Con Liberato Milano si è comprata Napoli - THE VISION
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Siamo tutti un po’ vittime della prepotenza di Napoli: che ci piaccia o no, sappiamo che la sua estetica e la sua natura endogama e conservatrice ci obbligano spesso a piegarci alla sua volontà, senza facoltà di controbattere. E lo dico da siciliana – altra cultura dai toni vagamente totalitari – napoletana per un quarto. Potremmo forse mai dire che Napoli è brutta, che il napoletano non è una lingua melodica e romantica, che la pizza non è un’invenzione geniale? No, certo che no. Allo stesso modo, non possiamo contraddire lo stereotipo del napoletano truffaldino, orgoglioso, chiuso e fedele solo alle leggi partenopee: ovvio che i napoletani non sono tutti così, ma negare che esista un’atmosfera simile – peraltro rincarata da loro stessi – sarebbe ipocrita. Napoli è un pacchetto completo di bellezza e bruttezza, cultura e degrado, poesia e turpiloquio e noi, visitatori del caso, possiamo adottare due strategie: o chiuderci nell’indignazione e nel rifiuto o buttarci a capofitto nella corrente della città, accogliendo persino la truffa come esperienza del luogo. Non è strano dunque che questo blocco compatto possa essere riutilizzato a proprio piacimento: dalla comicità napoletana – che parte dal presupposto che essere napoletani faccia ridere a prescindere, come una cifra umoristica innata – passando per musica e cibo, fino ad arrivare a fenomeni recenti in cui a servirsi del marchio Napoli non sono stati nemmeno i napoletani, come Gomorra e Liberato.

 

Per quanto riguarda Gomorra, le ragioni del successo vanno attribuite a più fattori: una produzione attenta e ambiziosa, un’ottima scrittura, la caratterizzazione meticolosa di ogni personaggio. In questo caso l’elemento Napoli è centrale, essendo una narrazione basata esclusivamente su trame legate alla città e alla realtà della camorra (altro prodotto di esportazione partenopea, purtroppo non solo cinematografico). Con Liberato invece la cosa si fa più complicata, prima di tutto perché la sua manifestazione finale non è così omogenea come quella di Gomorra. Genny Savastano è tutto lì, fatto e compiuto, coerente con la sua lingua e la sua appartenenza rivendicata con orgoglio, è un modello preso da Secondigliano e riprodotto fedelmente, nonostante si tratti di un personaggio di finzione. Liberato, invece, non è così: è un miscuglio di tendenze, strizzate d’occhio, estetizzazioni, strategie di marketing travestite da mistero. Perché funziona così bene? Molto semplicemente, perché è il modo in cui i non-napoletani vogliono vedere Napoli senza sentirsi sradicati dalla loro comfort zone musicale e culturale. Legittimati dalla forma ripulita e concorde con un certo modello estetico, i fan di Liberato (me inclusa) si sentono in pace con loro stessi nonostante stiano ascoltando qualcosa di molto neomelodico – ok, non sarà letteralmente neomelodico, ma qualcosa di simile sì – e nonostante non abbiano nessun legame con la cultura partenopea (spesso allontanata da snobismo o semplice incapacità di comprensione). Una cultura ingentilita per l’occasione dallo stile Boiler Room. Chi lo doveva dire all’utente medio del Club to Club che si sarebbe strappato i capelli per vedere venti minuti di live di un artista che canta in napoletano e mixa La tammurriata nera con M.I.A.?

Nino D’Angelo, con sincera ed encomiabile spontaneità, ha provato a sollevare la questione con un post in cui dice di non trovarci nulla di così nuovo in questo progetto musicale, e raccomanda il misterioso artista di non uscire mai allo scoperto, perché “se scopriamo domani che è stata scritta e cantata da un neomelodico qualsiasi a molti non piacerà più… Quindi dico al proprietario di questa idea di non fare mai sapere la sua identità soprattutto se viene da quel mondo che sta dietro al muro del pregiudizio…”. Probabilmente la sua posizione è anche influenzata da una bella dose di risentimento contro tutta quella corrente snobista che ha sempre disprezzato il cantante col caschetto d’oro (e i suoi numerosi colleghi), ma dice una cosa che secondo me è molto pertinente. Avremmo tutti ascoltato Liberato con la stessa leggerezza d’animo se non avesse avuto quei video, quelle basi e, soprattutto, quei legami artistici? Perché smettiamo di far finta che non sia così, ma Liberato vuol dire anche internet, e internet vuol dire anche molte altre cose: conoscere e citare Liberato equivale ad alzare la manina nella folla – una folla che adesso si è trasferita tutta dall’altro lato, e mi dispiace ma è diventato decisamente mainstream – e dire “sì ci sono anche io nel gruppo di quelli fighi! Lo conosco anche io Liberato!”.

Le componenti di Liberato – che è evidentemente un progetto corale, pensato come un’esperienza audio-visiva – prese nel loro singolo sono tutte perfette. La regia di Francesco Lettieri, sapiente maestro di pulizia estetica e abile cacciatore di tendenze, è ovviamente il marchio più lampante di tutta la produzione, sia perché ha consacrato l’immaginario ultras-partenopeo-indie, sia perché il suo stile è ormai indissolubilmente legato alla scena musicale a cui fa riferimento Liberato. Il fatto che Lettieri sia il regista di tutti i video più popolari in un certo tipo di scena indie italiana – da Calcutta a Carl Brave x Franco126 fino a Thegiornalisti, Motta e Giorgio Poi – è la dimostrazione che la collocazione di Liberato è molto chiara: potremmo quasi considerarlo come una diramazione della scena romana che si è avventurata in un esperimento postmoderno di napoletanità, elettronica e scugnizzi in motorino. Come tutte le cose molto riconoscibili e con un’estetica ben delineata, Liberato è un prodotto che si vende come il pane, e se Nino D’Angelo ci tira le orecchie per essere saltati sul carrozzone della novità dopo aver fatto per anni gli schizzinosi con i neomelodici – che al massimo andavano bene per un ascolto ironico – non è che abbiamo proprio tutto il diritto di contestare le sue parole.

Dal palco del Mi Ami (con la mossa strategica di metterci Calcutta a controfigura ad alimentare questo incredibile mistero del cantante senza volto) al Club to Club, è ovvio che Liberato è fatto precisamente per chi napoletano non è, e se poi lo ascoltano pure i napoletani questo è secondario. Col suo mix di elementi insoliti e di dettagli assolutamente contemporanei, Liberato è perfetto per Milano. Ma non per la città in sé, più che altro per tutto ciò che rappresenta e per le sue emanazioni culturali (ed economiche): c’è un motivo se il Mi Ami non si fa a Scampia, ecco, e pure se a fare finta di essere Liberato c’è Calcutta e non Alessio. E sorge il dubbio se a questo punto, giusto per esagerare un po’ con la riflessione, non siamo di fronte a un caso di appropriazione culturale. Se Liberato facesse un live a Piazza del Plebiscito, mi chiedo quanti sarebbero effettivamente gli spettatori napoletani (esclusi quelli casuali) e quelli che invece vogliono essere presenti al grande spettacolo di internet che si fa realtà, a questa reiterazione infinita del concetto di base. Non sappiamo chi è Liberato, e ci crogioliamo nella curiosità di scoprirlo: sappiamo solo che per Milano è un accessorio perfetto.

E quindi chi ha ragione? Nino D’Angelo che, in modo un po’ naïf, prende parola per dire “eh scusate ma guardate che questa cosa qua già c’era” – senza tenere in conto dei significati in più che sono stati attribuiti a quella voce e alla lingua in cui canta – o tutta la gente che si è arrovellata per mettere su il progetto Liberato? Persone che, senza dubbio, hanno saputo estrapolare quanto di più spendibile di Napoli a Milano (inteso come luogo dell’anima più che come luogo fisico), stando ben attenti a non inciampare nei cliché che ci fanno storcere il naso in stile monologhi di Siani sugli stereotipi dei napoletani mangioni e mammoni. Certo, questa storia che ci si può comprare tutto, persino “sott’ ‘a botta impressiunat’”, e rigirarlo secondo le esigenze di un certo tipo di pubblico in modo da colpire dritti nel segno, un po’ di tristezza – un bel po’ – me la mette addosso. Resta però il fatto che nonostante la questione dell’appropriazione culturale, nonostante la percezione che in quella musica e in quelle immagini ci sia davvero poco di Napoli e molto più di una cartolina per visitatori indie, alla fine le canzoni di Liberato a me piacciono quasi tutte, e lo stesso vale per i video. Quindi va bene, accettiamo il presente e godiamoci le tendenze, con buona pace di Nino D’Angelo – che tra le altre cose, senza vergogna, a me piace anche più di Liberato.

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