Per le sale parto e i reparti nascita i padri sono relegati a fantasmi, così le madri restano sole - THE VISION
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Oggi si parla sempre più spesso di carico mentale e fisico legato alla maternità. Da ostetrica e, da appena sei mesi, anche da madre, posso dire che per quanto riguarda la mia esperienza tutto nasce fin dalla sala parto. Il Parlamento Europeo, con una risoluzione votata a Strasburgo già nel lontano 1988, ribadiva alcuni punti attraverso la Carta dei diritti della partoriente, in linea con le raccomandazioni dell’Oms. Tra questi emergeva già allora che la maternità dovesse essere vissuta secondo libera scelta, l’assistenza modulata in base ai bisogni e alle caratteristiche di ogni donna e che questa avesse il diritto ad avere accanto una persona a sua scelta prima, durante e dopo il parto. La figura del partner veniva riconosciuta come parte integrante dell’evento nascita. Eppure, dopo più di trent’anni questo diritto non è ancora garantito a tutti i genitori e nel territorio italiano anche in questo caso si presenta un quadro disomogeneo, soprattutto per quanto riguarda le strutture ospedaliere all’interno della stessa Regione e addirittura della stessa Azienda Sanitaria.

L’esclusione degli uomini nasce da una cultura che mette al centro della cura e delle responsabilità verso i figli la donna che li partorisce. Questa esclusione viene talvolta subita come un’ingiustizia da parte dei genitori, altre considerata come una prassi a cui adattarsi, altre ancora non rappresenta nemmeno una questione su cui fermarsi a riflettere. Ad accentuare questa  problematica ci ha pensato ovviamente la pandemia di Covid che ha costretto gli ospedali a tutelare il personale sanitario con regole per le visite ai reparti piuttosto rigide, poco inclusive e poco rispettose della privacy e dei diritti genitoriali, ma in alcuni ospedali le visite in reparto per i padri sono ancora escluse, e nella maggior parte dei centri nascita limitate a un tempo che va dai 15 minuti alle tre ore. In questo modo, la madre è costretta a farsi carico in modo esclusivo della cura del bambino, senza avere un supporto adeguato e continuativo da parte dell’altro genitore. Da un lato gli ospedali raccomandano la pratica del rooming-in, ovvero la possibilità di tenere il neonato 24 ore su 24 con la madre, e dell’allattamento esclusivo al seno secondo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dall’altro però non garantiscono strutture e supporto appropriati alle donne, arrivando in alcuni contesti a privarle totalmente della presenza di una persona di fiducia nel corso della degenza.

Eppure società scientifiche e federazioni professionali sanitarie sono concordi nel ritenere come modello ideale l’accesso libero 24 ore su 24, in tutte le fasi del parto, nel post partum e nei settori di degenza, comprese le Terapie Intensive Neonatali. La donna che ha partorito, qualsiasi sia la modalità di allattamento del proprio bambino – esclusiva, mista, con biberon – ha bisogno di un’assistenza qualificata, come quella dell’ostetrica e del pediatra, ma anche di un’assistenza pratica condivisa con il partner o con una persona di riferimento: per riprendere le forze e riposarsi, dedicarsi alla conoscenza di suo figlio, per i pasti, suoi e del neonato, i cambi pannolino e per potersi occupare della propria igiene personale. Le donne che desiderano allattare al seno in modo esclusivo incontrano infatti grandi difficoltà nell’avvio dell’allattamento a causa della stanchezza e del dolore legato al parto: molte non sono supportate dal personale sanitario, o scelgono di non farlo perché la fatica a loro carico è sbilanciata, già fin dai primi giorni in ospedale, in un momento che invece sarebbe essenziale e prezioso per il successo della pratica. Il recupero fisico e psicologico nei primi giorni, a fronte di un evento straordinario, talvolta traumatico, richiede empatia, supporto e condivisione.

Anche nel caso di un’interruzione di gravidanza volontaria o di un aborto spontaneo, o nel caso di una diagnosi critica in merito alla sua salute o quella del feto, le donne si trovano in molti casi ad affrontare la situazione e a prendere determinate scelte, o una buona parte di esse, da sole. In alcune realtà, il partner finisce per ricoprire un ruolo marginale, sentendosi tale, con possibili ripercussioni future sulla sua salute psicologica oltre che su quella della donna. Le criticità sono specchio di un problema complesso. Il personale sanitario è carente e sottoposto a un carico di lavoro che non consente di garantire un’assistenza adeguata e personalizzata; le strutture sanitarie non sono idonee ad accogliere tutte le pazienti partorienti tutelando la loro privacy e offrendo spazi consoni; le politiche sulla genitorialità sono inique e sproporzionate in merito al prendersi cura e all’educazione dei figli; la nostra società non rende le persone consapevoli di questa ingiustizia. Difficile trovare una soluzione a tutto questo. Soprattutto dopo aver attraversato un’emergenza sanitaria e con l’attuale panorama politico al potere. Il cambiamento, a mio avviso, deve coinvolgere tutte le parti in causa, dalla base fino all’apice, per essere concreto e prendere forma.

Se immaginiamo la questione come una piramide il cui vertice più alto raccoglie il nucleo familiare rispettato e assistito con adeguatezza, qualunque esso sia, alla base deve trovarsi una società accogliente e pronta al cambiamento. A seguire serve una politica sanitaria trasparente, competente e consapevole di tutte le criticità che coinvolgono le strutture sanitarie pubbliche e private, sia a livello ospedaliero che territoriale, a partire dalla qualità delle condizioni lavorative del personale sanitario. Anche le politiche sociali hanno un peso importante, se si pensa che il congedo di paternità retribuito al 100% dura appena dieci giorni e che solo da quest’anno è stato reso obbligatorio, nel tentativo di una più equa ripartizione delle responsabilità di assistenza tra uomini e donne e di un’instaurazione precoce del legame tra padre e figlio. Sono molti i padri che hanno rinunciato in passato a queste giornate retribuite per non essere derisi dal proprio responsabile e dai propri colleghi. Se è vero che deve cambiare la nostra cultura sul tema in toto, la formazione universitaria, l’educazione nelle scuole con programmi rinnovati, sono convinta che anche la diffusione e la condivisione delle esperienze dei singoli possano fare rumore. Nelle sale parto il feedback delle donne ha un peso per il personale sanitario che può mettersi in discussione e rivedere le pratiche assistenziali. Nella realtà quotidiana le testimonianze possono arricchire e generare consapevolezza sulle diversità e le complessità legate alla genitorialità e all’evento nascita, ricordando sempre che le esperienze individuali non sono assolutismi.

Gli uomini, nell’immaginario comune, e nei loghi di alcuni volantini delle aziende ospedaliere, sono omessi o raffigurati in trasparenza, con un unico colore pallido, in ombra rispetto alla diade madre-bambino, dai colori vivaci. Una sorta di fantasma alle loro spalle, dal ruolo incerto e di sottofondo. È proprio da questa raffigurazione che dovrebbe nascere l’esigenza di un riscatto, di un cambiamento in merito al ruolo del partner nella cura dei figli, che abbraccia tantissime altre tematiche strettamente collegate, come la disparità nelle politiche sociali, le ingiustizie nei luoghi di lavoro e il concetto di famiglia.

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