La pandemia ha incrinato il mito di Milano. Per molti tornare a vivere altrove non è poi così male.

Milano non sarà più la stessa, almeno per un po’. È questa la sensazione che si respira camminando per alcuni quartieri, per esempio quelli a più alta concentrazione di università e uffici. Oggi appaiono come spazi fantasma, per il semplice fatto che la pandemia ha cambiato le nostre abitudini legate alla formazione e al lavoro. Anche i dati socio-demografici delle ultime settimane raccontano di una città che si è svuotata in primavera e che ora fatica a ripopolarsi. Quello che per anni si è posto come “the place to be” italiano per eccellenza sembra aver perso la sua attrattività e a quanto pare molte persone si stanno interrogando sul senso di tornarci. In pochi mesi sono venute al pettine tutte le problematiche del modello Milano, ma la questione è più ampia. In crisi, oggi, è la stessa dimensione urbana presa nella sua interezza.

Milano in alcuni suoi quartieri aveva già un problema demografico da qualche tempo. Un rapporto dell’Ancsa, l’Associazione nazionale dei centri storici artistici, inserisce il capoluogo lombardo nella top 15 delle città italiane che hanno perso più residenti in centro nell’ultimo decennio, -6,1%. Altri dati parlano invece di un’emorragia consistente che negli ultimi anni si è stabilizzata. Secondo l’ultimo censimento, l’area milanese con la maggior decrescita di popolazione residente è quella del Duomo, -10,3% rispetto al 2001, anche se potrebbe dipendere dalla fisiologica gentrificazione delle periferie cui si assiste nelle grandi città. Una piccola crisi demografica che non potrà che essere accentuata dall’emergenza sanitaria di quest’anno.

Se prima il boom degli affitti brevi in chiave turistica e il continuo innalzamento dei costi immobiliari e della vita avevano contribuito a un centricidio, con l’espulsione dei residenti dall’area, oggi la diffusione dello smart working, la sospensione di diverse attività lavorative e una crescente povertà stanno inducendo molte persone, diffuse in tutta l’area metropolitana, a mettere in dubbio la loro permanenza in città. Questa rischia ora di  diventare una problematica urbana nel suo complesso, in quello che inizia ad apparire come un piccolo processo di svuotamento senza distinzioni. Se la turistificazione aveva espulso i residenti dalle aree centrali di Milano verso le periferie, ora il virus rischia di portare a una fuga anche da queste ultime.

Come evidenzia un rapporto di Immobiliare.it, oggi Milano è la città italiana che fa registrare il maggior incremento nella disponibilità di stanze, +290% su base annuale. Ci sono circa 12mila annunci a disposizione questo settembre, contro i 3mila degli scorsi anni, segno che qualcosa sta cambiando in un luogo dove storicamente l’incontro tra un’enorme domanda e una risicata offerta di case ha fatto schizzare i prezzi degli affitti verso l’alto. I dati anagrafici delle ultime settimane sottolineano che da febbraio a oggi la città ha perso circa 12mila abitanti, un trend di 2mila abitanti al mese, che non può certo essere spiegato esclusivamente con il numero di decessi (per quanto alto) avvenuti nel capoluogo a causa del Covid (complessivamente 2.400 a oggi). E con l’estate la tendenza ha continuato a crescere.

Alcuni dei residenti, ma anche dei pendolari, hanno dovuto rivedere la necessità di una loro presenza a Milano. In uno dei momenti più bui della storia recente del paese, con un Pil che nel secondo trimestre è crollato di oltre il 12%, l’Inps che ha pagato per ora oltre 11 milioni di prestazioni di cassa integrazione, una povertà sempre più dilagante che oggi riguarda circa 5 milioni di italiani e una perdita di occupati dell’ordine di 841mila unità (la metà under 35), sono venute a galla alcune di quelle problematiche del modello Milano da sempre esistenti, ma che si trovavano ben nascoste sotto il velo del suo fascino e delle sue promesse.

Milano è la capitale italiana in quanto a dinamismo economico, sociale e culturale. Qui ha sede il numero più alto di startup, il 15%; qui si trova il maggior numero di studenti universitari, 190mila; qui arriva il numero più alto di pendolari, un milione al giorno; qui si produce più ricchezza e occupazione attraverso cultura e creatività; qui si tengono un numero di eventi ben superiore che altrove e avanti così, in quella lista di eccellenze che ne fanno per molte classifiche il centro più vivibile d’Italia. Il terreno meneghino è fertile sotto tanti punti di vista e questo nel corso degli ultimi anni ha svolto una funzione di calamita nei confronti di non-milanesi, affinché si trasferissero qui o comunque vi cercassero lavoro. Anche il turismo era cresciuto di molto, soprattutto con il boom di Expo nel 2015: l’anno scorso si contavano 11 milioni di visitatori. E la città ha puntato tutto sul suo terziario, facendone il vero pilastro dell’economia locale.

Con la pandemia, però, molte cose sono cambiate. Lo smart working ha svuotato gli uffici e tolto a molte persone il bisogno di restare in città. Il turismo è crollato sotto i colpi della chiusura dei confini e delle norme di distanziamento sociale. Anche tutti quei lavori a basso reddito e qualificazione che giravano attorno a questi mondi – come quello dei trasporti, della logistica, delle pulizie – hanno subito dei contraccolpi. La recessione ha oscurato poi le opportunità che il tessuto economico milanese sapeva offrire a chi veniva da fuori, pieno di fiducia e speranze. E la chiusura prima totale e ora parziale delle università, con il focus sulla didattica a distanza, ha messo in discussione la permanenza dei fuorisede. Milano, insomma, ha perso di colpo tutti i suoi punti di forza ed è così che sono diventate più visibili le sue criticità, su tutte la sua insostenibilità economica, comune a tante altri grandi capitali europee, prime fra tutte Londra e Parigi. Il capoluogo lombardo ha gli affitti e il costo della vita più alti d’Italia, mentre non è in grado di offrire redditi medi adeguati a un contesto di questo tipo. Tolti gli elementi attrattivi dall’equazione, lasciati quelli problematici, vivere a Milano ha smesso di essere un must.

Salvatore ha 27 anni, si occupa di marketing e comunicazione e lavora come freelance per alcune aziende. È originario di Palermo e vive a Milano da un anno e mezzo ed è proprio qui che si trovava quando a marzo è scattato il lockdown. Oggi non ci è ancora tornato. “Grazie al lavoro da remoto, che ho sempre sostenuto in maniera convinta e che è reso possibile dal tipo di mansione che svolgo, ho deciso di restare in Sicilia, almeno per ora”, racconta. “Lo smart working mi dà la possibilità di restare vicino alla mia famiglia, ma sarei ipocrita se dicessi che non c’è anche una motivazione economica. Qui il costo della vita non è minimamente paragonabile a quello di Milano e questo è sicuramente un elemento che ha influito sulla mia scelta”.

Anche Diego, legale d’azienda di 27 anni, ha deciso che il suo percorso di vita a Milano, almeno per il momento, è finito. Si era trasferito qui nel 2019, una città che definisce “frenetica, dinamica e frizzante”, ma con il nuovo anno molte cose sono cambiate. “Nel giro di pochi mesi Milano è stata disinnescata dal coronavirus”, sottolinea. “Quando l’azienda in cui lavoro ha confermato lo smart working, ho deciso di lasciare il mio appartamento e di ritornare in pianta stabile dove sono nato e cresciuto, un paesino di appena 13mila abitanti vicino alla costa marchigiana. Da un lato, l’idea di lavorare da casa a Milano, in un appartamento di città con spazi ristretti, con tutti i vincoli e le restrizioni legate all’emergenza in corso e a tutta l’incertezza economica e non che ne deriva, credo abbia influenzato in negativo la permanenza di molti smart workers non milanesi espatriati a Milano. In secondo luogo, credo che se da una parte l’esodo ha impoverito Milano privandola del suo motore trainante di tutti i giorni, dall’altra ha restituito forza vitale a quelle zone come le Marche che in passato ne erano state private”.

Giuseppe ha 39 anni e un lavoro nell’ambito della cyber security, è tornato in Calabria con l’emergenza sanitaria e per un po’ non ha intenzione di fare rientro a Milano. Fa parte della rete di South Working, un’iniziativa volta a diffondere la possibilità di lavoro agile dalle regioni del Mezzogiorno. Ed è convinto che questa sia la modalità lavorativa del futuro, perché secondo lui a beneficiarne sarebbe tutto il Paese. “Per il Sud c’è un discorso di ricongiungimento degli affetti, di redistribuzione della ricchezza in maniera più equa e di ritorno degli investimenti in istruzione”, sottolinea. “Il Nord invece può avere accesso a risorse ulteriori rispetto a quelle di cui già dispone, poiché a esse si aggiunge chi per motivi personali non ha mai preso in considerazione un trasferimento fisico”.

C’è poi chi, come Stefano, User Experience designer di 31 anni, ha ricominciato a passare diverso tempo nella città dove è nato e cresciuto, Genova. Prima ci tornava solo il weekend, ora ha deciso di riportare lì la sua base, grazie alla possibilità del lavoro agile. “Un ruolo importante in questa scelta l’ha avuta senza dubbio la componente affettiva, sia per quanto riguarda la famiglia, sia il territorio”, spiega. A Milano, dove ha vissuto negli ultimi quattro anni, ci tornerà giusto per qualche giorno al mese. Stefania invece, impiegata 29enne in un ufficio stampa, da qualche tempo stava valutando di lasciare la sua stanza a Milano per andare a vivere da sola. I canoni di affitto in città si sono però rivelati troppo alti da sostenere da sola. Da qui la decisione di tornare nel suo Paese d’origine, dove nel frattempo si è liberato un piccolo appartamento di famiglia, sfruttando la possibilità di lavorare da remoto.

Queste sono solo alcune delle migliaia di storie di chi fino a poco tempo fa viveva a Milano la sua quotidianità, mentre oggi ha trasferito, del tutto o in parte, la sua base altrove. Una fuga di residenti, che è anche di cervelli e di consumatori, che per ora è più potenziale che reale, dal momento che ancora non si può parlare di un trend definito, ma certamente un allarme che fa riflettere sul futuro della città.

Milano sembra aver arrestato la sua corsa, d’improvviso la sua attrattività si è sgonfiata e se questo da una parte rischia di allontanare chi si credeva avesse posto qui le radici – o quantomeno pensava fosse il luogo giusto, se non l’unico in Italia, in cui far fruttare al meglio gli studi e la propria professionalità –, dall’altra sta mettendo in discussione i piani di chi in un futuro avrebbe voluto trasferirvisi. Il capoluogo meneghino non è comunque un’eccezione negativa in questa fase, quello che sta vivendo è invece comune a tante altre città. All’ombra della Madonnina, semmai, la problematica è più visibile, vista la potenza che “il brand” milanese aveva saputo raggiungere.

“Dire che il modello Milano non ha funzionato bene non significa necessariamente parlare di errori,” sottolinea Bertram Niessen, sociologo urbano e direttore scientifico di cheFare. “Tutto sommato la città in questi anni è stata in grado di fare molto e di farlo abbastanza bene, questo per quanto riguarda il dinamismo economico, l’innovazione sociale, la mobilità, l’attività culturale.” Il mito del place to be milanese, secondo il sociologo, a un certo punto si è dimostrato in parte vero perché si è effettivamente creato un pacchetto di organizzazioni, persone e risorse con un forte potere attrattivo. Ma ora, come accade non solo a Milano, ma anche in altre città, i nodi stanno venendo al pettine.

Bertram Niessen

“Quella in atto,” continua Niessen, “è una crisi di una determinata forma di costruzione di valore urbano, basata eccessivamente sullo sviluppo immobiliare. Tutte le grandi città, Milano compresa, considerano l’immobile come un driver economico. Perché una città riesca a essere più equa c’è invece bisogno di immaginarsi forme di sviluppo urbano che stemperino le iniquità”. Elementi che si fanno sentire in modo più netto in tempi di recessione economica, dove la povertà e la disoccupazione aumentano e con esse le disuguaglianze sociali. La risposta che può venire dalle persone è allora un rifiuto della città, effettivo ma anche solo teorico. Se vuole restare a galla, la città deve allora saper rispondere a questo sentimento. Secondo Niessen, sono tre gli interventi necessari nel caso di Milano: un grande piano di interventi sull’edilizia pubblica, una politica più concertata a livello di città metropolitana e una regolamentazione degli affitti brevi e delle relative piattaforme. Ma c’è anche da focalizzarsi sulle esperienze positive del recente passato cittadino.

“Oggi c’è da prendere quello che Milano ha fatto di buono negli ultimi anni e amplificarlo. Occorre costruire un nuovo rapporto tra lo spazio pubblico e le persone, che è uno dei motivi per cui esse possono trovare voglia, motivazione e un senso allo stare in città”, conclude Niessen. “A cosa serve la città? A offrire la dimensione dell’esperienza, del contatto, dello scambio. Questo oggi più che mai va ricercato, perchè se si annullano questi aspetti la città perde la sua essenza e allora tanto vale andarsene. Milano dovrà affrontare questi temi nel prossimo futuro, però le cose non succederanno da sole. La società civile, la cultura, i movimenti dovranno spingere in questa direzione, per far sentire che un cambiamento è desiderato e auspicabile”.

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