Da giorni, soprattutto in Italia, non si fa altro che parlare di Biancaneve. L’Ansa parla di Furore su Disney, AGI scomoda il MeToo, Gramellini scrive l’immancabile editoriale e sono arrivate anche le indispensabili dichiarazioni di Salvini e Meloni. Il motivo di tanta indignazione è che il parco divertimenti di Disneyland di Anaheim ha modificato la giostra dedicata a Biancaneve aggiungendo come attrazione finale il bacio del principe azzurro. Secondo le testate italiane questo avrebbe provocato un’indignazione di massa, una vera e propria crociata contro le favole tradizionali che promuovono baci non consensuali e stereotipi sessisti. In realtà, non è andata proprio così. I giornali hanno ripreso infatti un articolo di un giornale locale di San Francisco, in cui le autrici criticavano la scelta del parco divertimenti, scrivendo però anche che la scena del bacio è “eseguita magnificamente, a patto che la si guardi come una fiaba, non come una lezione di vita”. Non proprio una “ondata di polemiche”, ma l’opinione legittima di due croniste locali. Non è la prima volta che la stampa italiana si fa coinvolgere da questi presunti “casi” – che si rivelano puntualmente mal interpretati, se non del tutto montati ad arte – ma ogni scusa sembra essere buona per parlare del male del nostro tempo: il politicamente corretto.
Secondo un sondaggio del 2018, l’80% degli americani pensa che il politicamente corretto sia un problema. Le percentuali sono simili fra i giovani e addirittura più alte fra le minoranze etniche. Persino tra i democratici cosiddetti passivi – cioè quelli che votano il partito ma non sono politicamente impegnati – gli oppositori al “pc” arrivano al 61%. Il sondaggio non dava una definizione del termine, ma si limitava a chiedere agli intervistati quanto fossero d’accordo con frasi come: “Ritieni che il pc sia un problema nel nostro Paese?”, “Ritieni che il pc sia andato troppo oltre?”. Il report sottolinea come, quando veniva chiesto ai partecipanti di definire il politicamente corretto, questi fossero in difficoltà. In effetti questo termine ha una storia molto ambigua.
La prima attestazione del suo utilizzo, come scrive il linguista Federico Faloppa, risale a una sentenza del 1793 della Corte suprema americana, in cui il giudice James Wilson scrive che parlare di “Stati Uniti” anziché del “popolo degli Stati Uniti” non fosse “politicamente corretto”. Wilson si riferiva in questo caso più a una questione di opportunità politica che di conformismo morale. Il termine conserva questa accezione per molto tempo, finché negli anni Trenta non viene adottato dal Partito comunista americano per indicare le politiche che sono più “corrette” nei confronti della dottrina del partito. Negli anni Sessanta, negli ambienti accademici della New Left e nei movimenti per i diritti civili, l’espressione cambia nuovamente di senso, assumendo una connotazione ironica e di autocritica: essere politicamente corretti significa essere anche estremamente ortodossi.
Nel frattempo, oltre al linguaggio cambiano anche le università. Il Titolo IX del 1972, che elimina le discriminazioni basate sul genere, e l’Equal Educational Opportunities Act del 1974, che pone definitivamente fine alla segregazione razziale nelle scuole, portano negli anni Ottanta all’iscrizione di migliaia di donne e afroamericani nei college di tutto il Paese. Nelle facoltà si diffondono gli studi di genere e postcoloniali, che promuovono sia la riorganizzazione dei corsi universitari in senso antisessista e antirazzista, sia l’eliminazione di discriminazioni e ostacoli per le minoranze nel percorso universitario. Questa nuova generazione di studenti, insomma, chiede un cambiamento sociale dell’istituzione universitaria, percepita ancora come classista, elitista e conservatrice.
La svolta arrivò a metà degli anni Ottanta quando, scrive Faloppa, “anziché essere una frase che usavano gli attivisti di sinistra per criticare (e prendere in giro) le tendenze dogmatiche all’interno dei loro movimenti, il politicamente corretto diventò una disputa dei neo-conservatori, che riuscirono a persuadere l’opinione pubblica che il pc fosse un parte di un’agenda politica di sinistra che voleva assumere il controllo delle università americane e delle istituzioni culturali”. Anche se spesso i campus statunitensi sono descritti come i luoghi più fertili della cancel culture, in realtà sono pieni di studenti conservatori, che attraverso le borse di studio di lobby, think tank e del partito repubblicano mirano a diventare la futura classe dirigente americana. Studenti e professori di destra cominciano in questi anni ad attaccare sistematicamente i nuovi campi del sapere, criticando il relativismo o il cosiddetto marxismo culturale che a loro dire hanno l’obiettivo di distruggere la tradizione occidentale.
Nel giro di pochi anni, i neoconservatori americani riescono in una mirabile operazione di reframing, per dirla con George Lakoff, rovesciando il significato di politicamente corretto e martellando l’opinione pubblica in quella direzione. Nel 1987, Allan Bloom pubblica il famoso e influente saggio La chiusura delle mente americana, una dura critica nei confronti delle università che indottrinerebbero i propri studenti attraverso il politicamente corretto. Dietro Bloom, così come dietro ad altri accademici che pian piano si conquistano sempre più colonne nei quotidiani più prestigiosi, secondo il libro d’inchiesta Dark Money ci sarebberoo think tank conservatori e lobby come la Olin Foundation, legata all’omonima industria chimica e considerata la principale sponsor dell’intera area politica americana.
Negli anni Novanta e durante la presidenza Clinton in particolare, l’avversione verso il politicamente corretto raggiunge il suo apice: sul New York Times se ne parla come dell’“ideologia non ufficiale dell’accademia” e Newsweek dedica un intero numero alla “psicopolizia” della nuova società americana, paventando il rischio di un “nuovo maccartismo”. L’argomento passa così dall’essere un dibattito interno alle università a un tema della cultura pop, affrontato anche da cartoni animati particolarmente dissacranti come Beavis and Butthead o South Park. Secondo il database di giornali americani ProQuest, nel 1985 in nessun articolo si trova l’espressione “politicamente corretto”. Dieci anni dopo, viene menzionata 6985 volte. Negli stessi anni si diffonde anche sui giornali italiani, spesso invariata dall’inglese “politically correctness”, fino ad arrivare al pamphlet di Flavio Baroncelli Il razzismo è una gaffe. Eccessi e virtù del «politically correct», pubblicato nel 1996.
Ma è con l’elezione di Donald Trump che l’espressione trova una nuova linfa. L’allora candidato alla presidenza, durante la campagna elettorale si pronuncia più volte contro il politicamente corretto, pur senza mai definirlo con precisione. E mentre una nuova ondata di attivismo studentesco interessa i college, la guerra culturale portata avanti dall’alt-right contro i social justice warriors si arma delle fake news. Siti conservatori, tabloid o semplici aggregatori montano casi dal nulla, riportano male le notizie o esagerano la gravità delle contestazioni: l’espunzione di un autore classico da un programma scolastico di qualche sperduto liceo della Virginia diventa il tentativo di cancellare la millenaria tradizione occidentale; un thread su Twitter con 25 like che critica un film per il suo contenuto sessista diventa un tentativo di boicottaggio, e così via.
Raramente queste notizie raggiungono le testate più importanti, ma questo non impedisce la loro viralità. Avendo per oggetto figure o opere a cui tutti siamo legati, colpiscono emotivamente il lettore. Se a questo loro appeal intrinseco si aggiunge la sciatteria di alcuni giornalisti nel non verificare le fonti, si spiega facilmente come queste notizie arrivino e si diffondano anche da noi. Per fare un esempio, lo scorso febbraio Il Giornale ha ripreso la notizia della censura di Tom & Jerry in Brasile, non solo dando per buona una fake news già smentita, ma addirittura risalente al 2013. In molte occasioni, a fare da megafono di queste storie ci sono politici che sembrano non vedere l’ora di prendersela con i “deliri dei progressisti”.
Vista la diffusione del fenomeno, è davvero difficile credere alla buona fede di chi commette questi errori. È invece sempre più evidente che la destra è riuscita a cambiare il nostro schema mentale nella percezione del politicamente corretto. Nei suoi studi, Lakoff ha dimostrato come bastino una o due parole per evocare un intero sistema di valori. “Politicamente corretto” è forse il capolavoro del framing conservatore: tutti abbiamo un’idea di cosa sia, abbiamo in mente miriadi di esempi ma facciamo fatica a spiegarlo bene. E i fatti ci smentiscono in continuazione: si parla di censura per film che vengono comunque proiettati o per libri che si trovano facilmente in libreria. Si parla delle polemiche delle “femministe” senza che nessuno sappia nominarne una che si è pronunciata sul caso in oggetto. Se si guarda quali inviti a conferenze sono stati ritirati dalle università americane nel 2021 dopo le proteste degli studenti – altro esempio di polemica sul politicamente corretto – non si troveranno i nomi di repubblicani tradizionalisti, ma della comunista Angela Davis e dell’attivista palestinese Leila Khaled.
La cosa più frustrante, e che forse sancisce la definitiva vittoria del rebranding sul politicamente corretto, è che anche molti intellettuali e politici di sinistra sembrano essere caduti nella trappola, vuoi per la storica avversione contro la cultura statunitense, vuoi per un riduzionismo francamente un po’ populista, secondo cui il vero proletario non si cura di facezie come il sessismo o il razzismo. Se è vero che è importante riflettere sull’importanza dei diritti sociali accanto ai diritti civili e non lasciarsi risucchiare da certi moralismi, non possiamo permettere che la paura del politicamente corretto diventi anche il nostro frame mentale. Come dice Lakoff, impariamo a non pensare all’elefante.