Per molti italiani della mia generazione, indicativamente quelli nati nella seconda metà degli anni Ottanta, nel 2001 il G8 di Genova è stato il nostro 11 settembre. La Diaz, la caserma di Bolzaneto, la morte di Carlo Giuliani: il nostro ingresso nell’adolescenza è stato segnato da una delle più grandi repressioni attuate dallo Stato italiano. Fu la prima volta che sentii parlare di no global. Soltanto dopo mi informai sul popolo di Seattle e sulla genesi del movimento. A impressionarmi fu l’esistenza di una moltitudine più a sinistra della sinistra. Oggi forse non è corretto definirla così, perché oltre all’estrema sinistra extraparlamentare facevano parte del movimento anche realtà anarchiche o apolitiche. Però era certamente “di sinistra” scagliarsi contro quelli che all’epoca erano considerati i tratti più pericolosi della globalizzazione: il capitalismo, il neoliberismo, le disuguaglianze sociali, il ruolo sempre più cannibalesco delle multinazionali, i danni all’ambiente. Sono passati ventitré anni, e la destra sovranista è riuscita vergognosamente ad appropriarsi della battaglia contro la globalizzazione. Distorcendone tutti i significati.
Quando sento parlare Giorgia Meloni o Matteo Salvini di globalizzazione mi viene l’orticaria. Per loro, così come per tutti i sovranisti del pianeta, essere contro la globalizzazione vuol dire sostanzialmente “chiudiamoci, abbasso l’immigrazione e viva il Made in Italy”. Non è solo una semplificazione, è proprio un disegno mistificatorio che annulla i principi fondamentali che gli originali no global un tempo portavano avanti. Intanto perché non si può scindere il discorso della globalizzazione dal suo versante economico e finanziario. Ricordo che da ragazzino le multinazionali venivano attaccate sia per la visione piramidale all’interno delle aziende sia per i danni diretti e collaterali in tutto il pianeta. Il loro concetto di globalizzazione era far cucire una felpa a un bambino del Sud-est asiatico e venderla in tutto il mondo a un prezzo sproporzionato rispetto ai costi di produzione. Oppure devastare l’ambiente per poi fare delle parziali marce indietro solo negli ultimi anni con delle colossali operazioni di greenwashing. Alla destra italiana e mondiale non interessa assolutamente nulla dell’ambiente e dei cambiamenti climatici – anzi, sono i principali negazionisti di questo problema – e nemmeno del ruolo delle multinazionali. Figuriamoci poi del discorso su capitalismo e neoliberismo. Sia la destra attuale che quella berlusconiana hanno seguito la scia delle politiche neoliberiste, contribuendo ad ampliare la forbice delle disuguaglianze sociali. Inoltre i no global combattevano contro gli Stati di polizia e le misure liberticide. Ovvero tutto quello che la destra sta mettendo in pratica, oggi come a Genova nel 2001, quando al governo c’erano loro.
I no global vent’anni fa erano a favore delle contaminazioni culturali, e praticamente tutti i protagonisti dell’epoca hanno poi supportato le Ong che salvano le vite nel Mediterraneo e criticato le politiche sull’immigrazione dei governi di destra (e non solo). Ma la mentalità chiusa dei sovranisti ha trasformato la globalizzazione in una specie di falla del multiculturalismo, esasperando ancora di più i venti del nazionalismo che soffiano un po’ ovunque. Nella loro logica è globalizzazione voler accogliere i migranti, farli integrare nel nostro territorio, dar loro un lavoro e persino la cittadinanza. Il tutto a scapito dei poveri italiani discriminati. A parte che se la globalizzazione fosse realmente questa sarebbe un programma politico perfetto per una sinistra degna di questo nome. In realtà non lo è. È invece un fenomeno prettamente economico che la destra ha sempre avallato.
Possiamo considerare l’origine della protesta no global gli scontri del 30 novembre del 1999 a Seattle contro l’Omc (Organizzazione Mondiale del Commercio). Il sentore era che anche le parti del mondo non del tutto aperte al libero mercato avrebbero abbracciato una globalizzazione economica con il conseguente sfruttamento dei Paesi del Terzo Mondo. Timore concretizzato quando nel 2001 persino la Cina è entrata nell’OMC, cambiando radicalmente l’assetto politico ed economico orientale ed entrando anche lei nel gioco del depauperamento di Paesi come quelli africani, dove tuttora la Cina ha enormi interessi economici. La globalizzazione non ha fatto che portare due blocchi – Usa e Nato da una parte, l’ex Unione Sovietica e la Cina dall’altro – ad agire sulla stessa piattaforma capitalistica, a prescindere che i protagonisti fossero i miliardari della Silicon Valley o gli oligarchi del gas.
Il movimento no global in realtà non è caduto, si è solo frammentato in seguito a eventi che hanno segnato il corso della storia. Per esempio, in seguito all’11 settembre e alla scelta degli Stati Uniti di invadere l’Afghanistan, si è unito a una più ampia maggioranza creando un movimento pacifista. Con gli anni ha sostenuto le cause ambientaliste, antiproibizioniste, femministe. Forse disperdendosi, ma mantenendo intatti gli ideali iniziali che, come è semplice immaginare dalle battaglie combattute, non possono riguardare la destra. Non a caso uno dei testi fondamentali del movimento no global è stato No logo della giornalista Naomi Klein, pubblicato nel 2000. Era una critica feroce contro il “branding”, contro lo sfruttamento della manodopera operaia, i marchi e le pubblicità come nuovo oppio dei popoli. Per certi versi c’erano diverse tracce di marxismo nell’opera, a partire dall’attivismo anti-aziendale e il ruolo della classe operaia nel terzo millennio. Tutti argomenti che la sinistra mondiale non è riuscita a captare, sottovalutando la portata del fenomeno. Per esempio, al G8 di Genova il movimento non ha avuto l’appoggio dei partiti tradizionali, a esclusione di Rifondazione Comunista e Verdi, mentre ha trovato quello di WWF, Legambiente, associazioni studentesche e centri sociali. Anche perché le forze principali di centrosinistra si erano ormai pericolosamente avvicinate alle istanze neoliberiste che i no global stavano combattendo, e si è persa l’occasione di creare un enorme contenitore mondiale di stampo socialista. Era l’Ulivo di Prodi e Rutelli, di centristi che consideravano i no global degli scalmanati fuori controllo. E probabilmente qualcuno lo era davvero, ma all’interno di un movimento così ampio è stato uno sbaglio non ascoltare le richieste di chi chiedeva semplicemente un mondo più giusto.
La conseguenza attuale è la trasformazione dello stesso termine “globalizzazione”, ormai relegato alla battaglia culturale sulla difesa delle proprie tradizioni, e quindi appannaggio della destra. Ed è ironico, perché chi a Genova prendeva le mazzate, che sia un giovane Zerocalcare o Luca Casarini, oggi lotta contro quella destra che si pronuncia contro la globalizzazione, pur essendo globalizzata. Casarini recupera i migranti in mare aperto, Zerocalcare denuncia i metodi fascisti degli alleati del nostro governo (come l’Ungheria) e si batte contro le condizioni disumane nelle carceri. C’è una continuità dunque con il movimento no global, anche se non è più quello il nome e la frammentazione delle battaglie ha creato diverse bolle di proteste mai più unite come al tempo del G8. I ministri che invece nel 2001 facevano picchiare i no global a Genova sono diventati sovranisti propagandando la lotta alla globalizzazione come una guerra contro “il diverso”, che sia un immigrato o la farina di grilli. Non si può però essere contro la globalizzazione e contemporaneamente alimentare il sistema capitalista, favorire le lobby delle armi, promuovere le azioni delle multinazionali e contribuire ad aumentare il divario tra i pochi ricchi e i tanti poveri, sia come singoli individui sia come differenza tra gli Stati del pianeta. E così oggi la globalizzazione si combatte chiudendo le frontiere, arroccandosi nel proprio orticello, urlando l’esclusività della propria nazione, e il megafono lo portano i Trump, le Le Pen, gli Orbàn, i Salvini.
Non c’è più la guerra tra classi, tra sfruttato e sfruttatore, tra operaio e leader di una multinazionale. Trump è tutto ciò che un tempo i no global combattevano: un miliardario che sfrutta la produzione e il consumo, che specula alle spalle dei Paesi più poveri, che non ha il minimo interesse per i temi ambientali e che rappresenta in pieno il volto del capitalismo. Non a caso nei suoi comizi dichiara: “Abbiamo respinto il globalismo e abbracciato il patriottismo”. È come se la destra avesse preso un termine e l’avesse trasformato cambiandone i connotati, le radici nella società, le stesse battaglie. Ed è così in tutto il mondo. Errore di valutazione della sinistra, ipocrisia lancinante della destra, cambia poco: oggi i no global di destra gonfiano i fatturati dei loro imperi e promettono un mondo chiuso a doppia mandata. È la fine di un movimento che chiedeva equità e si è disperso nei rivoli di sangue sui pavimenti della Diaz, che profetizzava i danni del neoliberismo e ora gli è stato scippato pure il nome dai neofascisti dal manganello facile. La destra faccia pure la destra, ma la smetta di parlare di globalizzazione senza cognizione di causa.