Di fronte alla paura del fallimento, nel terzo millennio l’essere umano ha adottato diverse strategie per eluderne lo stigma, se non addirittura sfruttare la caduta come processo propedeutico al successo. In chiave capitalistica, la cultura del fallimento si è quasi radicalizzata nel sogno americano, con la Silicon Valley come culla del “Try again, fail again, fail better”, il tentativo di ribaltare l’immagine del tipico yuppie di Wall Street negli anni Ottanta – per intenderci, il Patrick Bateman di American Psycho. Mentre tentiamo ancora di inventarci metodi per non demonizzare il fallimento, è in costante crescita un fenomeno che può sembrare il rovescio della medaglia: la paura di vincere.
Si tratta della nikefobia. Nike e phobos, in greco vittoria e paura, compongono un termine che molti tendono a sottovalutare, chiedendosi come si possa temere il successo o il raggiungimento di un determinato traguardo. In un’epoca in cui la competitività fa da padrona in ogni aspetto del nostro quotidiano, si instaurano nell’individuo dei meccanismi di autosabotaggio che hanno un’origine multipla: da Freud a Black Mirror, dallo sport alle realtà aziendali, dal branco alla solitudine globale, la vittoria può svuotarci come e più di una sconfitta.
A volte è perché non possediamo – o non vogliamo possedere – quella dose di aggressività insita in ogni forma di competizione. Qualche anno fa, lo storico Alessandro Barbero, tentando di dare una giustificazione al maggior numero di uomini nelle posizioni di comando rispetto alle donne, se ne uscì con questa frase che suscitò un’ondata di indignazione in molte realtà femministe: “È possibile che in media le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi”. Al di là della generalizzazione legata al genere, a oggi è vero che per scalare posizioni sociali, in alcuni contesti, può essere necessario fare a sportellate con gli altri, o scavalcare il prossimo, e non tutti accettano di farlo o banalmente hanno questa indole. Nel caso della nikefobia, poi, si aggiunge anche il timore delle aspettative, la sensazione che, una volta raggiunto il traguardo, tutto possa sgonfiarsi.
Ricordo una partita di tennis del 2014, quando sulla terra rossa di Madrid Stan Wawrinka, da poco vincitore agli Australian Open, incontrò un ragazzino austriaco di nome Dominic Thiem. Ironicamente, Wawrinka sfoggiava sul braccio un tatuaggio con la famosa frase di Samuel Beckett: “Ever tried, ever failed, no matter, try again, fail again, fail better”. Vinse il più scafato Wawrinka, ma il giovane austriaco vendette cara la pelle. Il suo allenatore lo faceva allenare nei boschi portando tronchi sulle spalle. Allenamenti massacranti per arrivare, un giorno, a vincere un torneo dello Slam. Negli anni successivi giunse tre volte in finale, perdendo con giocatori del calibro di Nadal e Djokovic. Quando, nel 2020 a New York, riuscì finalmente a vincere il trofeo da tempo agognato, qualcosa in lui si spense. Già durante le fasi finali del match si notò qualche segnale: non riusciva a chiudere la partita. Braccio irrigidito, gambe molli quasi come se la vittoria fosse un peso troppo grande per lui. Nei mesi successivi iniziò una crisi di risultati, una spirale negativa che commentò così: “Quando raggiungi un traguardo che sognavi fin da bambino tutto cambia. Io sono crollato, sono finito in un buco nero, vedremo se riuscirò a uscirne”. A tre anni e mezzo di distanza, Dominic Thiem fa fatica a rientrare nei top 100 della classifica ATP.
La nikefobia può all’apparenza avere dei tratti in comune con la sindrome dell’impostore, ma sono due fenomeni molto diversi. Il cosiddetto “impostore” pensa di non meritare un traguardo raggiunto, crede di aver ottenuto un premio senza avere le qualità necessarie per meritarselo. Nella nikefobia, invece, il soggetto è consapevole delle proprie competenze, delle caratteristiche che gli permetterebbero di “farcela”, ma i blocchi assumono altre sfumature. In ambito psicologico, la paura della vittoria è spesso associata al terrore di superare la figura paterna, o comunque il maestro, o la figura di riferimento, rifacendosi alla rivalità freudiana trattata in Totem e tabù e nelle teorie sul complesso di Edipo. L’immagine metaforica dell’uccisione del padre frena l’ascesa del figlio, gli impedisce la progressione all’interno della società in quanto non è ancora pronto per la sostituzione come capofamiglia, ruolo che comporta responsabilità che non tutti riescono ad affrontare.
Ottenere un riconoscimento non può però essere una colpa, se frutto di sacrifici e competenze nel proprio campo. E non vuol dire neanche affossare gli altri o “uccidere il padre”, anche se in quest’ultimo caso simbolicamente lo è. La figura del padre smette di essere quella del semplice genitore, arrivando a trasfigurarsi e assumere le sembianze di entità e non di persone specifiche. Il padre può essere lo Stato, il Leviatano di Hobbes, la giustizia, l’etica, la morale, persino la proiezione del proprio Io nel futuro, con tutte le aspettative che comporta. È Dedalo che chiede a Icaro di non volare troppo in alto per non bruciarsi. Oltrepassare il padre diventa quindi uno sforzo sovrumano, un’azione da temere.
Questa paura condiziona la vita anche a livello psicofisico. C’è chi sperimenta ansia generalizzata, attacchi di panico o depressione, e così il problema si traduce nell’evitamento. Non essendo in grado di “vincere”, la persona in questione si rassegna e preferisce rimanere nella sua zona di comfort. Rispetto alla più comune paura del fallimento, nella nikefobia la pressione è più interiore e non per forza legata al giudizio altrui. Performare ad alti livelli implica un benessere personale, e quando fa più paura salire sul podio che arrivare ultimi, a venir meno è proprio la serenità in ogni ambito. Così un collega diventa un rivale, gli affetti vengono percepiti come un’ulteriore pressione perché spingono verso quella vittoria tanto temuta, e provare a spiegare di non essere pronti né alla logica della competitività né alle conseguenze del successo, che spesso sono riconducibili a un calo degli stimoli, richiede un dispendio di energia insostenibile per il soggetto in questione. Come conseguenza, l’ansia arriva prima del conseguimento di un obiettivo comportando un’autolimitazione, una procrastinazione o addirittura la rinuncia a spingersi oltre.
Di solito, in psicologia, la profezia che si autoavvera prefigura già dal principio scenari apocalittici, mentre nella nikefobia diventano tali quando l’immagine della vittoria non riesce a essere concepita come piacevole o sicura da mantenere. Forse bisognerebbe iniziare a non considerarla con l’accezione edonistica che oggi la fa da padrona e nemmeno con la strafottenza del “vincere e vinceremo” di mussoliniana memoria. La difficoltà sta nell’attuare questa operazione all’interno di una società che propone esclusivamente dei modelli di riferimento vincenti, almeno all’apparenza. Spesso, tra l’altro, sanciti da un mero traguardo numerico, un riconoscimento dettato dal numero di follower o dal senso di appartenenza – e quindi di accettazione – all’interno di macrogruppi. Paradossalmente, nel terzo millennio è l’algoritmo ad assumere i tratti del padre freudiano: non a caso si parla di rompere l’algoritmo quando si vuole alzare l’asticella, quasi come a volerlo sfidare. Ma chi non vuol saperne di singolar tenzoni e di lotte di prevaricazione, che siano con il proprio datore di lavoro o con la parte più profonda di se stessi che esorta alla competizione, resta incagliato in una zona grigia dove non si può né vincere né perdere, e più che vivere si sopravvive.
Uscire da uno stato di stagnazione, quello della rinuncia, non può che avvenire accettando sia sconfitta che la vittoria, la caduta e l’ascesa, la lacuna e il merito. Così come stiamo imparando – molto lentamente – a non stigmatizzare il fallimento, è necessario contemplare l’opzione che, forse, se siamo a un passo da una promozione non siamo degli esseri immondi immeritevoli di soddisfazioni o prossimi al burnout per eccesso di responsabilità. È l’espediente per allearsi con il padre invece di sfidarlo, perché privandoci dell’aspetto malsano della competizione possiamo riallacciarci al lato più umano della crescita individuale, quello dove la prestazione non si svolge in un campo di battaglia.