Per anni ho vissuto in un vicolo a 5 minuti dalla Stazione centrale di Napoli, 10 dal centro storico. Degli aerei che atterravano a Capodichino sentivo l’arrivo, vedevo i carrelli già abbassati dalla finestra della camera da letto. Sono aumentati nel corso degli anni. Abbastanza da non chiedersi più ogni volta come fosse la prima, da dove sono partiti e chi portano. Le nuove rotte low-cost, le offerte ferroviarie, le crociere. A Napoli, come dice da anni il sindaco, Luigi De Magistris, sono arrivati i turisti. A Napoli i turisti ci sono sempre stati. “Vieni o straniero, nella grande Napoli, godi mentre l’attimo fugge, scorda i desideri delusi e i tormenti che un demone ha tessuto nella tua vita, impara a godere, ad essere felice, e poi muori”: così scriveva il poeta e drammaturgo tedesco August von Platen-Hallermünde quasi 200 anni fa. Ancora prima, a partire dalla fine del Seicento, quando l’espressione Grand Tour compare per la prima volta nel lessico inglese con il Voyage of Italy di Richard Lassels, per Napoli erano passati Montesquieu, Lamartine, Stendhal, fino a Charles Dickens nel suo viaggio del 1845.
Per quanto sia difficile immaginare punti di contatto tra questi viaggiatori che partivano per formazione e il turista che arriva oggi in città attirato dalle bellezze e dai prezzi bassi, molte delle loro tappe sono rimaste le stesse, sia a Napoli che nel circondario: gli scavi di Ercolano, quelli di Pompei, il Vesuvio, le isole del Golfo, la costiera giù fino ad Amalfi. Attirati dalle bellezze, dalla storia, dal clima, dalla fascinazione misteriosa, dal pericolo raccontato e che si vuole vedere di persona: anche le conseguenze della città sull’animo di chi arriva a visitarla sembrano non aver subito grossi mutamenti: sono sempre due, sono sempre l’una l’opposto dell’altra, diventano entrambe certezze incrollabili. Napoli o ti piace oppure no. E lo capisci subito.
C’è chi qui si sente finalmente libero, almeno in linea teorica se non pratica, di darsi alla pazza gioia, di non dover badare a niente (forse al portafogli), e di poter fare più o meno qualsiasi cosa gli dica, non il cervello, ma la sua capacità di adattamento all’habitat che vede replicato intorno a sé e in cui chiunque sembra fare il suo comodo. Che abbia sentito già parlare di Napoli bene o male, che ne conosca la storia o non ne sappia niente, che sia italiano, americano, spagnolo, la città fa su questo tipo di visitatore quello che chiameremo effetto Johann Wolfgang Goethe, datato 1786: “A Napoli ognuno vive in una inebriata dimenticanza di sé. Accade lo stesso anche per me (…) Ieri pensavo: O eri folle prima, o lo sei adesso”. Poi c’è l’effetto Percy Bysshe Shelley, 1818: “Napoli mi ha accolto con un omicidio”, dedicato al viaggiatore che è stato testimone non solo del caos, del traffico, dei vari intoppi al vivere civile, ma di piccole e quotidiane violenze che fanno sempre meno notizia e ancor meno discussione: c’è chi qui è stato derubato davanti a un bar che vende le sfogliatelle, picchiato per aver esultato al momento sbagliato durante una partita, trascinato per strada da un rapinatore centauro, colpito dal crollo di una struttura in ferro raffigurante un dragone e installata su un palazzo nella zona universitaria.
Parlare di loro è sempre difficile, si preferiscono i turisti felici, innamorati della città, pentiti di averla giudicata, perché parlare del male a Napoli sembra essere diventato parlare male di Napoli con la paura di diffamare la città, il rischio di infamare la reputazione del popolo partenopeo presso gli altri e anche quello di esser segnalati: nel 2017, proprio mentre il fenomeno turismo di massa cominciava a montare per esplodere poi nel 2018, a tutela dell’immagine di Napoli e dei suoi cittadini da pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni, il Comune ha istituito uno sportello a cui fa seguito, oggi, la nascita di un osservatorio: 20 professionisti per analizzare e monitorare la narrazione negativa della città in atto da troppo tempo e con troppe ripercussioni sul suo sviluppo. La cattiva pubblicità, insomma, è qualcosa di cui sembra necessario tenere sempre più conto ed è giusto, forse, se si prova a vendere una cartolina.
Ma chi quella cartolina la vive tutti i giorni sa che l’effetto Goethe e l’effetto Shelley si autoannullano dopo un po’ e diventano cose a cui o si fa l’abitudine o ci si rassegna, cose su cui si trova, infine, una sorta di mediazione critica costante. I residenti, davanti alla folla turistica, un solo e unico blocco di persone che spacca Napoli sul serio, un po’ invidiano lo sguardo incantato, un po’ parlano di “Sorrentizzazione” della città e di Napolilandia, un po’ ironizzano: “Vedi Napoli e poi restaci”, se hai il coraggio. Allora sgomitano, si intrufolano, corrono veloci a lavoro – a piedi perché la città non è diventata la capitale dei servizi e dei trasporti tanto annunciata, la metropolitana si è fermata a Piazza Dante senza toccare la stazione metro più bella d’Europa e non è più ripartita. Più che cittadini, senza saperlo, molti napoletani sono diventati trotskisti entristi interessati al riformismo dell’affetto per questa città e per le sue bellezze, mantenendo però il contatto con tutti i suoi problemi, tutte le sue carenze, tutte le sue pazzarìe che i turisti trovano, in fondo, divertenti e senza dare vita al sequel di Quel giorno di ordinaria follia.
Nel 2008, con Napoli dei molti tradimenti, Adolfo Scotto di Luzio aveva raccontato della grande infatuazione degli anni giovanili, pieni di radicalismo politico e alla ricerca del volto più autentico delle classi popolari tra i vicoli della Sanità e dei Quartieri Spagnoli; dieci anni dopo, nel luglio 2018, la rete SET: Città del Sud d’Europa di Fronte alla Turistificazione si è riunita in una prima assemblea pubblica nel Cortile di Santa Chiara, pieno centro storico, per parlare dei rischi della “gentrificazione” partenopea. I dati a supporto della discussione erano diversi. Quelli dell’Agenzia delle Entrate e dal Dipartimento delle Finanze del Ministero dell’Economia che nel 2014 dicevano che il 62% dei napoletani era proprietario di casa. Quelli che mostravano come, tra il 2016 e il 2018, il numero di alloggi su Airbnb a Napoli, quasi tutti nel centro storico – il più vasto d’Europa con circa il 14,5% dell’intera superficie urbana – fosse aumentato più che in tutte le altre città italiane, con un tasso di crescita medio del 124,8% ( si è passati da 3.089 annunci pubblicizzati ai 6.944 alloggi odierni). Quasi contemporaneamente, proprio in questi quartieri dichiarati in gran parte patrimonio dell’umanità dall’Unesco, l’Istat segnalava l’alto tasso di disagio economico delle famiglie dovuto al rincaro dei prezzi. “Il turismo arricchisce chi?”, si chiedevano i giornali, mostrando come la distribuzione dei profitti e le opportunità di lavoro tradissero le aspettative. Infine, in occasione della presentazione dell’Iniziativa per il turismo sostenibile, Airbnb svelava i numeri riguardanti la propria presenza in oltre 300 città e 80 Paesi nel mondo: Napoli figurava, su base dati 2017, nella ‘top five’ italiana con circa 220mila visitatori provenienti da oltre 140 nazioni diverse, accolti da host che affittavano per 47 notti l’anno con un guadagno medio di circa 4.000 euro.
“Tourist you are not welcome #gohome”: questa scritta è comparsa a fine marzo 2019 sul campanile della basilica di San Lorenzo Maggiore, nel cuore dei decumani, tra le visitatissime botteghe artigiane dei maestri dell’arte presepiale. Pochi giorni dopo, circa trecento persone partecipavano a una marcia contro gli sfratti, l’aumento degli affitti e lo svuotamento di abitanti dai quartieri storici della città: “Non ce l’abbiamo con i turisti né siamo contro il turismo,” spiegavano, “ma contro chi specula sul turismo con il proliferare delle case vacanze e dei b&b che eludono il fisco a scapito del diritto all’abitare, con fitti divenuti inaccessibili per studenti e famiglie a basso reddito”. A una situazione simile, intanto, il New Yorker dedicava un approfondimento con l’articolo dal titolo: “The Airbnb Invasion of Barcelona”. Ancora qualche giorno e, in uno stretto rimando storiografico, a Napoli protestavano i commercianti di quel triangolo delle bermude economico che è via Toledo, ai margini dei Quartieri Spagnoli, perché il degrado, la sporcizia, i senza dimora, allontanavano i turisti dallo shopping. Se un tempo i negozianti, i ristoratori, gli albergatori, lamentavano la presenza di un turismo povero, mordi e fuggi, incapace di generare ricchezza pubblica, ora l’argomento sembra essere appannaggio di pochi perché la città turistica è diventata un’opportunità irrinunciabile per tutti gli strati della popolazione e per parlare apertamente di ciò che comporta il coglierla ci vuole troppo tempo, si frenerebbe lo sviluppo.
Nella terza città al mondo per rumore, persino il caos notturno della movida in alcune zone residenziali, da Chiaia al Vomero a via Aniello Falcone, una volta salotti buoni della città, non sembra di grande interesse politico o amministrativo. Proprio come accaduto con il boom edilizio degli anni Sessanta, oggi siamo passati dalle “Mani sulla città” alla “Città su Instagram”. Walter Benjamin ha teorizzato la perdita dell’aura dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: a Napoli sta avvenendo la stessa cosa con gli usi, i costumi, persino i problemi. Lo stesso sindaco De Magistris, che dell’identità napoletana ha fatto una medaglia – e un simbolo, anzi, un insieme di simboli replicati sulla sua scrivania – da un lato si dice contrario a svuotamenti, speculazioni e massificazione, ma, felice dell’aumento dei turisti, ne parla come di una possibilità per coniugare identità e rivoluzione e annuncia: “Approveremo la delibera per le attività produttive e commerciali per incentivare coloro che investono su mestieri tipici, botteghe artigianali, trattorie”.
Ci si fa largo, così e quotidianamente, tra gente immunizzata dalla rapidità del suo passaggio: per due, tre, quattro giorni, i turisti fluttuano nel caos, insieme al caos, senza chiedersi niente, nemmeno dove dormono, a chi arrivano i loro soldi, se il cameriere che ha servito loro il pranzo è in regola o lavora in nero. Non sono fatti loro. Dopodomani se ne andranno. Forse una volta tornati a casa sentiranno la mancanza anche delle corse della metro che saltano, del non poter dire come e quando arriverà un autobus, dei cassonetti per la raccolta differenziata dati alle fiamme in pieno centro, dei tizi sullo scooter pronti a partire contromano appena sarai a tiro per uno scippo, delle stese, della bambina ferita da proiettili durante un agguato di camorra a 600 metri dai treni che arrivano e partono: farà tutto parte del folklore locale. Napoli piace. Napoli è un brand. La canta Liberato – a lui si deve, in parte, l’assalto in luoghi come la Gaiola e l’isola di Procida – la svergogna Gomorra, la racconta L’Amica Geniale, la rende una di casa Un posto al sole. Napoli vive una nuova ondata di turisti giunti da ogni dove non solo per vederla ma per farcisi il bagno. Napoli è abituata ai visitatori stranieri, anche se fino a qualche tempo fa erano invisibili e oggi l’interesse dei tour operator fa notizia. Ma che sia pronta ad accoglierli senza portare i residenti al limite della turismofobia spingendoli fuori dal centro città con le loro richieste di servizi, tranquillità e un luogo sicuro in cui vivere, questa è un’altra storia: la conoscono tutti, nessuno vuole sentirla più.