Uno dei pochi punti su cui opinionisti e ricercatori in ambito politico e socioculturale ultimamente sembrano essere tutti d’accordo è che la nostalgia sia diventata la cifra del nostro tempo. Negli ultimi anni sono infatti stati pubblicati numerosi articoli, saggi e podcast con lo scopo di descrivere o tentare di spiegare perché siamo tutti così ossessionati dal passato, sia a livello personale che come emozione collettiva. La nostalgia oggi smuove gli animi di spettatori, consumatori ed elettori, fa presa che si tratti di vendere un prodotto o di portare le persone al cinema. Non ci sono mai stati così tanti remake, reunion e reboot di film e serie TV come in questi anni: si va dal Gladiatore a Dirty Dancing, da Sex and the City a Grease, da Jurassic Park ai live action Disney su cui si scatenano polemiche ad ogni accenno di modifica rispetto agli originali. Persino Barbie di Greta Gerwig, nel riproporre la storia della nota bambola sotto una nuova luce, ha attinto di fatto alla nostalgia dei pomeriggi passati a giocarci. Nel mondo della moda spopola il vintage, Pokémon Go è stato acclamato come uno dei migliori esempi di marketing nostalgico e se Ambra Angiolini torna a esibirsi cantando “T’appartengo” come quando aveva 17 anni, il web si riempie di contenuti virali riportando il brano in testa alle classifiche. La nostalgia è un esempio perfetto di collante generazionale, ricordare i tempi passati crea un senso confortante di comunità basata sul “Io c’ero” e il “Te lo ricordi”. Così, persino sui social, simbolo della rivoluzione digitale, si finisce per archiviare il passato, tra foto dei giocattoli di un tempo e post dove si discute delle migliori merendine anni ‘90.
Sfruttare la nostalgia nella comunicazione si rivela spesso una scelta vincente e questo vale anche in politica. Matteo Salvini, che utilizza di frequente le emozioni per veicolare messaggi politici, negli anni ha raccolto sui social numerosi post a m’arcord: lui che mangia i formaggini Susanna, lui che gioca con i Lego o con un flipper trovato in un bar, lui che ricorda i “fichi raccolti per la merenda con mamma e papà”. Ma in politica la nostalgia agisce anche a livello più profondo. Il riemergere sempre più evidente di movimenti di estrema destra di stampo nazionalista o apertamente neofascisti si nutre di fantasie nostalgiche che romanticizzano un passato più prospero, stabile e “gradioso” a cui si pensa sia possibile fare ritorno, un sogno in grado di unire e costruire una comunità.
Secondo Svetlana Boym, docente di Letterature slave e comparate ad Harvard e autrice del libro The Future of Nostalgia, “si tratta di un meccanismo di difesa in un periodo contrassegnato da ritmi di vita accelerati e da sconvolgimenti storici”. “Sembra che la fiducia nel futuro sia venuta meno”, scrive, e ce lo confermano i dati. L’ultima rilevazione dell’Indice di fiducia diffusa dal Consiglio Nazionale dei Giovani vede un calo dello 0,2% e numerose ricerche parlano di un forte disagio psicologico, soprattutto nei giovani, dovuto alla paura del futuro anche a causa del cambiamento climatico, ma anche dell’aver attraversato una pandemia, dell’avvicinarsi di guerre, e ancora crisi umanitarie e stragi in onda sui nostri smartphone, crisi economiche ed energetiche che si susseguono: è difficile credere che le cose andranno meglio. Tra un presente instabile e un futuro incerto, solo il passato sembra garantirci un certo grado di sicurezza, ed è in questa spaccatura che si inserisce la nostalgia.
Questa parola nasce in riferimento a un luogo più che a un tempo. È di origine greca ed è composta da “nostos”, ovvero “ritorno in patria”, e “algos”, “dolore, sofferenza”, etimologia che ritroviamo in vari termini dell’area semantica medica. Quando lo studente Johannes Hofer utilizzò per primo il termine “nostalgia” nel 1688, infatti, fu proprio per spiegare il profondo malessere dei mercenari svizzeri al servizio del re di Francia Luigi XIV scatenato dalla prolungata lontananza dal loro Paese. Secondo Hofer la nostalgia andava oltre il ricordo e la memoria, era una “malattia dell’immaginatio”, un’immaginazione che si è inceppata e porta a vivere in un altro luogo, svincolato dalla realtà. La nostalgia è caratterizzata dalla volontà di un ritorno a un luogo amato o a un tempo già vissuto, o di cui si è solo sentito raccontare, a un’età dell’oro idealizzata. “L’epoca d’oro è un artificio narrativo, una finzione che ci aiuta a vivere. Niente di più”, scrive Lucrezia Ercoli, docente di Storia dello spettacolo all’Accademia di Belle Arti di Bologna nel suo saggio Yesterday. Filosofia della nostalgia, “Siamo noi che costruiamo i tratti dell’epoca d’oro, siamo noi che cerchiamo in un passato vagheggiato e lontano – che non abbiamo vissuto in prima persona e che possiamo ricostruire a posteriori selezionando i suoi profili migliori – i tratti della vera felicità che non rintracciamo nel presente”. Ercoli cita un episodio de L’insostenibile leggerezza dell’essere, in cui Milan Kundera scrive “Mi commuovo sfogliando un libro su Hitler” e racconta questo fenomeno che “sostituisce alla rabbia e al disprezzo un’autentica commozione” spiegando che “In quelle foto d’epoca non ci sono documenti della Storia dei totalitarismi del Novecento, ci sono ricordi personali degli anni fulgenti della mia giovinezza perduta, un periodo della mia vita che non tornerà mai più”. È questo sentimento irrazionale che ci anima nel costruire quelle che Zygmunt Bauman chiama “retrotopie”, delle utopie al contrario che si avvalgono di una memoria selettiva per idealizzare il passato.
A livello politico sono innumerevoli le derive di questo tipo, che puntano a tornare indietro piuttosto che andare avanti, dalla Brexit al “Make America great again” di Donald Trump. Nel mondo occidentale stiamo assistendo a passi indietro sui diritti civili, a un sistematico attacco alla libertà di abortire, ma anche all’ascesa di gruppi di estrema destra di stampo nazionalista in Francia, Svezia, Germania mentre in Ungheria e Italia hanno già ottenuto la maggioranza per governare. Guardando la video inchiesta di Fanpage di cui si è discusso molto sull’organizzazione giovanile di Fratelli d’Italia, Gioventù Nazionale, è evidente il richiamo al fascismo e al nazismo tramite un vero e proprio ritorno a codici e simboli del passato che diventano un mezzo per creare aggregazione e fomentare un senso di appartenenza.
Di pari passo, un altro elemento integrante delle retrotopie è la demonizzazione del presente e del futuro presentati come inquietanti e pericolosi anche tramite scenari esagerati, teorie del complotto e fake news. Nei manifesti elettorali della Lega alle ultime elezioni europee ogni volantino mostrava un’immagine nota e rassicurante (sotto lo slogan “più Italia”) e un’immagine destabilizzante (sotto lo slogan “meno Europa”) a indicare quello che sarebbe successo se si fosse scelto il progresso e abbracciato il futuro: un panino ricolmo di insetti al posto del classico e italianissimo panino al prosciutto, pomodori creati in laboratorio al posto della tradizionale agricoltura nei campi, una persona trans con in braccio un bambino contrapposta a quella di una donna cisgender.
Nel suo libro Chi ha paura del gender? la filosofa statunitense Judith Butler parla di come i conservatori attribuiscano a quella che loro stessi definiscono “teoria gender” tutta una serie di minacce alla società, dalla pedofilia al deterioramento dei costumi sessuali, dalla promozione dell’omosessualità alla distruzione della famiglia tradizionale. Catalizzare in modo irrazionale le paure verso un unico grande nemico come il “gender” o il “politicamente corretto” distoglie l’attenzione da problemi più concreti come la crisi economica, l’avanzare delle guerre, la mancanza di diritti sul lavoro o la distribuzione delle risorse. Allo stesso tempo chi esalta il passato spesso auspica effettivamente un ritorno a un’epoca in cui il privilegio delle classi dominanti era più solido e indiscusso. “Il passato idealizzato”, scrive Butler, “si è ritrovato nell’appello del movimento ideologico anti-genere a ripristinare un ordine patriarcale per la famiglia, il matrimonio e i legami di sangue e nelle restrizioni sulle libertà riproduttive, sull’autodeterminazione di genere e l’assistenza sanitaria per le persone LGBTQIA+. In ognuno di questi casi, viene data priorità a un passato immaginato a scapito di un potenziale futuro di maggiore uguaglianza e libertà”.
Immaginare e costruire un futuro migliore richiede uno sforzo maggiore rispetto a ripiegarsi nella ricerca del passato ma, se si vuole proporre un’alternativa alla nostalgia, è proprio ai gruppi marginalizzati e ai movimenti per i diritti e la giustizia sociale che i progressisti dovrebbero guardare. Patrisse Cullors, una delle fondatrici di Black Lives Matter, in un post su Facebook del 2013 sulla missione del famoso movimento contro il razzismo sistemico e gli omicidi delle persone nere da parte della polizia, fa riferimento proprio alla speranza. Tra gli obiettivi degli attivisti, a suo dire, dovrebbe esserci l’impegno a “Fornire speranza e ispirazione per un’azione collettiva, per costruire un potere collettivo, per raggiungere una trasformazione collettiva, radicata nel dolore e nella rabbia ma rivolta verso la visione e i sogni”. La speranza diventa l’emozione che, specularmente rispetto alla nostalgia, permette di accettare l’incertezza e credere che un margine di azione sia possibile per creare un futuro migliore del passato e del presente. “Secondo me”, scrive l’autrice femminista Rebecca Solnit nel suo libro Speranza nel buio. Guida per cambiare il mondo, “le basi della speranza sono, semplicemente: l’impossibilità di conoscere cosa succederà e sapere che l’improbabile e l’inimmaginabile accadranno con una certa regolarità. E che la storia non ufficiale del mondo mostra come l’impegno degli individui e i movimenti popolari possano influenzarla e ottenere qualcosa, anche se non si può prevedere come e se ce la faremo, né quanto tempo ci vorrà”.
La speranza, in questo senso, va distinta dall’ottimismo e dall’astratta convinzione che tutto andrà bene. Piuttosto, come ha sottolineato in un’intervista recente l’attivista Angela Davis che ha dedicato tutta la sua vita alla lotta per i diritti civili delle persone razzializzate e delle donne, la speranza andrebbe intesa come “una disciplina”, una pratica da coltivare anche quando faticosa, essenziale per il cambiamento e opposta al disfattismo. Generare speranza significa trovare nell’incertezza del futuro – e non nell’illusoria certezza del passato – un margine di azione e immaginazione collettiva. “Sperare è scommettere”, scrive Solnit, “È scommettere sul futuro, sui propri desideri, sulla possibilità che il cuore aperto e l’incertezza siano meglio della tristezza e della sicurezza. Sperare è pericoloso, eppure è il contrario della paura”.
Se abbiamo smesso di credere che un cambiamento positivo sia possibile è perché spesso siamo esausti, logorati dalle brutte notizie e dai problemi del passato che sembrano ritornare ciclicamente. Non abbiamo più la forza di scommettere e diventa più facile abbandonarsi al disfattismo, richiede meno energia. Eppure, dopo mesi di sconforto di fronte alla campagna presidenziale di Donald Trump e Joe Biden, l’arrivo di Kamala Harris ha scombinato le carte, non solo in termini di probabilità di vittoria per i Democratici ma anche in termini di entusiasmo, persino euforia collettiva di fronte alla nuova possibilità. Il futuro è, per definizione, imprevedibile ed è proprio a questa unica certezza che dovremmo aggrapparci per ricominciare a sperare e ad agire.