In questi giorni ho visto bandiere di Israele proiettate sui principali palazzi istituzionali dell’Occidente. Ho visto anche bandiere palestinesi impugnate da giovani che manifestavano in piazza, nei luoghi dove sono state vietate. Associando queste immagini alle discussioni nate sui social, mi sono sembrati stendardi di due squadre calcistiche, vessilli da innalzare aprioristicamente con la logica del tifo da stadio. Viviamo nell’era della realtà polarizzata, non è una novità: è così per la politica interna, in tempo di pandemia; quando la Russia ha invaso l’Ucraina; nei casi giudiziari che acquisiscono un’ampia copertura mediatica e persino nelle inezie da rotocalco come il divorzio Totti-Blasi, o nella sfida tra Barbie e Oppenheimer. Bisogna schierarsi. Prendere posizione è giusto, spesso doveroso, ma quando viene seguita la faziosità – e a volte la miopia – del partito preso, dell’opinione che diventa dogma di massa e genera schieramenti allergici alla critica e all’autocritica, è lì che inizia la morte del dibattito pubblico.
Per mia natura e per i miei ideali, non mi sarebbe dispiaciuto scendere in piazza per sostenere la causa palestinese. Quando però – come tanti altri – ho letto le parole di alcuni partecipanti che hanno assolto Hamas per la decapitazione di bambini o per aver trucidato dei ragazzi durante un rave, giustificando queste azioni con la scusa della resistenza di un popolo oppresso, la voglia è subito scemata. È vero, si trattava di pochi elementi e fare di tutta l’erba un fascio non solo è sbagliato, ma alimenta la narrazione di chi dipinge i filopalestinesi necessariamente come dei sostenitori di Hamas e del terrorismo. Eppure, certe reticenze hanno stonato con il senso stesso delle manifestazioni. È come se aderire a una causa rendesse bidimensionale ogni visione, senza possibilità di contemplare una condanna di fronte all’errore o all’orrore commesso dalla fazione sostenuta. La Palestina è il popolo oppresso e Israele dal 1947 è il suo oppressore, e la resistenza – anche armata e feroce – rientra tra i suoi diritti. Il terrorismo, però, è un’altra cosa. Bruciare un bambino non è un gesto politico o uno stratagemma bellico per liberarsi dall’oppressore: è l’esasperazione del fanatismo religioso di un gruppo di estrema destra che ragiona con i codici della “guerra santa”.
Se il settarismo anti-occidentale è dannoso, la sua controparte non è da meno. È come se i media avessero timore di esporsi, di riepilogare i crimini di Israele o anche solo, per restare al presente, di considerare Benjamin Netanyahu un autocrate che attua politiche fasciste. Questo capita anche a persone stimabili che tendenzialmente si sbilanciano. Ho assistito al monologo di apertura della nuova stagione del programma “in esilio” Che tempo che fa, affidato a Michele Serra. Non mi aspettavo di certo un suo arrivo con una bandiera palestinese a mo’ di mantello, ma nemmeno la retorica sugli uomini che sono peggio delle bestie, sui diavoli che ci assomigliano parecchio. Ero davanti alla televisione a scimmiottare Moretti dicendo: “Michele, di’ qualcosa di… palestinese”. E invece niente, predicozzo sul male in stile Il signore delle mosche e lungo applauso finale. Forse, c’era un timore reverenziale per i successivi interventi di Liliana Segre e dello scrittore israeliano David Grossman. E se Segre, come sempre, si è dimostrata lucida e composta, Grossman ha esortato tutti a non confondere gli errori di Israele con il male assoluto di Hamas. È difficile contraddire un pilastro della cultura e del pensiero del nostro tempo qual è lui, e sicuramente Hamas rappresenta un male. La politica di occupazione e gli espropri messi in atto da Israele pure, e ridurre settantacinque anni di brutalità e pulizia etnica a “errori” è più che inappropriato.
Forse, l’esercizio più difficile in questi giorni è condannare sia Israele che Hamas – che, per inciso, non è sinonimo di Stato di Palestina. Se osi ricordare che ciò che gli israeliani stanno facendo nella più grande prigione a cielo aperto del mondo – ovvero Gaza – è roba da campi di concentramento, subito parte l’accusa di antisemitismo. Così come la Palestina non è Hamas, Israele non è l’ebraismo in toto e nemmeno il gregge di chi lo governa. Sarebbe come usare lo stesso termine parlando di Italia e cristianesimo. Come esistono italiani atei, agnostici, buddisti o taoisti, così ci sono realtà palestinesi totalmente distaccate dal fondamentalismo di Hamas – anche a livello religioso, comprese quelle cristiane – e israeliani, tra cui quelli della comunità ebraica, che provano ribrezzo per le politiche di Netanyahu e per ciò che è avvenuto negli scorsi decenni. Giusto quest’anno si sono radunati a Roma gruppi di ebrei italiani e di israeliani residenti in Italia per protestare all’urlo di Bibi dictator. Basta leggere un libro qualsiasi di Philip Roth o visitare direttamente quei luoghi. Quest’ultima opzione adesso è ovviamente ben poco consigliabile, considerando che rischi di venire decapitato in nome di Dio da Hamas e trucidato dagli israeliani in nome di un confine che non smette più di allargarsi o per ritorsione.
Non condivido nemmeno le posizioni di chi in questi giorni vuole appellarsi all’equidistanza. Ogni singola situazione va valutata, facendosi la propria opinione ragionata in base ai fatti del momento, alla luce della Storia. Se però questa opinione si tramuta in un’adesione a una causa per ideologie di rimando, alleanze, oppure opportunismo capzioso ciò che resta è la presunzione di possedere verità assolute in virtù dello schieramento di cui si fa parte. È come quando si proteggono i propri beniamini con lo scudo dell’appartenenza al loro culto.
Io, appassionato dei film di Roman Polanski, credo di avere il diritto di apprezzare la sua arte e contemporaneamente di provare disgusto per ciò che ha fatto a una ragazza di tredici anni. Ugualmente, posso stimare Oriana Fallaci per ciò che ha prodotto in gran parte della sua carriera pur criticando i pensieri espressi nei suoi ultimi cinque anni di vita, e quell’islamofobia su cui adesso fanno perno i più importanti conservatori di destra del nostro Paese. Invece, a quanto pare, se sostieni la causa palestinese sei per forza un fan di Hamas; se ti commuovi per i civili israeliani ammazzati sei un servo di Israele; se apprezzi gli aforismi di Cioran sei un fascista e se leggi alcuni capolavori di Fallaci sei con l’elmetto pronto a partire per una nuova crociata.
Ho fatto fatica a trovare consolazione anche leggendo le idee di chi pensavo fosse immune alla faziosità. Tutto, in questi giorni, sembra essere bianco o nero, le sfumature vengono schivate con la superbia dell’assolutismo. Al contempo ho aspettato al varco alcuni personaggi che inevitabilmente dovevano smentire se stessi per non far crollare il loro castello di sabbia. Dunque il professor Alessandro Orsini ha giustamente caldeggiato la causa palestinese parlando del diritto di un popolo a difendersi dall’aggressore e chiedendo il ritiro di Israele dai territori occupati. Viene da chiedersi il motivo per cui non abbia seguito la stessa logica con l’Ucraina. La popolazione ucraina avrebbe dovuto arrendersi subito dopo l’invasione per – parole sue – evitare ulteriori morti, mentre i palestinesi fanno bene a imbracciare le armi e a non issare bandiera bianca. È l’autodeterminazione dei popoli a fasi alterne: va bene solo quella messa in atto dagli avversari degli Stati Uniti, a quanto pare. Dire che sia gli ucraini che i palestinesi – così come i curdi o qualsiasi altro popolo oppresso del mondo – abbiano il diritto di difendersi non è un’eresia, anche se gli alleati in campo sono diversi.
Però il tifo implica l’orgoglio: non si può tradire un gemellaggio, andare contro gli amici dei tuoi amici. In tal modo il mondo si sta spaccando in due, con un’estensione di quella che un tempo era la guerra fredda. Solo che adesso è caldissima e i blocchi si sono ampliati. Le esplosioni le sentono gli abitanti di Mariupol o di Gaza, ma le pedine si muovono a Teheran, a Washington, a Pechino, a Bruxelles, a Mosca. I cittadini coinvolti sono insetti da schiacciare e il resto del mondo osserva come se assistesse a un reality show, pronto a schierarsi con i propri concorrenti preferiti e a supportarli con il telecomando in mano – perché sembra che altro non possa fare.
Quel telecomando è lo schermo e i social sono le piazze virtuali dell’altro conflitto, quello che viene portato avanti dai supporter ormai diventati prototipi dell’hooligan. La violenza delle guerre reali viene accompagnata da quella verbale e scritta. C’è chi può accusarti di essere antisemita o sionista in base al piede con cui decide di scendere dal letto la mattina. Tu abbozzi, ti interroghi persino su quale sia il significato dell’appartenenza, il motivo che ti spinge a sposare una causa, e infine resti disorientato. Non sai più quanto sia genuina una tua scelta e quanto sia intossicata in seguito ai movimenti intestinali del tifo. Tu stesso sei all’interno di un conflitto, quello interiore, e non ti capaciti di come il mondo abbia preso la deriva degli ultimi tre anni, tra pandemia e guerre, homo homini lupus e il ritorno allo sdoganamento della brutalità dietro agli ideali, come accadeva in epoche che in teoria ci sembravano molto lontane. Nel mentre devi barcamenarti per pagare l’affitto, saltare da un lavoro precario e l’altro, impegnarti affinché i tuoi stessi diritti non vengano schiacciati, ma poco importa: sei un decapitatore di bambini o un complice dell’apartheid; un veterocomunista o uno schiavo della Nato; bianco o nero. Esisti in quanto membro di una fazione, è la società che lo impone.
Quando scoprirai, e scopriremo, l’ebrezza di non essere fedeli alla linea e di aver un pensiero mutabile in base ai singoli eventi, forse portare una bandiera non sarà più il coronamento di un’ortodossia e Gaza e Tel Aviv non avranno lo stesso significato di Milan e Inter.