Siamo tutti per la pace, ma mentre la diplomazia opera gli ucraini devono potersi difendere - THE VISION
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Mentre l’Ucraina continua a essere bombardata, in Italia si inizia a riflettere in maniera sempre più critica sul ruolo dell’invaso e dell’invasore. Questi pensieri e posizioni non vengono da una particolare area politica, possono arrivare dall’Anpi e da organizzazioni pacifiste, così come dalle aree sovraniste e dai seguaci di Dugin. Non tutti hanno un fine e non tutti vengono esposti allo stesso modo (per fortuna), ma implicitamente sembra venga attribuita una responsabilità al popolo ucraino: quella di non essersi arreso.

Quasi sempre questo tipo di analisi parte da una valutazione di Zelensky, che per alcuni sta calcando troppo la mano, rischiando di trascinare tutto il pianeta in una guerra che sarebbe meglio restasse circoscritta in una precisa area geografica, in attesa di una risoluzione diplomatica. Questo, ovviamente, è quello che ci auguriamo tutti, ma mentre – almeno in apparenza – proseguono le vie diplomatiche stiamo assistendo a una carneficina, a città brutalmente rase al suolo e a quello che appare come uno dei più grandi esodi della Storia. Se da un lato, però, è importante analizzare la linea di comunicazione che sta seguendo Zelensky, centrale come in ogni conflitto; dall’altro bisognerebbe anche osservare il comportamento del popolo ucraino, andando a ripercorrerne la storia per cercare di comprenderne le ragioni. Gli ucraini, infatti, non stanno solo combattendo per servire e obbedire al loro presidente (essendoci la legge marziale poco altro potrebbero fare peraltro), ma anche per difendere la loro terra e il loro futuro.

Volodymyr Zelensky

L’Italia e l’Unione europea hanno contribuito ad accogliere i profughi ucraini e a inviare viveri e sostegni economici a chi continua a resistere, oltre alle armi, cosa che ha generato un’ondata di proteste accendendo un dibattito che ha spaccato in due anche partiti e associazioni con basi ideologiche comuni. Pensiamo all’Anpi, simbolo della nostra Resistenza. Gianfranco Pagliarulo, l’attuale presidente, dopo un iniziale comunicato discutibile in cui di fatto vengono ricondotte all’allargamento della Nato le cause dell’invasione dell’Ucraina, ha poi fatto un appello al governo Draghi: “Se l’obiettivo è la pace, non si risolve mandando armamenti”. Al contrario, Carlo Smuraglia, che ha partecipato alla Resistenza come partigiano e che adesso è il presidente onorario dell’Anpi, ha dichiarato che invece è necessario inviare armi agli ucraini perché “un popolo che si oppone a chi vuole dominarlo con poteri autoritari va aiutato a resistere”.

Il fatto che la guerra stia andando avanti sembra aver disorientato sia l’Europa e gli Stati Uniti che i russi stessi. Secondo diverse fonti provenienti dai soldati russi, Putin pensava di potersi prendere l’Ucraina in tre giorni. I soldati – molti dei quali di leva – sono stati mandati a combattere con scorte limitate. Doveva essere un’operazione lampo, ma il popolo ucraino non ha riservato ai russi l’accoglienza che si aspettavano, in particolare nelle zone russofone nell’Est del Paese. Certo, diverse città sono state conquistate e le perdite sono ingenti, ma al momento la resa sembra lontana e pretenderla significherebbe chiedere a uno Stato sovrano di rinunciare alla propria autonomia. Si parla di rendere l’Ucraina uno Stato neutrale, con il rischio però che diventi un satellite russo.

Vladimir Putin

Un conflitto in Europa, nel 2022, è qualcosa che probabilmente se si fosse prestata più attenzione alla politica internazionale verso Est non ci avrebbe dovuti stupire, era comodo far finta di non vedere la guerra cecena, l’annessione della Crimea e la guerra del Donbass, eppure nessuno si aspettava la violenza con cui Putin ha deciso di invadere l’Ucraina. Tutti vogliamo che la guerra finisca, ma i cittadini ucraini, o almeno la gran parte, secondo le informazioni di cui disponiamo, non intende sottomettersi. Come scriveva Orwell: “La via più rapida per porre fine a una guerra è quella di perderla”. Lo stesso Orwell la resistenza l’ha vissuta volontariamente. Si recò in Spagna nel 1936 durante la guerra civile, all’inizio con l’intento di scrivere articoli, poi capì che arruolarsi contro i franchisti sarebbe stata “l’unica cosa concepibile da fare”. Orwell non era di certo un guerrafondaio, tutt’altro: considerava intollerabile qualunque forma di totalitarismo – come si evince dalle opere che poi scrisse – al punto da combattere per un popolo che non era il suo. L’esperienza spagnola diede vita al suo Omaggio alla Catalogna, che forse andrebbe letto o riletto da chi oggi chiede all’Ucraina di farsi da parte e di consegnarsi al nemico, anche se per forza di cose la situazione contemporanea è molto diversa rispetto a quella di quasi cento anni fa, a causa dell’ingresso sulla scena del nucleare ma non solo.

Anche nei salotti televisivi italiani per forza di cose il dibattito sull’armamento dell’Ucraina è in primo piano. Durante una puntata di Otto e mezzo, Jasmine Cristallo del Movimento delle Sardine ha dichiarato: “Questo approccio militarista e interventista sta portando a un bagno di sangue”. La giornalista ucraina Iryna Matviyishyn, che si occupa di diritti umani, le ha risposto sia in diretta che successivamente su Twitter, criticando la narrazione per cui si debbano attendere le vie diplomatiche lasciando nel frattempo gli ucraini a difendersi con armamenti e munizioni sempre più scarsi: “L’argomento troviamo soluzioni, parliamo non è solo ingenuo, è fatale per l’Ucraina, motivo per cui tanti civili sono già stati uccisi”. 

Il punto, come tutti sappiamo, è che l’Ucraina non è parte né della Nato né dell’Unione europea, e quindi quando è avvenuta l’invasione non c’erano accordi che ne garantissero il sostegno militare. Tra gli ospiti di Gruber c’era anche il giornalista Paolo Mieli, che già aveva pubblicato un editoriale sul Corriere della Sera contro quelli che ha definito “pacifisti cinici”. Mieli ha paragonato le posizioni di Cristallo a quelle di Salvini, esponendo la sua versione sulla resistenza ucraina, che ha poi approfondito in un’intervista all’Huffington Post: “La libertà vale più delle bollette. Se noi italiani fossimo invasi ci accorderemmo con l’invasore”. Il problema è che la fine della guerra rischia di avere un prezzo molto pesante per l’Ucraina.

Siamo peraltro nel bel mezzo di un paradosso: l’Italia, nel 2015, sotto il governo Renzi, ha venduto 94 blindati Lince alla Russia, guadagnando 25 milioni di Euro. La nostra nazione inoltre vende armi all’estero per circa 4 miliardi di euro l’anno, e anche a nazioni a noi ostili. Si parla dei rapporti internazionali incrinati dopo il caso Regeni, ma l’Egitto resta il principale acquirente delle nostre armi. Armiamo anche l’Arabia Saudita, che non è di certo la patria dei diritti umani.

È necessario comprendere come il pacifismo debba essere inteso come un valore centrale di un pensiero individuale e politico onnicomprensivo, non presente solo quando ci può fare comodo. Filippo Turati, il padre del socialismo italiano, fu un fervente pacifista, si scagliò contro gli interventisti durante la grande guerra, ma in seguito alla disfatta di Caporetto, nel 1917, riconobbe come a volte fosse inevitabile combattere una guerra per difendere la popolazione. Per questa posizione fu aspramente criticato da Lenin, che lo definì un “socialsciovinista”, ma c’è una netta differenza tra una resistenza e un’aggressione, tra una dichiarazione di guerra e il tentativo di difendersi di un popolo.

Di volta in volta, nella Storia bisogna fare una selezione in base alle caratteristiche dei singoli avvenimenti. Non possiamo permetterci di avallare le pretese di Putin e di qualsiasi autocrate che persegue il credo della guerra e della distruzione. Non smetteremo di essere pacifisti aiutando una nazione in difficoltà e se non capiamo la differenza tra armi di difesa e armi d’attacco saremo probabilmente destinati a soccombere di fronte ai signori della guerra, quelli che ci sono stati, ci sono e ci saranno sempre.

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