Ci sono diversi modi di parlare del movimento #MeToo: c’è quello della cronaca rosa, interessata a fare nomi e scoprire i loro intrallazzi; c’è quello dei cinici, che dal giorno uno avevano già capito che era tutta una montatura di qualche attrice in declino che aveva bisogno di rimpolpare la propria notorietà, oltre che il portafogli; c’è quello dei critici della cancel culture, che non hanno mai superato il fatto che il proprio attore o regista preferito sia stato allontanato da Hollywood a causa delle violenze commesse; c’è quello dei movimenti mascolinisti, che hanno vissuto il #MeToo come la prova dell’egemonia della lobby femminista e dello strapotere delle donne sull’opinione pubblica. Dal 2017, anno dell’inchiesta su Harvey Weinstein, a oggi abbiamo letto centinaia, se non migliaia, di commenti e opinioni di questo tenore e raramente si è colto il senso più importante e la vera storia del movimento, offuscato dai suoi detrattori e soprattutto dalla celebrity culture.
Ora un altro tassello di questa celebrity culture sta facendo lo stesso, decretandone la morte. L’esito del processo di primo grado Heard-Depp, che ha visto il riconoscimento dell’intento diffamatorio in un articolo che Amber Heard aveva scritto sul Washington Post in cui si definiva una vittima di violenza domestica, per molti commentatori ha segnato la fine del #MeToo. La cosa peculiare è che questa lettura è condivisa sia dai detrattori del movimento (come se un singolo caso potesse vanificare tutto quello che è emerso negli ultimi cinque anni), sia da chi è sempre stato favorevole, ma teme che questa sentenza rappresenterà un passo indietro per le vittime di abusi. Se è vero però che diversi uomini accusati di atti violenti, come il ragazzo che nel 2020 ha ucciso due manifestanti del movimento Black Lives Matter in Virginia, hanno deciso di tentare la strada della causa di diffamazione ispirati proprio da Johnny Depp, è anche vero che non tutti godono del sostegno e della popolarità dell’attore, fattori determinanti nel processo. La giornalista Julia Jacobs ha raccontato al podcast The Daily: “La mattina dopo il verdetto ho parlato con un avvocato di nome Andrew Miltenberg, che rappresenta regolarmente persone accusate di cattiva condotta sessuale in casi di diffamazione contro le loro accusatrici. Ha detto di aver ricevuto una dozzina di mail da parte dei suoi clienti dopo la sentenza che dicevano che il verdetto di Depp era di buon auspicio, che mandava un segnale positivo per i loro casi. E, come loro avvocato, ovviamente ha dovuto avvertirli che ogni caso è diverso, e che loro non sono Johnny Depp. Non sono famose star del cinema con una fanbase che twitta in loro supporto e difende online ogni loro parola”.
Bisogna inoltre considerare che, se anche una causa civile ha dato ragione a una persona accusata di violenza domestica, ciò non cancella le numerose sentenze che hanno confermato la versione di altre vittime: solo una settimana fa la Corte Suprema del Michigan ha rigettato l’appello di Larry Nassar, medico sportivo condannato a 175 anni di carcere per aver molestato centinaia di giovani atlete, anche minorenni, tra cui la ginnasta Simone Biles. Il 21 giugno, poi, un tribunale della California ha riconosciuto che Bill Cosby ha stuprato una ragazza di 16 anni nel 1975, condannandolo a pagarle un risarcimento di 500mila dollari. Lo stesso attore è in attesa di un nuovo processo, dopo che la Corte suprema della Pennsylvania ha rilevato delle irregolarità nel processo che lo aveva condannato in appello a dieci anni di carcere per aver drogato e violentato più di 60 donne nell’arco di più di 40 anni. Il procuratore distrettuale Kevin Steele ha specificato che Cosby è stato scarcerato “a causa di un problema procedurale irrilevante per i fatti contestati”. Il produttore Harvey Weinstein, simbolo del sistema che il #MeToo ha cercato di scardinare, sta invece attualmente scontando 23 anni di carcere per stupro e dovrà affrontare un altro processo in California, dove è accusato di 11 casi di violenza sessuale.
Al di là dei processi, però, quello che la sentenza Heard-Depp non può cancellare è il cambiamento culturale che il #MeToo ha portato con sé. Di tutti i modi in cui si è parlato del movimento negli ultimi anni, resta un grande assente: il #MeToo infatti non è stato un movimento di attrici giustizialiste e arrampicatrici sociali, ma di migliaia di donne e di uomini che hanno deciso di non poter più tacere di fronte all’abuso di potere. L’hashtag non è nato a Hollywood nel 2017, ma è stato coniato dieci anni prima dall’attivista nera Tarana Burke, che ha costruito un movimento nato dal basso indirizzato alle donne povere e marginalizzate, che sono le più esposte ai ricatti sessuali, come dimostra il recente caso dei permessi di soggiorno a Torino. Negli ultimi cinque anni, grazie alla risonanza mediatica del #MeToo e alla conversazione globale sulla violenza sessuale, c’è stato un vero e proprio cambio di mentalità, che ha abbassato l’asticella della tolleranza nei confronti di chi approfitta del proprio potere per ottenere del sesso e forzare il consenso, di cui hanno potuto beneficiare anche se faticosamente anche gli uomini vittime di violenza. Anche nel nostro Paese, l’attenzione che hanno ricevuto casi come quello dell’imprenditore Alberto Genovese (accusato di due violenze sessuali), di Ciro Grillo (accusato di violenza sessuale di gruppo), della giornalista Greta Beccaglia (molestata in diretta tv fuori dallo stadio Castellani di Empoli alla fine di una partita) o delle molestie avvenute durante il raduno degli Alpini a Rimini e i festeggiamenti di Capodanno a Milano, non sarebbe stata la stessa senza il #MeToo.
Certo, il movimento non è esente da problemi. In questi anni, diverse esponenti del femminismo hanno provato a ragionare criticamente su ciò che il #MeToo è stato ed è diventato. Per Katherine Angel “Il #MeToo non soltanto ha legittimato la parola delle donne, ma ha anche rischiato di trasformarla in un obbligo”, creando un’associazione pericolosa tra femminismo e dovere di verità. L’assunto che sia compito delle donne non solo esplicitare il proprio consenso, ma anche dover a tutti i costi parlare delle proprie esperienze di abuso, ha finito col caricarle ancora una volta della responsabilità di educare gli uomini per evitare la violenza. Nel momento in cui un tribunale riconosce che una donna che si è definita rappresentante delle vittime di violenza domestica non ha detto la verità, ecco che la sua esperienza individuale viene usata dal pubblico dei social come grimaldello per screditare un intero movimento. Come sostiene anche Tarana Burke, il #MeToo prende di mira il sistema, ma la celebrity culture continua a spostare l’attenzione sui singoli individui, nel bene e nel male. Un’altra critica al movimento viene poi dal femminismo anticarcerario, che considera il #MeToo un’iniziativa giustizialista che rafforza il sistema della violenza istituzionale anziché proporre un’alternativa a essa. Nel libro The Feminist and The Sex Offender, Judith Levine ed Erica R. Meiners analizzano il problema della pena nei reati sessuali, dimostrando come il sistema del carcere non solo si fondi sulle stesse basi discriminatorie, ma non contribuisca a una reale forma di dissuasione per chi commette violenza, né di “riparazione” per le vittime. Vedere Weinsten o Nassar in prigione forse ci dà l’illusione che il mondo sia un po’ più giusto, ma non risolverà in maniera definitiva il problema sistemico della violenza.
Tutte le critiche fatte dall’interno del movimento non hanno l’intento di sancirne il fallimento. Anzi, partendo proprio dall’enorme cambiamento che il #MeToo ha portato con sé, si chiedono quale sia la strada più giusta per arrivare a un mondo libero dalla violenza di genere. Negli ultimi cinque anni, sono stati fatti passi avanti in questa direzione, ma anche tanti errori di valutazione e di strategia. Nessuno di questi, però, così come una sentenza sfavorevole, ha la capacità, per la strumentalizzazione che riceve, di riportarci indietro a quel clima di omertà, paura e silenzio che c’era prima del #MeToo.