Anche impegnandomi, non riesco a risalire all’ultima volta in cui mi sono trovata a fare nulla. Senza dare il via con il pollice a una sessione di scrolling compulsivo, senza tenere un podcast in sottofondo, replicando lo schema caratteristico di tutte quelle nonne che hanno reso CentoVetrine la colonna sonora delle loro giornate pur non ascoltando mai per davvero la tv, ma solo perché sentire qualche voce “fa tanta compagnia”, senza controllare la casella delle e-mail. Il niente quello vero.
Il rapporto conflittuale che negli ultimi anni abbiamo instaurato con il nostro tempo libero, è stato ben delineato dal pensatore francese Blaise Pascal, quando ha scritto nei suoi Pensieri che “tutta l’infelicità dell’uomo sta nel non saper restare quieti in una stanza”. Un’affermazione dall’innegabile carattere profetico, che manifesta la componente malsana di questa incapacità di interrompere la routine per dedicarsi all’autentico fare nulla. Certo, di buoni motivi per uscire dalla stanza quieta di Pascal ce ne sono parecchi, ce lo ha ricordato con prepotenza il lockdown, ma trascorrere dei momenti di vuoto non significa necessariamente rinunciare a tutto ciò che c’è fuori, o rimanere indietro rispetto a chi sta continuando a correre. Soprattutto se la sua è una corsa di criceto.
L’ansia che sorge dalle circostanze che costringono a fare i conti con il proprio tempo libero – quando se ne ha – è stata battezzata dallo psicologo spagnolo Raphael Santandreu con il nome di “oziofobia”. Una sorta di horror vacui esistenziale, che tendiamo a combattere con agende sempre piene di impegni, con una routine quotidiana serrata, capace di rassicurarci proprio perché va a colmare tutti i buchi liberi. Le vacanze sono il grande incubo dell’oziofobico. Lo stop improvviso, l’interruzione della corsa, il passaggio a una concentrazione di attività decisamente meno densa sono tutti elementi che danno corpo alla minaccia incombente del vuoto. Per molti la soluzione è scegliere il pacchetto pronto di un villaggio turistico o l’iter consolidato di un viaggio in crociera. Infatti, attenersi a un programma già deciso da altri anche in vacanza è un buon modo per placare l’angoscia da eccesso di libertà, perché dà la netta sensazione di aver svolto correttamente un compito affidato. La ripetizione dello schema fa sentire a posto chi soffre di oziofobia perché così riempie il suo tempo senza avanzare pretese, magari con proposte insolenti come una scelta alternativa.
La soluzione più immediata per provare a sanare questo particolare horror vacui, consiste nel tradurre l’ansia che ne deriva in un impulso all’azione, spesso senza direzione di senso. Un medicinale che ha un pesante effetto collaterale, dato che l’impostazione routinaria e schematica che imponiamo alla nostra vita fa piombare tutto ciò che facciamo nel baratro dell’equivalenza: non importa con cosa abbiamo deciso di riempire il tempo, ciò che conta è non rimanere da soli nel nulla. Il risultato è un atteggiamento che funziona come il migliore degli scudi, perché ripara dalle angosce grazie alla creazione di un loop di azioni ripetitive, il cui esito è l’annientamento di qualsiasi possibilità di fermarsi a pensare.
Sembra essersi persa la consapevolezza che la ripetitività senza via d’uscita, più che rappresentare una strategia di difesa efficace, sia una condanna. L’oziofobia, infatti, rende la vita una “fatica di Sisifo”, molto simile alla punizione inflitta al protagonista del mito, colpevole di avere ingannato gli dèi. Nella mitologia greca, Sisifo, “il più furbo dei mortali”, viene rinchiuso nell’Ade e costretto a trasportare fino in cima a una montagna un masso che inesorabilmente ricade giù appena toccata la vetta. Un’immagine potente, che è stata il soggetto di diverse opere di teatro greco, ed è diventata nel senso comune il simbolo di qualsiasi impresa inutile, destinata a vanificarsi non appena compiuta.
In questo periodo sembriamo aver frainteso la “gioia di Sisifo” di cui parlava Albert Camus, filosofo francese che ha dedicato alla lettura del mito un saggio omonimo pubblicato nel 1942, il cui nucleo centrale, però, era il tema del suicidio. Partendo da un quadro teorico che fissa la condizione umana in una posizione di assoluta drammaticità, la riflessione dell’autore nega il valore del suicidio come vittoria sull’assurdità che caratterizza l’esperienza umana. Il sentimento dell’assurdo si fa sentire vivo nell’uomo a causa della lotta interiore che oppone la costante ricerca del senso dell’esistenza e i lampi di coscienza che rivelano l’insensatezza della stessa. Ma secondo Camus, togliersi la vita è soltanto un modo di assecondare questo malessere, rinunciando irreversibilmente ad ogni tentativo di contrastarlo. Per questo nel contesto del saggio la figura di Sisifo diventa una rappresentazione della lucida coscienza dell’uomo nei confronti del proprio destino. Continuare a vivere, pur avendo compreso l’inutilità delle proprie fatiche, è un gesto di rivolta che accende nell’uomo la gioia della consapevolezza di sé, che è l’unica via di salvezza dall’assurdo.
Camus piega il mito greco trasformando Sisifo in un “condannato libero”, che è cosciente del suo destino e dunque lo sceglie per continuare a combatterlo. La gioia di Sisifo non sta nel riprodurre l’azione a cui è destinato, non è legata al riempimento del tempo. Al contrario, sono proprio i momenti in cui cerca il significato di ciò che sta facendo, le prese di coscienza capaci di interrompere il circolo vizioso della sua condanna, le responsabili della consapevolezza e della gioia che il personaggio mitico riesce ad acquisire. Il punto che oggi stiamo equivocando è proprio questo, dal momento che abbiamo rinunciato alla possibilità di fermarci a pensare, in favore di una ripetitività schematica che ci fa sentire al sicuro. Continuare a lavorare rincorrendo il weekend, per poi saturare tutte le sue ore fino alla domenica sera, pedalare ore e ore sulla cyclette in modo da essere pronti per la prossima prova costume, prenotare le vacanze in un villaggio dove a riempire il tempo ci pensano i balli di gruppo degli animatori, non porta alla gioia di Sisifo, ma ad alimentare l’horror vacui. La corsa a perdifiato che continuiamo a imporci, infatti, non è che un altro modo di spingere la pietra sulla spalla del monte, ma più angosciati di Sisifo, perché preoccupati di arrivare in fretta alla vetta, per verificare che il nostro masso cada ancora a valle, in modo da ricominciare immediatamente la scalata. Finché avremo abbastanza fantasia per inventarci un altro impegno – più o meno “vano” – da appuntarci in agenda, così da non avere mai un attimo di tempo per mettere in discussione ciò che stiamo facendo.
Gli atteggiamenti di difesa dall’oziofobia agiscono sul sentimento di irrilevanza che ci assale quando ci accorgiamo che anche se ci fermassimo, non cambierebbe nulla. Si tratta di strategie volte a giustificare l’importanza “cosmica” che attribuiamo al nostro ritmo delirante, atteggiamenti che ci permettono di celare cosa (non) accadrebbe se ci concedessimo una pausa. Ma è proprio la pausa, il buco in agenda, a rappresentare la terapia più adatta all’oziofobia, perché ci mette di fronte a quello che ci intimorisce di più: il dover dare una direzione a ciò che facciamo. Riscoprire il vuoto come uno spazio di pensiero, dove siamo liberi di muoverci come vogliamo, significa darsi la possibilità di una scelta. Per spezzare lo schema e riappropriarci di una consapevolezza sulla direzione delle nostre azioni serve il dubbio, servono le domande, serve una prospettiva sulle conseguenze di come agiamo, che è possibile da immaginare soltanto interrompendo la ripetitività.
La guarigione dall’oziofobia, infatti, non è un premio per chi corre di più, senza darsi una direzione precisa, riguarda piuttosto chi sa scegliere quello che sente di voler fare, perché lo percepisce come realmente utile o, ancor più, come giusto. Arrestare la routine per pensare al significato che le attività in cui ci impegniamo ogni giorno hanno per noi, vuol dire liberarsi dalla pressione che ci convince di dover correre a ogni costo, e riscoprire ciò che percepiamo come rilevante. In questo senso, scacciare l’ansia da oziofobia, implica la capacità di fermarsi, di fare una pausa, non soltanto per orientare l’azione verso uno scopo, ma per capire se è proprio quello lo scopo giusto, la direzione che vogliamo percorrere e se siamo pronti a prenderci tutte le conseguenze che ne derivano. L’interruzione della routine rompe la logica dell’equivalenza, riportando in superficie il senso del giusto che la ripetitività ci aveva fatto mettere da parte.
La fatica del Sisifo di Albert Camus viene alleggerita dai pensieri del protagonista che si interroga sul senso della salita, e che sembrano rendere anche la sua pietra meno pesante. Appoggiare un attimo la penna, per chiederci come vogliamo riempire quello spazio in agenda, o darci la possibilità di lasciarlo vuoto, avrà lo stesso effetto sulla nostra oziofobia.