Jacob Blake è una guardia giurata afroamericana ventinovenne di Kenosha, Wisconsin. Domenica 23 agosto, un agente di polizia gli spara sette colpi alla schiena sotto gli occhi dei tre figli piccoli. Uno dei proiettili gli recide il midollo spinale e lo lascia paralizzato. La sua colpa è di aver tentato di sedare una rissa tra due donne nel suo quartiere. Il video dell’incidente viene postato su internet e scatena la giusta indignazione del mondo: anche i giocatori dei Milwaukee Bucks, isolati nella cosiddetta “bolla” di Orlando, alla fase finale del campionato di basket più importante al mondo, quello dell’NBA.
Tre giorni dopo, il 26 agosto, i Bucks devono giocare gara 5 dei playoff contro gli Orlando Magic. Milwaukee è una delle squadre favorite al titolo e i suoi giocatori, che come gli altri vivono e giocano all’interno di Disney World in Florida senza poter mai uscire, potrebbero tranquillamente ignorare quanto accade nello Stato della città che rappresentano e limitarsi a fare il loro lavoro: giocare a pallacanestro. Al momento della palla a due però, nessuno si presenta in campo: quelli di Milwaukee restano negli spogliatoi mentre gli avversari di Orlando, che pure avevano effettuato il riscaldamento, se ne vanno prima dell’inizio del match. Non si gioca né questa partita né gli altri tre match in programma in quella giornata. E dopo lo stop deciso in NBA, anche gli altri maggiori campionati statunitensi prendono esempio e il mondo dello sport americano si ferma. Senza volerlo, lo sciopero cade pochi giorni prima dell’anniversario di quell’“I have a dream” pronunciato da Martin Luther King.
Esattamente quattro anni fa, il giocatore di football nativo di Milwaukee Colin Kaepernick decideva di protestare contro gli abusi della polizia e il razzismo nel suo Paese, inginocchiandosi durante l’inno e mettendo di fatto fine alla sua carriera sportiva. Appoggiati dall’organizzazione di cui fanno parte, i cestisti oggi però sanno di non rischiare tanto e non fanno un passo indietro, anche perché alcuni di loro in passato sono stati toccati da episodi simili a quelli per cui protestano. Per esempio, nel 2018, Sterling Brown è stato fermato in un parcheggio da agenti di polizia armati che lo avevano immobilizzato con un ginocchio sul collo, proprio come è successo a George Floyd.
Che i Bucks potessero boicottare la partita, lo si era ipotizzato già qualche giorno prima. Dopo la gara vinta lunedì George Hill, uno dei veterani del gruppo, aveva infatti detto alla stampa: “Non saremmo nemmeno dovuti venire in questo posto tremendo, a essere onesti. Penso che venire qui e giocare abbia distratto le persone dai problemi reali”. Dopo l’annullamento del match è proprio Hill – che ha perso un cugino in una sparatoria simile a quella che ha coinvolto Blake – a leggere una dichiarazione a nome di tutti i compagni di fronte alla stampa: “Negli ultimi giorni nel nostro Stato del Wisconsin, abbiamo visto l’orrendo video di Jacob Blake e le altre sparatorie contro i manifestanti. Nonostante la forte richiesta di cambiamento, non c’è stata alcuna azione, quindi la nostra attenzione oggi non può essere sul basket”. Il finale del messaggio chiarisce come l’atto di protesta che si sta compiendo abbia chiari risvolti politici e sociali: “Chiediamo giustizia per Jacob Blake e chiediamo che gli agenti siano ritenuti responsabili. Affinché ciò avvenga, è imperativo che la legislatura dello Stato del Wisconsin si riunisca nuovamente dopo mesi di inattività e adotti misure significative per affrontare la questione della responsabilità della polizia e lavori su una riforma della giustizia penale. Incoraggiamo tutti i cittadini a istruirsi, a intraprendere azioni pacifiche e responsabili e a ricordarsi di votare il 3 novembre”.
Queste parole aiutano a capire come quella dei Bucks, con il supporto di tutta la Lega, sia stata una presa di posizione netta, fatta apposta per dare un segnale forte e chiaro. Anche se lo sciopero in sé e per sé è durato poco, lo spazio di tre partite, è servito a ricordare quanto lo sport possa ancora mandare messaggi importanti e non è un caso che un’iniziativa di tale portata sia partita proprio dalla lega di basket americana, che organizza il campionato più seguito all’estero e quello dove ci sono più atleti neri. Come ricorda l’attuale giocatore dei Bucks Kyle Korver, la National Basketball Association è composta oggi per oltre il 75% da giocatori neri, e da sempre ha fatto da cassa di risonanza a questioni come integrazione e razzismo.
Già a quattro anni dalla sua fondazione, nel 1949, la NBA si era dimostrata all’avanguardia rispetto alle problematiche sociali dell’epoca e in particolare nei confronti della segregazione razziale, aprendo le proprie porte ai giocatori afroamericani. Il primo fu Chuck Cooper. Cresciuto nella segregazionista Pittsburgh, Cooper aveva capito subito quanto sarebbe stato difficile diventare un giocatore professionista come gli altri: all’università, gli avversari si erano rifiutati di giocare contro il suo ateneo perché c’era lui e ogni qualvolta entrava in campo doveva subire senza fiatare gli insulti degli avversari. Anche quando approdò al massimo livello dovette comunque accontentarsi di un ruolo da gregario perché l’NBA, per quanto progressista, non poteva era ancora pronta ad avere una stella nera.
Non va dimenticato che anche nel mondo della pallacanestro americana tutto è cambiato gradualmente. Nel film Green Book, ambientato nel 1962, un cameriere prova a convincere il protagonista nero a mangiare in una stanza a parte, lontana dal ristorante, assicurandogli che “lo hanno fatto anche i giocatori neri dei Boston Celtics”. In realtà, nel 1961, proprio quella squadra cancellò la sua esibizione dopo che un ristorante di Lexington aveva rifiutato di far entrare la stella Bill Russell. Russell è stato uno dei primi campioni afroamericani a spendersi in prima persona per abbattere le barriere, non solo a parole: pochi mesi dopo l’assassinio dell’attivista Medgar Evers, fu infatti proprio il fuoriclasse dei Celtics a voler dare un segno, organizzando un camp di basket nella città in cui Evers era stato ucciso. “È la prima volta in quattro secoli che il popolo nero americano può determinare la propria storia”, dichiarò Russell, “Far parte di questo processo è una delle cose più significative che possano accadere”.
Nella stessa lega dove dominavano personalità del genere, si verificavano però anche episodi controversi. Nel 1972, l’NBA non si fece remore ad esempio a espellere dal campionato un grande giocatore come Charlie Yelverton che, durante una partita a Portland, aveva protestato contro il diverso trattamento riservato ai giocatori neri e in generale a tutti i neri (anche se poi disse che era contro la guerra del Vietnam), non alzandosi durante l’inno nazionale. Alla fine di quella stagione, Yelverton fu costretto a lasciare l’America e divenne una delle stelle del nostro campionato, ritrovando molte volte anche in Italia lo stesso clima ostile e razzista.
A distanza di quasi mezzo secolo, la differenza tra la NBA di oggi e quella che fece fuori Yelverton è indiscutibile, anche se all’esterno delle arene le cose non sono cambiate abbastanza. Ormai da diversi anni la Lega ha sposato un approccio politico ammirevole: nel 2014, il magnate proprietario dei Los Angeles Clippers fu obbligato a vendere la squadra dopo l’ennesima esternazione razzista e da allora il mondo NBA ha fatto quadrato, trasformando l’approccio progressista a certe questioni in un punto di forza in grado di farle guadagnare consensi.
Dopo la protesta del 26 agosto, molti hanno paragonato la scelta dei giocatori dei Bucks alla celebre protesta di Tommie Smith e di John Carlos sul podio delle Olimpiadi, ma i due gesti sono in realtà molto diversi tra loro. Quando, il 16 ottobre del 1968, i due atleti americani mostrarono al cielo di Città del Messico il pugno chiuso in un guanto nero, lo fecero sapendo che non avrebbero ricevuto l’appoggio di nessuno, sicuramente non dei vertici del comitato olimpico presieduto da Avery Brundage, che infatti dichiarò: “Le azioni di questi due negri sono state un insulto ai messicani e una disgrazia per gli Stati Uniti”.
Oggi l’NBA controfirma invece l’iniziativa, appoggiando pubblicamente la scelta presa in maniera indipendente dai suoi atleti. Si tratta d’altronde della stessa organizzazione che qualche mese prima, al momento di decidere la ripartenza dopo l’emergenza sanitaria, aveva promosso diverse iniziative a supporto del movimento Black Lives Matter, che viene promosso sui cartelloni pubblicitari, sui parquet e persino sulle maglie dei protagonisti in campo. Proprio sul retro delle uniformi è stato permesso ai giocatori di sostituire al loro nome dei messaggi di giustizia sociale. Si va da termini generici come “uguaglianza” o “libertà”, agli slogan delle proteste degli ultimi mesi, come I Can’t Breathe o appunto Black Lives Matter. Nel momento in cui le azioni attuate fino a quel momento – tra cui pure quella di inginocchiarsi durante l’inno prima delle gare – non sono apparse più sufficienti per sensibilizzare il pubblico globale che segue l’NBA, si è scelto quasi naturalmente di fermare lo spettacolo, una presa di posizione repentina per mostrare quanto la situazione sia ormai insostenibile.
Nei giorni seguenti alla protesta, il presidente Trump ha parlato della NBA come di una “organizzazione politica”, mentre uno dei suoi consiglieri Jared Kushner, ha ridimensionato quanto accaduto dichiarando: “Usano le stesse armi della politica, sfruttando tanti slogan, ma ci vorrebbero più fatti”. In realtà, i fatti i protagonisti del basket statunitense li stanno facendo: la squadra degli Utah Jazz ha avuto in questi giorni una chiamata di gruppo col sindaco della città che li ospita, Salt Lake City, per discutere nuove strategie con cui migliorare la vita delle comunità emarginate mentre l’impegno congiunto di giocatori, proprietari e dirigenti ha portato alla decisione di trasformare alcune delle arene in luoghi in cui sarà possibile votare durante le prossime elezioni.
Va però ricordato come certe iniziative non abbiano senso solo all’interno dei confini americani: quanto è stato fatto serve a sradicare delle convinzioni che si mantengono uguali a ogni latitudine. Come ha evidenziato il centro di origini congolesi Serge Ibaka: “Il cambiamento che stiamo cercando di promuovere qui non vale solo per l’America, vale anche per il resto del mondo. Da dove vengo io, molte persone muoiono e molte donne vengono violentate. Lo stesso sistema che uccide le persone nere in America sta uccidendo il mio popolo in Africa”.
Per chi è oggi un ingranaggio della grande macchina chiamata NBA far parte del mondo significa non ignorare quanto accade fuori dal campo di gioco, mostrando anche le proprie debolezze se serve, per far capire che tutti siamo umani e tutti abbiamo una responsabilità nel cambiamento. “Responsabilità” è proprio la parola chiave utilizzata dalla star bianca Kyle Korver in un suo articolo per The Player’s Tribune. Nel pezzo, Korver arriva alla seguente conclusione: “Come bianchi, siamo colpevoli dei peccati dei nostri antenati? No, non credo proprio. Ma ne siamo responsabili? Sì, credo di sì. Si tratta di capire che quando abbiamo detto la parola ‘uguaglianza’ per generazioni, ciò che intendevamo veramente era l’uguaglianza per un certo gruppo di persone”.
Lo sciopero da solo non può bastare: è un atto di portata politica e sociale cui devono seguirne altri. Per capire quale sia il prossimo passo che la NBA dovrebbe fare, si può partire dal parere espresso in una puntata del programma Basket Room da Flavio Tranquillo, la “voce” del basket in Italia: “In cinquant’anni non è cambiato abbastanza, io concordo con i giocatori. Riuscire a trovare una strategia non deve però essere una questione solo politica: deve essere veramente una questione sociale con la esse maiuscola.” Quello che è certo a oggi è che quanto successo il 26 agosto ha avuto sicuramente un valore, soprattutto perché ha aiutato a sensibilizzare un pubblico enorme che non si avvicinerebbe mai a certe questioni attraverso un comizio o un saggio. Una scelta così, fatta all’interno del campionato più seguito e studiato dagli esperti di marketing di tutto il mondo, ci ricorda che lo sport non è solo business, ma è prima di tutto un bene collettivo.