Le continue accuse non fermeranno Benjamin Netanyahu - THE VISION

L’immagine del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che sventola in aria il rottame di un drone minacciando l’Iran dal palco della Conferenza di Monaco sulla sicurezza, non è esattamente quella di un leader in crisi per le accuse dilaganti verso la sua persona per frodi, corruzione e favoritismi ricevuti ed elargiti. “Mister Zarif, lo riconosce? Dovrebbe. È vostro,” ha rinfacciato in Germania Netanyahu al ministro degli Esteri iraniano, sul drone per Israele abbattuto nel suo territorio e per i pasdaran sopra le alture siriane del Golan. Mentre tra Gerusalemme e Tel Aviv le investigazioni si allargavano e si aggravavano di ora in ora.

I fascicoli con Netanyahu o i suoi uomini sotto inchiesta si accumulano, l’ultimo aperto è il Caso 4000 (dopo i Casi 1000, 2000 e 3000) che ha fatto finire in manette anche l’ex portavoce del premier, Nir Hefez, e l’ex direttore del ministero delle Comunicazioni e confidente di Netanyahu, Shlomo Filber. La polizia ha chiesto l’incriminazione del premier per i Casi 1000 e 2000 e a decidere sarà il procuratore generale Avichai Mandelblit, nominato da Netanyahu ma reputato indipendente, con tempi di norma lunghi nella giustizia israeliana. Filber però, sotto torchio con l’accusa di aver corrotto i vertici della compagnia telefonica Bezeq, avrebbe patteggiato uno sconto della pena e le sue ammissioni potrebbero accelerare l’incriminazione di Netanyahu.

La situazione può insomma precipitare. Ciò nonostante Netanyahu è l’unico premier nel vortice degli scandali a non prendere in considerazione le dimissioni nella storia di Israele: tre precedenti primi ministri indagati o investiti da sospetti analoghi – e minori – scelsero il contrario. Il capo di governo precedente a Netanyahu, l’ex compagno di partito nel Likud Ehud Olmert, fu indagato anche lui per corruzione e pressato da membri del suo esecutivo nel 2008 annunciò il passo indietro per senso delle istituzioni: “Se devo scegliere fra me, la consapevolezza di essere innocente e il fatto che restando al mio posto possa mettere in grave imbarazzo il Paese che amo e che ho l’onore di rappresentare, non ho dubbi: mi faccio da parte,” comunicò.

Alla fine degli anni Settanta fu il premier laburista, poi rieletto e insignito del Nobel per la Pace, Yitzhak Rabin a rinunciare in seguito a diverse inchieste, sul presunto uso illecito di fondi di un suo ministro morto suicida e sui sospetti di corruzione pendenti su membri del partito laburista allora da lui diretto, nonché sulla sua stessa moglie, Leah. Prima ancora nel 1974 nientemeno che Golda Meir, tra i fondatori dello Stato di Israele, si dimise per l’imperversare di polemiche per la deludente guerra dello Yom Kippur del 1973: i documenti già resi pubblici da una Commissione d’inchiesta dei servizi segreti la assolvevano da ogni colpa, ma anche Meir scelse di allontanarsi dalla politica per far calmare le acque.

Un manifesto raffigurante Yitzhak Rabin
L’ex premier Ehud Olmert

Incurante di paragoni ingombranti, Netanyahu scarica bombe in Siria e nella Striscia di Gaza e insiste perentorio sul “niente dimissioni”. Tanta sicumera è dovuta alla convinzione di avere ancora con sé più della metà degli israeliani, di rivincere le legislative nel 2019 e di non essere tradito dagli alleati di governo di estrema destra, che con i conservatori del Likud nei sondaggi mantengono la maggioranza. Anche il ministro della Giustizia Ayelet Shaked ha ribadito che in Israele un primo ministro accusato di corruzione non è obbligato a dimettersi. Legalmente non può essere rimosso prima di una condanna definitiva a meno di un impeachment, la messa in stato d’accusa del parlamento. Per gravissime e comprovate accuse però.

È un gioco con il fuoco: finora i sondaggi commissionati sui consensi politici da parte dei media – e diverse testate figurano nei faldoni del Caso 2000 con indizi di essere foraggiate dall’entourage di Netanyahu – danno ragione al premier, anche se sono contraddittori e altalenanti sul nodo delle dimissioni. Per esempio, in quello di Channel 2 News del 14 febbraio scorso (all’indomani della richiesta di incriminazione per Netanyahu) si legge che in caso di elezioni la maggioranza dei seggi andrebbe ancora al Likud, ma sull’inchiesta in sé il 48% degli interpellati è per il passo indietro del primo ministro e il 40% no. In un analogo rilevamento di Channel 10, il 50% ha dichiarato che Netanyahu dovrebbe lasciare e il 42% che dovrebbe continuare come se nulla fosse.

Insediamenti in Cisgiordania

Viceversa, nella rilevazione dell’emittente Reshet, il 48% è per il remain, il 43% per il leave, ma il 49% dei contattati si dice dalla stessa parte degli investigatori e il 25% con Netanayhu (il 26% non sa che pensare). Anche in altri sondaggi la maggioranza è convinta dalla versione della polizia, ma alle Legislative sceglierebbe ancora il Likud. Dalle intenzioni di voto, al momento i laburisti e le altre forze d’opposizione, di sinistra e arabe, conterebbero attorno ai 55 seggi, contro i 65 della coalizione di destra e religiosa. La ragione del radicamento a destra di oltre il 50% degli israeliani sta nelle politiche demografiche e di ripopolamento perseguite per 10 anni consecutivi dai governi sionisti guidati da Netanyahu, che è premier dal 2009 e lo era stato già tra il 1996 e il 1999.

Nella Tel Aviv modaiola e freak incastrata tra il mare e il quartier generale del Mossad, in migliaia protestano contro il primo ministro: gli elettori liberal dell’opposizione e tra loro tanti giovani riempiono le piazze indignati. Ma a Gerusalemme dozzine di supporter di Netanayhu si radunano davanti all’abitazione del primo ministro e a quella del procuratore Mandelblit, gridando al complotto. Gli ebrei ultraortodossi dai lunghi riccioli neri con le loro grandi famiglie vestite come secoli fa popolano ormai interi quartieri di Gerusalemme ovest: hanno penetrato anche la parete est occupata da Israele dalla Guerra dei sei giorni del 1967, in violazione del dettato dell’Onu (Risoluzioni del 1947, del 1980, del 1990, del 1996, sentenza della Corte internazionale di Giustizia del 2004 e voto contrario del 2017) e dei negoziati per la soluzione dei due popoli in due Stati.

La segregazione e le violenze di Hebron non sono che il volto più manifesto dell’espansione illegale israeliana a macchia di leopardo che i palestinesi chiamano cancro. Gli insediamenti continuano a crescere anche oltre la Linea verde (il confine tra Israele e Palestina precedente all’invasione del 1967, che anche l’Onu considera la base per la definizione dei due Paesi) e il 30% dei coloni della Cisgiordania è ormai composto da ultraortodossi. Solo una parte marginale di loro è rimasta contraria al sionismo e rifiuta di trasferirsi in Israele. Gli altri si sono saldati ai sionisti di Casa Ebraica e si scagliano contro cristiani e musulmani in Terra santa, manifestano contro la leva obbligatoria ma poi girano armati a Hebron e alle urne votano l’ultradestra religiosa di Giudaismo unito nella Torah e Shas.

I due movimenti si sono radicalizzati e con Casa Ebraica sono l’ago della bilancia dell’ultimo governo Netanyahu, che è anche il più estremista della sua stagione politica. Gli elettori del Likud, specie tra i più moderati, possono anche ritenere fondate le accuse. Ma favorire l’opposizione non è nel loro interesse e Netanyahu di conseguenza gioca d’azzardo, sperando di trascinare in là le investigazioni ed eventualmente i processi. Il premier israeliano, d’altra parte, non spicca per flessibilità. Donald Trump gli ha fatto il regalo di riconoscere Gerusalemme unita capitale d’Israele, complice il genero ebreo Jared Kushner vicino alla famiglia Netanyahu, ma persino il presidente degli Usa si è fatto sfuggire che il “premier israeliano è l’ostacolo maggiore alla pace con i palestinesi, anche loro un ostacolo”.

Il mercato di Hebron

A nulla è valsa nemmeno la stroncatura dell’alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Ue Federica Mogherini: “Netanyahu può tenere per sé le aspettative che altri governi spostino le loro ambasciate a Gerusalemme, dai Paesi Ue questo non avverrà”. Il primo ministro israeliano è tornato spavaldo in Europa per lo show del drone e il pericolo che corre Netanyahu è proprio quello di sopravvalutarsi. Diversi nel Likud, incluso Olmert, hanno abbandonato il partito per la sua deriva a destra e fondato sigle centriste: nell’ultimo esecutivo Netanyahu si è trovato ostaggio degli estremisti. E anche il caccia israeliano colpito in Siria nell’incursione di rappresaglia per il drone iraniano è un segnale di vulnerabilità: era dal 1982 che un jet militare israeliano non veniva abbattuto in missione all’estero.

Con una coalizione di centrosinistra al governo, i negoziati con la Palestina si riaprirebbero e Israele presterebbe più ascolto ai richiami dell’Ue per fermare la costruzione di colonie. Ma l’ostacolo alla caduta di Netanyahu restano prima di tutto gli elettori. Il Paese è spaccato ma la maggioranza degli israeliani è favorevole anche all’annessione di Gerusalemme e non si oppone all’espansione in Cisgiordania. Decisive per la sorte del premier possono piuttosto essere la determinazione degli investigatori e le scelte del procuratore Mandelblit: il Caso 1000 sulle presunte regalie a Netanyahu da parte di imprenditori (spiccano circa 230mila euro in sigari e champagne, mentre la moglie Sara rinviata a giudizio avrebbe speso circa 85mila euro di fondi pubblici in ristoranti) è sfociato nelle più gravi accuse del Caso 2000 sulle mance del ministero delle Comunicazioni – guidato ad interim da Netanyahu tra il 2015 e il 2017 – alla compagnia telefonica Bezeq titolare di un sito giornalistico.

Manovre di Netanyahu emergerebbero anche verso la magistratura e gli approfondimenti sul Caso 3000 potrebbero riservare sorprese: si scava su un giro di tangenti per far accaparrare alla difesa di Israele una commessa di due miliardi di euro di sommergibili della tedesca ThyssenKrupp. Un grande e delicato affaire internazionale.

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