“L’ascensore sociale si è bloccato,” dicono. L’ultima volta che ci è stata ricordata questa metafora stantia è stato qualche settimana fa, quando un’indagine condotta dall’Istituto Demopolis per Oxfam Italia ha certificato il pessimismo dei giovani. Il 66% degli intervistati, riflettendo sul contesto in termini generali, sostiene che chi oggi studia o inizia a lavorare prevede per sé un tenore di vita e uno status sociale ed economico peggiore rispetto a quello dei genitori. Un quarto prospetta una posizione sociale simile alla generazione precedente e solo uno su 10 ipotizza un miglioramento. Non sono cifre rassicuranti. E soprattutto sono sempre le stesse, da anni.
Già nel 2008, Walter Veltroni aveva inaugurato un congresso del neonato Partito democratico parlando di disuguaglianza: “Oggi l’Italia, insieme ad un problema di crescita, ha anche un grave problema di disuguaglianza e immobilità sociale: si è bloccato l’ascensore sociale che consente ai giovani più impegnati, intelligenti e preparati di salire quanto vorrebbero e meriterebbero.” Con buona pace della redistribuzione, le parole dell’allora segretario sembravano rappresentare l’epitaffio dell’intervento pubblico nell’economia: “In Italia, a differenza ad esempio di quanto avviene in Spagna, nei Paesi del Nord o in Olanda, il tasso di disuguaglianza, dopo l’intervento pubblico, invece di scendere resta pressoché invariato.” E sembrava d’ispirazione kennediana, più che postcomunista, il ricorso alla solita metafora dell’ascensore sociale.
Per concretizzare questo precetto Veltroni offriva la candidatura in una circoscrizione del Nord Italia a Matteo Colaninno, l’eterno vicepresidente delle aziende del papà, Roberto, “capitano coraggioso” dei tempi di D’Alema al governo. Colui che aveva portato alla ribalta una nuova razza padrona ed era costato alla presidenza del Consiglio l’accusa di aver fatto da ala protettiva al capitalismo d’assalto. Non proprio un fulgido esempio di ascensione meritocratica. “Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore,” riportava il Censis nel dicembre dell’anno scorso. “L’87,3% degli appartenenti al ceto popolare pensa che sia difficile risalire nella scala sociale, una posizione condivisa dall’87,3% del ceto medio e persino dal 71,4% del ceto benestante. Tutti invece pensano che sia estremamente facile scivolare in basso nella scala sociale, compreso il 62,1% dei più abbienti.”
Poi, nel 2012 l’Istat ci aveva fatto sapere che un terzo dei nati nel periodo 1970-1984 si era trovato, al suo primo impiego, in una classe sociale più bassa di quella dei padri, e che meno di un sesto di essi era riuscito a migliorare la propria posizione. Si leggeva già che le persone con un’età compresa tra i 25 e i 40 anni rappresentavano la prima delle generazioni nate nel corso del Novecento a vedersi sbarrato il famoso ascensore. Tre anni prima, la fondazione Italia Futura aveva presentato un’indagine in cui solo il 6% dei giovani di 20 anni aveva detto di trovarsi meglio rispetto ai genitori, e il 44% degli architetti era figlio di architetto, il 42% di avvocati e notai era figlio di avvocati e notai, il 40% dei farmacisti era figlio di farmacisti. “Sembra passato un secolo,” scriveva il Corriere dieci anni fa, “da quell’Italia che alla vigilia del boom economico aveva fiducia nel futuro, sentiva sulla pelle il senso della possibilità e giorno dopo giorno si costruiva un domani migliore.”
Eppure, oggi il problema non sembra più quello di dare al povero la piena possibilità di diventare ricco facendo il suo dovere e osservando la legge, perché al “competente” nel frattempo si è dato un calcio nel sedere e lo si è rimpiazzato con dilettanti allo sbaraglio: l’obiettivo non sembra più garantire il successo a chi se lo merita, ma vendicare il senso comune, con tutte le sue inadeguatezze. In fondo, uno come Luigi Di Maio è la rappresentazione vivente di come la mobilità sociale non sia affatto morta: il problema è che si è ripresentata in forme del tutto diverse, quasi grottesche, rispetto a quelle sognate liberali e liberisti.
Il cittadino è arrabbiato perché si vede soverchiato dai soliti noti, dai protetti da mille relazioni di censo, politiche e di parentela. La sensazione è che siamo arrivati a un punto per cui invocare il sogno della mobilitazione del blocco di vittime dell’ingiustizia sociale, insieme, a favore della meritocrazia è ormai una barzelletta fuori tempo massimo, perché ci sarà sempre qualcuno che preferirà la concorrenza sleale o una raccomandazione. Rivendicandola, persino. Poiché nel momento in cui la rivoluzione liberale del merito si è mostrata una presa in giro, dopo vent’anni di slogan vuoti, forse è più onesto accettare l’immobilismo come parte della nostra tradizione, piuttosto che un motivo per sentirci in colpa.
Se è vero che i leader della sinistra moderata hanno mostrato gravi dimenticanze in tema di mobilità sociale, preoccupandosi un po’ troppo del multiculturalismo, dell’accoglienza, della Silicon Valley e dei diritti civili – come fanno notare ormai tutti: dai liberali ai conservatori ai marxisti innamorati di Salvini – in che modo i rifugiati nel voto gentista pensano di elevare gli ultimi? La formula italiana sembra, almeno in questa fase, tutt’altro che ispirata alle liberalizzazioni dei mestieri e alla promozione del merito: c’è piuttosto la voglia di far sentire protetti quelli che, con un’espressione terribilmente snob, vengono chiamati dai giornali “i perdenti della globalizzazione”: i lavoratori caucasici a più alto rischio di essere sostituiti dagli immigrati; i cattolici poveri e conservatori; tutti coloro che hanno votato per vent’anni centrodestra o centrosinistra, e che ora hanno capito, o si sono convinti, che il loro interesse economico debba divergere dai partiti filoeuropeisti, pro-globalizzazione e più o meno rispettosi delle ritualità della Seconda repubblica.
Non è il caso di parlare della “rivincita di quelli che andavano male a scuola”, come ha fatto il regista Paolo Virzì, perché si ricadrebbe nel solito vizio di elevarsi su uno scranno intellettuale che in pochi possono permettersi. Ma è innegabile che quelle poche azioni realmente politiche messe in campo dal governo hanno il sentore di antimodernismo, di nostalgia per l’Italia romanticizzata pre-crollo del Muro di Berlino; di rintanamento nell’orgoglio straccione e nelle paranoie di complotto: si pensi all’idea di rimettere i flipper nei bar al posto delle slot machine, alla pantomima vergognosa sulla Diciotti, alla gestione mediatica del crollo di Genova, ai negozi chiusi la domenica.
Nel maggio del 2016, due ricercatori di Banca d’Italia, Guglielmo Barone e Sauro Mocetti, avevano fatto una scoperta sconcertante: in uno studio i due avevano incrociato i registri dei contribuenti di Firenze del 1427 con quelli del 2011. Il risultato è che a distanza di sei secoli la ricchezza è rimasta nelle mani delle stesse persone. Tre fra i primi cinque contribuenti di sette anni fa appartenevano a famiglie che già nel Quindicesimo secolo si trovavano nel 7% più ricco della popolazione per reddito, e nel 15% più ricco per patrimonio. Viceversa, i cognomi più poveri del 2011 lo erano anche nel 1427. Ma per dimostrare empiricamente la scarsa confidenza dell’Italia con “l’ascensore” basta camminare nelle nostre città.
Sono nato e cresciuto a Napoli, passeggiando per anni in quartieri abitati da classi sociali immutabili: la disoccupazione cronica dei Quartieri Spagnoli si tramanda di generazione in generazione, a pochi passi dalla borghesia ereditiera di Chiaia. Si tratta del cosiddetto “soffitto di cristallo”: caratteristica di una data struttura sociale che impedisce, per decenni o anche secoli, a un segmento demografico di passare a un livello superiore, se s’impegna, o di scivolare più in basso, se non campa di rendita. A prescindere dalla gentrificazione, la miseria e la ricchezza urbana di molti centri italiani sono vicine di casa che si guardano senza incontrarsi mai.
Però siamo sicuri che tutta questa mobilità sia una cosa buona o, perlomeno, “spendibile” politicamente” nel contesto odierno? È mobile chi riesce a seguire lo spostamento del capitale, e dunque del profitto, anche a costo di sradicarsi e sradicare, lasciando indietro qualcosa e qualcun altro. Fare in modo che chi non riesce a competere non venga abbandonato a se stesso è stata la promessa storica della sinistra novecentesca, il cui tradimento è costato già fin troppo caro. Il concetto di mobilità sociale del resto non è mai appartenuto veramente ai socialisti, perché si distacca dal concetto di egualitarismo. Nel constatare che la vita ci dota di condizioni di partenza differenti – dal punto di vista economico, educativo, fisiologico – chi ha a cuore il modello di meritocrazia di tipo statunitense punta a garantire l’uguaglianza delle opportunità, ma non certo all’appiattimento di queste differenze nel lungo periodo.
Come poi questo principio, apparentemente impeccabile, sia stato tradito da varie discriminazioni oggettive, di censo e culturali, lo dimostra il fatto che negli Stati Uniti c’è probabilmente ancora meno mobilità sociale che in Europa, con un gap economico vistoso e una classe media sempre più schiacciata tra poveri e ricchi sempre più numerosi. Per di più, c’è chi contesta il concetto stesso di mobilità sociale da un punto di vista politico e filosofico. Secondo il filosofo politico Alex Callinicos, l’ossessione per la mobilità sociale è un frutto malato del postmodernismo e del suo “pensiero” debole: un sintomo di come la generazione delusa dopo il ‘68, frustrata politicamente, si è fatta incorporare in una nuova classe media professionale e burocratizzata. Visto con le lenti desolate di oggi, sembrerebbe comunque tutto grasso che cola.
In qualunque modo sia andata, ciò che oggi “tiene fermo” l’ascensore sociale è certamente l’economia, la stagnazione produttiva che impedisce qualsiasi allargamento delle opportunità lavorative. E tuttavia va citato anche un altro fattore, meno dipendente dalle congiunture internazionali: la qualità del cosiddetto capitale umano, che può essere sviluppato attraverso l’istruzione. Già dodici anni fa si era registrata la bocciatura della scuola italiana da parte dell’Ocse: la vostra è una scuola che non promuove la mobilità sociale verticale – ci dicevano – dunque una scuola “ingiusta”. Ma nello scontro post-ideologico che si è protratto negli ultimi trenta o quarant’anni, la scuola italiana sembrerebbe afflitta non tanto dalla negazione della meritocrazia e dalla deresponsabilizzazione, quanto dalla mancanza di fondi e dall’intoccabilità di certe materie, dei professori e del loro ruolo sociale.
Di certo c’è che la sinistra moderata adesso ha poche carte da giocarsi. Fallito il tentativo di democratizzare il capitalismo italiano, strappandolo ai patti tra amici, alle strutture piramidali della finanza, alle consorterie familiari e agli opachi accordi sindacali. Non essendo riuscita a compiere pienamente la sua mutazione ideologica, lasciando che il mercato esercitasse la presunta funzione dinamica, ed essendo stata battuta da chi rappresenta un corpo sociale talmente variegato da essere al tempo stesso inattaccabile e indifendibile – dipendenti pubblici, disoccupati, insegnanti, piccoli imprenditori, studenti – difficilmente la sinistra potrà ritrovare consenso, un domani, con la retorica del merito e della selezione sociale, se non altro prima di aver lasciato la cittadinanza ad assaggiare le ricette del nuovo governo.
Di sicuro c’è che il modello politico e sociale che ha dominato l’Europa durante più di mezzo secolo non funziona più, e non da oggi. Già nel 2002, con la sconfitta di Lionel Jospin alle presidenziali francesi e l’avanzata di Jean-Marie Le Pen, la Francia si presentava come laboratorio del populismo di destra, stretta tra le lusinghe dei post-fascisti del Front National e una imbarazzante alleanza tra conservatori e socialisti in crisi di identità. Un centrosinistra che già allora, in tutti gli Stati europei, arretrava o o si divideva. E lo Stato nazionale, invece di essere visto come un ascensore sociale, veniva percepito come uno strumento difensivo per una popolazione che si sentiva minacciata. In uno studio del Ministero dell’Economia francese sui redditi e i patrimoni delle famiglie pubblicato vent’anni fa, si evinceva che a partire dagli anni Ottanta la crescita della ricchezza era in gran parte finita nelle mani degli ultracinquantenni, mentre agli ultraquarantenni e ai giovani erano andate solo le briciole.
Non è da dieci anni, dunque, ma da venti o trenta che il più formidabile strumento di integrazione a disposizione della società occidentale si è inceppato, e l’Italia rischia di diventare un caso da manuale su come non andrebbe gestito il declino. Mentre l’ex consigliere di Trump, Steve Bannon, è in tour nel nostro Paese come una vecchia rockstar imbolsita, e invita i giovani a ribellarsi contro l’élite che vuole ridurli “in schiavi”, ci si mette anche l’Eurostat, a rilevare che nel nostro Paese c’è una quota del 12,2% di lavoratori poveri, cioè coloro che, pur avendo un’occupazione, si trovano a rischio di povertà e di esclusione sociale a causa di un reddito troppo basso. Ma togliere ai padri per dare ai figli forse non basta più visto che, ormai, il problema riguarda il togliere agli immigrati e alle minoranze ciò che gli è stato dato, e procedere verso una progressiva “de-multiculturalizzazione” della società. L’ascensore sociale si è bloccato ai piani alti e lì rimarrà per chi ha la fortuna di esserci.