covid-19, fino all’origine del conflitto israelo-palestinese: il cambio di prospettiva che ci costringe a vederci come agenti e non solo come “vittime”, dei fenomeni e dei macro-processi storici da cui siamo maggiormente spaventati ha reso i nostri tentativi di contrastare questo sentimento un impegno di cui dobbiamo prenderci attivamente carico, senza poterlo liquidare a un’imputazione esterna.
Per questo Peckham invita a imparare a soffermarsi, anche in una vita moderna apparentemente povera di stimoli paurosi nel senso biologico del termine, su quelli che sono i punti d’origine, le scintille che attivano in noi questa emozione, non per racchiuderli sotto l’etichetta di una specifica fobia e tentare di comprimerli, ma per concentrarci sulla risposta che provocano. La spinta all’azione generata dalla paura rappresenta infatti la sua componente adattiva, sia che si tratti dell’impulso a fuggire da un animale feroce per non essere mangiati, sia per quanto riguarda altri comportamenti che mettiamo in atto più consapevolmente per provare a sfilarci dalla situazione di pericolo in cui ci troviamo.
Anche se spesso non riconosciamo questi cambiamenti nel nostro modo di agire come una strategia di adattamento, in realtà lo sono, e nel senso più darwiniano del termine, perché anche oggi rappresentano ciò che può permetterci, letteralmente, di sopravvivere come specie. Un esempio lampante da questo punto di vista è quello legato alla conversione ecologica del nostro stile di vita, stimolata in parte dal peso emotivo crescente che l’eco-ansia ha su di noi, e che ci ha portato ad adattare alcuni dei nostri atteggiamenti a un mondo che non è più lo stesso. Ancora, di fronte alle nuove tensioni tra Israele e Palestina, numerose manifestazioni sono sorte in diverse città del mondo, creando un moto tangibile e partecipato che è di certo legato in primis alla solidarietà nei confronti delle vittime del conflitto, ma ha molto a che fare anche con il bisogno di protestare contro la prospettiva futura che eventi come questo stanno delineando, dal momento che essa è sempre più spaventosa, tanto da diventare impossibile da accettare e costringerci a reagire.
Viviamo un momento storico in cui i retropensieri più angoscianti dell’occidente hanno iniziato a rompere le nicchie delle nostre certezze consolidate. E per non farci fagocitare da un sentimento che possiede in sé stesso anche un nucleo potenzialmente disgregante sul piano sociale, non possiamo continuare a perpetuare l’illusione di saperlo gestire o controllare, dal momento che, nei fatti, è evidente che non sia così – come dimostrano anche i dati dell’epidemia di disagio psicologico a cui stiamo assistendo, che continuano ad aggravarsi a causa del sovraccarico di stress a cui siamo costantemente sottoposti, acuito dall’incertezza.
Gli effetti dell’esposizione prolungata alla paura sono ormai evidenti sul piano sociale, ma tornare al significato primitivo di questa emozione, vedendola come una potenziale spinta a evolvere, può rappresentare la chiave di volta affinché l’azione, il cambiamento, appartengano a tutti, esattamente come un impulso spontaneo, naturale, istintivo, a cui attingiamo per metterci in salvo. Per uscire dallo stato di paralisi che sperimentiamo da tempo, infatti, non possiamo più permetterci di fare finta di niente, soprattutto sul piano emotivo, anche solo perché lo schermo d’apatia dietro cui ci siamo trincerati, autoconvincendoci di poter contare su di esso per trovare una sorta di protezione e andare avanti, non può reggere di fronte a ciò che ci sta accadendo attorno.