Le vendite del romanzo distopico 1984 (del 1949) di George Orwell hanno subito un picco in due occasioni negli ultimi tempi, sempre in risposta a eventi di cronaca. La prima, è avvenuta all’inizio del 2017, quando il concetto di verità alternativa ha riportato alla mente di molti la figura di Winston Smith, il protagonista del libro: dipendente del ministero della Verità e mistificatore di fatti professionista. La seconda nel 2013, quando il whistleblower dell’intelligence americana Edward Snowden ha esplicitamente comparato l’uso diffuso dei sistemi di sicurezza da parte dei governi con il mondo immaginato da Orwell. “Le forme di controllo descritte nel libro – microfoni, videocamere e televisori che ci osservano – non sono niente se paragonate ai mezzi disponibili oggigiorno,” aveva detto.
Snowden aveva ragione. Nel rileggere 1984 oggi colpisce soprattutto l’idea orwelliana dei teleschermi, televisori dotati di telecamera che osservano tutto ciò che accade. Sono tra i primi oggetti a essere descritti nel romanzo: “Il volume di quell’apparecchio (si chiamava teleschermo) poteva essere abbassato, ma non spento.” È onnipresente, in ogni stanza privata e spazio pubblico, fino alla fine del libro quando continua “a vomitare le sue notizie dei prigionieri, del bottino, del massacro,” anche dopo le dimissioni di Smith.
La cosa che colpisce di più dell’ubiquità dei teleschermi è quanto Orwell avesse ragione – e allo stesso tempo torto – rispetto al nostro presente tecnologico. Gli schermi oggi non sono solo una parte della nostra vita; sono la nostra vita. Interagiamo con questi così spesso, e in un modo così pervasivo, che per molti è difficile persino immaginare – o ricordare – come fosse la vita prima. E per di più, oggi tutte queste interazioni sono registrate. Snowden non è stato il primo a notare quanto i social media e gli smartphone si avvicinassero alle fantasticazioni di Orwell. Ma l’autore stesso non poteva immaginare quanto impazienti saremmo stati di rimpicciolire i teleschermi per poterli avere sempre con noi, ovunque andiamo. E nemmeno quanto solleciti saremmo stati nel regalare alle compagnie che alimentano il nostro bisogno di connessione tutti i dati che produciamo. Siamo così circondati dai teleschermi, così oltre la linea disegnata da Orwell, che lui stesso non avrebbe potuto immaginare il nostro mondo.
O forse si? Lo scrittore britannico ci fornisce un paio di indizi circa le origini dei teleschermi e dello stato totalitario descritto in 1984. Prenderli sul serio significa puntare il dito verso le grandi società, piuttosto che verso i governi, quando si tratta di trovare la causa della crisi della libertà. Se Orwell avesse ragione, la scelta del consumatore – che rappresenta l’ideale di scelta per eccellenza – potrebbe essere l’inizio dell’erosione della scelta stessa.
Il primo di questi indizi si evince nel sentimento generato in Winston dall’assenza della tecnologia, quando per la prima volta si trova in una stanza senza un teleschermo: “’Non c’è un teleschermo!’ non poteva fare a meno di mormorare. ‘Ah’, disse l’uomo, ‘Non ne ho mai avuto uno. Troppo costosi. E non ne ho mai sentito il bisogno, ad ogni modo.’” Anche se poi impariamo a dover prendere le affermazioni del vecchio con le pinze, sembra che – a un certo punto, per qualcuno – decidere se avere un teleschermo o meno fosse una libera scelta.
Il secondo degli indizi è nascosto in un libro nel libro: la storia censurata della nascita del Partito, scritta da uno dei suoi primi architetti, che da allora è diventato un Nemico del Popolo. Lo scritto imputa alla tecnologia la colpa per la distruzione della privacy, ed è qui che cogliamo un barlume del mondo in cui oggi viviamo: “Con lo sviluppo della televisione, e l’avanzamento tecnologico che ha reso possibile ricevere e trasmettere segnale simultaneamente tramite lo stesso dispositivo, la vita privata è giunta alla fine.”
Cosa ci racconta dunque della vita che conduciamo oggi la torbida storia del teleschermo? La riluttanza del vecchio e il potere della televisione suggeriscono che il controllo totalitario potrebbe non iniziare dall’alto – almeno, non nel senso in cui noi immaginiamo. Il libero accesso alle nostre vite personali inizia con una scelta, ovvero la decisione di acquistare un prodotto perché “sentiamo di averne il bisogno”. Nel mettere in pratica i nostri desideri sul mercato, consegnamo i nostri dati alle aziende. L’erosione della scelta si rivela essere nelle conseguenze della scelta stessa – o quantomeno, nelle conseguenze che derivano dalla celebrazione della scelta.
Sono state due studiose di storia, recentemente, a giungere a tale conclusione, anche se in modi piuttosto diversi. La prima, Sarah Igo dell’Università di Vanderbilt, Tennessee, ha fatto notare come la domanda di privacy degli americani nel Ventesimo secolo sia andata di pari passo con la loro stessa decisione di sacrificarla. Allo stesso tempo, i cittadini hanno protetto e condiviso le loro vite private attraverso sondaggi e social media, arrivando gradualmente ad accettare che contribuire alla raccolta dei dati – e delle ricompense che ne derivano – su cui dipendiamo sempre di più, sia parte integrante della vita moderna. Anche se alcune di queste abitudini sono state adottate in maniera più entusiasta di altre, Igo ha dimostrato come ormai pensiamo che la scelta non abbia nulla a che vedere con i nostri dati personali.
Allo stesso tempo, la storica Sophia Rosenfeld dell’Università della Pennsylvania ha spiegato come la libertà stessa sia stata ridotta alla scelta – nello specifico, alla scelta tra un numero limitato di opzioni – e questo ha portato a una rivoluzione politica e di pensiero. Mentre il vaglio delle opzioni (a cui ci riferiamo come “scelta”) è limitato a ciò che troviamo online, cominciamo già a sentire le conseguenze di questo cambiamento nelle nostre vite.
Possiamo facilmente immaginare di poter scegliere se acquistare un teleschermo o meno. Molti di noi l’hanno già fatto. E possiamo anche pensare di averne bisogno, o di trovarli così utili da essere necessari. Il vero punto è proprio questo, il passaggio da convenienza a obbligo: quando non possiamo più pagare le tasse, gestire documenti ufficiali o fare un ricorso senza un teleschermo.
Un uomo saggio un giorno disse: “Chi dice che ‘il consumatore ha sempre ragione?’ Il venditore – è lui e sempre lui.” Quando le compagnie alimentano il nostro impulso di connessione e raccolgono i dati che ne derivano, non siamo sorpresi. Quando le stesse compagnie sono trattate come fossero aziende di pubblica utilità, che lavorano fianco a fianco con il governo per metterci in connessione – è allora che dovremmo essere sorpresi, o quantomeno diffidare. Fino a oggi, la scelta di usare Gmail o Facebook è sembrata semplicemente tale: una scelta. Ma il passaggio da scelta a costrizione è difficile da individuare.
Avere bisogno della carta di credito per comprare un caffè, o dover usare un’app per inviare un reclamo è il minimo. Ma quando lo smartphone diventa necessario per i lavoratori migranti, o compilare documenti ufficiali diventerà possibile soltanto online, saremo molto vicini al superamento del limite. Il prossimo censimento negli Stati Uniti è previsto per il 2020 e ancora ci chiediamo come i nostri dati verranno raccolti, conservati e analizzati: quel limite potrebbe essere molto vicino.
Questo articolo è stato tradotto da Aeon.