I millennial non sono sempre stati in guerra con i boomer. Fino a qualche anno fa entrambe le generazioni erano indifferentemente castigate dal randello della propaganda politica e mediatica. Mentre i padri finivano nel tritacarne della legge Fornero – una delle riforme pensionistiche più severe al mondo, come certifica l’Ocse – i figli erano mortificati dagli epiteti più sgradevoli: bamboccioni per il ministro Padoa-Schioppa; choosy, schizzinosi, per la ministra Fornero; fermi al posto fisso accanto a mamma e papà per la ministra Cancellieri; lentissimi nel laurearsi per il ministro Poletti. Sulla stampa nazionale si era poi sviluppata una fiorente letteratura scandalistica sulla proverbiale pigrizia dei giovani, una massa di sfaticati che rifiutava, nonostante la crisi e la disoccupazione, un posto da panettiere.
A un certo punto, però, qualcosa è cambiato. La retorica colpevolistica contro i millennial ha cominciato a diradarsi andandosi ad esaurire quasi completamente. Per almeno due motivi. Il primo, di natura endogena, è stata la “rottamazione renziana”, che, con il suo carrozzone giovanilistico, dalle stanze di partito è poi tracimata nelle istituzioni e nella società. Il secondo fattore, esogeno, è stato la Brexit. Dal voto britannico sull’uscita dalla Ue, nel 2016, è emersa una nuova, accattivante narrazione: quella dei vecchi che derubano i giovani del futuro. I primi bigotti e conservatori, i secondi europeisti e progressisti. E pazienza se la fotografia è subito apparsa assai parziale, escludendo dall’inquadratura l’elevato tasso di astensionismo giovanile – questione trasversale anche ad altri Paesi, come il nostro – o il riavvicinamento di molti giovani europei all’estremismo di destra – almeno uno su quattro in Francia vota Marine Le Pen – la fotografia si adattava bene alla mutata cornice politica, che, dopo i sacrifici successivi alla crisi dei debiti sovrani, imponeva di far fronte comune contro i populisti. Da noi questo quadro si è ben inserito sullo sfondo della pregressa situazione italiana: precariato cronico, emigrazione giovanile alle stelle, sotto-occupazione, disoccupazione ed emergenza abitativa.
Con l’esplosione del meme “ok, boomer”, alla fine del 2019, la guerra alle vecchie generazioni si è arricchita di tutta una serie di efficaci dispositivi satirici. La pandemia ha infine esacerbato gli animi, dapprima rinchiudendo i giovani in quarantena, nonostante molti si lamentassero che quelli più a rischio fossero i vecchi, e quindi, dopo la riapertura, aggravando lo scenario economico. Siamo così arrivati al punto che, oggi, il 49,3% dei millennial vorrebbe un accesso preferenziale alle cure in caso di allarme sanitario e il 35% ritiene di essere danneggiato dalla spesa pubblica per gli anziani. La grancassa di una cinica ragione economica ha ormai frantumato il patto sociale. E il nostro giornalismo, complice, legittima la rottura.
Sia chiaro: allo stato attuale un millennial ha più di un valido motivo per essere fuori di sé. Siamo la prima generazione dalla Seconda guerra mondiale le cui aspettative sul tenore di vita sono inferiori a quelle dei rispettivi padri e nonni. È quasi inevitabile – se non giusto – essere arrabbiati. La rabbia va tuttavia incanalata verso i veri responsabili, altrimenti si diventa lo strumento di manipolazione di una propaganda viscida e violenta, che aizza le lotte tra gli ultimi. Le pensioni non sono un furto a danno dei giovani. E il debito pubblico non è un fardello che le vecchie generazioni lasciano alle nuove a causa delle loro spese pazze.
Intanto tranquillizziamo i terrorizzati dalla leggenda dell’esercito dei baby-pensionati, i dipendenti statali ritiratisi dopo appena vent’anni di servizio (quindici per le donne): il decreto “pigliavoti” del governo democristiano Rumor, varato nel 1973, è stato soppresso ormai ventotto anni fa da Giuliano Amato, ma già nel 1983 e nel 1985 due interventi legislativi avevano scoraggiato la fruizione del pensionamento “baby” con penalizzazioni economiche. Insomma, le vacche grasse sono finite da un pezzo. Con molta disonestà intellettuale, però, i media fanno ammontare quest’armata zombie di vecchi in panciolle dall’era analogica a più di mezzo milione di persone, confondendo il totale degli assegni erogati da più di trent’anni, che comprende anche le pensioni per invalidità e reversibilità, con il numero reale dei beneficiari. Il calcolo è perciò falsato dall’evidenza che una stessa persona può avere diritto a più assegni. Stime realistiche ridimensionano la platea dei baby pensionati ancora in vita ad appena 75mila unità.
I tecnici della Ragioneria generale dello Stato hanno confezionato un volumetto dal titolo La spesa dello Stato dall’Unità d’Italia, anni 1862-2009, in cui i dati ufficiali smentiscono il mito del debito accumulato perché la spesa pubblica ha preso l’ascensore. Negli anni Ottanta, il periodo in cui il nostro debito crebbe in misura maggiore, le spese in ambito sociale – tra cui le pensioni ma non solo – aumentarono in media appena del 5% rispetto al decennio precedente. Nel complesso, la spesa pubblica, inclusi sprechi, corruzione e clientelismo, restò comunque al di sotto della media europea. A incidere davvero sull’esplosione del debito fu la spesa per gli interessi, che in alcuni frangenti addirittura triplicò rispetto agli anni Settanta, per raggiungere il picco del 24,5% delle uscite totali nel 1993. Per lo Stato divenne dunque molto più costoso rastrellare liquidità sul mercato, soprattutto perché, dopo il “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia, la banca centrale fu sciolta dall’obbligo di acquistare i titoli di Stato non collocati alle aste. A spingere in questa direzione fu in primo luogo la volontà di una stretta inflazionistica, scelta condivisa anche al di là dell’Atlantico. Fatto sta che il debito italiano, inferiore al 60% del Pil nel 1981, arrivò a sfiorare il 100% alla fine del decennio. E negli anni a seguire proseguì la scalata, nonostante la gestione tutto sommato virtuosa delle finanze pubbliche. Già, perché – a dispetto dei luoghi comuni sull’Italia cicala e spendacciona – dal 1991 i nostri governi registrano avanzi primari record, cioè incassano più di quanto spendano per la collettività (escludendo appunto il tasto dolente della spesa per interessi sul debito).
Ora, anche di fronte a questa rassegna, si potrebbe comunque credere che i contributi versati ai pensionati siano spropositati, insostenibili, ingiustificati. Ma questo è un pensiero rischioso. I sistemi pensionistici a ripartizione, come il nostro, si fondano su un accordo implicito tra generazioni: chi è in attività lavorativa paga per chi si è ritirato. Anche i baby boomer lo hanno fatto a loro volta, non hanno “rubato” nulla. Contestare questo principio di solidarietà sociale crea un precedente imbarazzante e molto poco intelligente, dal momento che i millennial, a causa della loro incostante carriera lavorativa, rischieranno, da anziani, di dipendere molto di più dei loro genitori dai versamenti dei futuri lavoratori. Se questa deriva individualista si affermasse, quindi, i nostri figli potrebbero reclamare sistemi pensionistici decisamente iniqui.
L’idea che l’Italia destini troppe risorse agli anziani è, ad ogni modo, fallata da un equivoco clamoroso. L’apparente peso della spesa pensionistica sul Pil – nel 2018 al 16,6%, secondo in Europa – è infatti gonfiato da voci che con le pensioni poco hanno a che vedere. In questo dato, rivela al Fatto Quotidiano Felice Roberto Pizzuti, ordinario alla Sapienza, l’Istat riporta anche gli accantonamenti per il Tfr, che valgono un buon 1,5%, le imposte sulle pensioni stesse (in Italia più alte del 30% rispetto alla media europea), che sono un altro 2%, e anche i prepensionamenti, all’estero conteggiati nella politica industriale. Se si facesse un po’ d’ordine nelle statistiche, ne gioverebbe anche la nostra immagine di Paese che ipoteca il futuro per ricompensare i vecchi.
Certo, le generazioni anziane sono più ricche di quelle giovani, e il divario è cresciuto negli anni, ma “il risparmio precauzionale in vista della pensione, così come il risparmio cautelativo, non è sufficiente a spiegare la fortissima concentrazione della proprietà da capitale che si osserva nella pratica di ogni giorno”, scrive Thomas Piketty ne Il capitale nel XXI secolo. In altre parole, i millennial rimarrebbero sorpresi nel constatare quanto le disuguaglianze siano impressionanti non solo in mezzo ai pensionati, fra cui più di un terzo riceve meno di mille euro al mese, ma nella loro stessa fascia d’età. La formazione delle ricchezze ha insomma radici ben diverse. “Si spiega in primo luogo”, precisa l’economista francese, “con l’importanza del patrimonio ereditario e dei suoi effetti cumulativi”. Per i nati dagli anni Settanta-Ottanta in poi l’eredità sta tornando a giocare un ruolo cruciale, quasi quanto a inizio Novecento. Più la crescita è bassa, più la bilancia pende a favore di chi ha ereditato capitali e ne ricava un rendimento. Ormai, per i privilegiati che rientrano nell’’1% più ricco, vivere di rendita conviene più che esercitare una professione molto remunerativa.
E questo ci riporta alla genesi del debito pubblico italiano. A partire degli anni Ottanta l’impennata dei tassi di interesse sui titoli di Stato, le liberalizzazioni nella circolazione dei capitali, la spietata concorrenza fiscale fra Paesi e la riduzione delle imposte sui redditi più alti – nel 1974 l’aliquota massima era del 72%, oggi è del 43%, mentre è raddoppiata per i redditi più bassi – hanno tutte concorso a premiare i possessori di grandi patrimoni. In sostanza, per finanziare la spesa pubblica, lo Stato non tassa più i ricchi, ma chiede loro soldi in prestito e paga lauti interessi. Per l’Italia ciò ha comportato un gigantesco trasferimento di ricchezza dalle casse pubbliche a quelle private. È questo il vero furto ai danni dei giovani. Per usare un’espressione di Piketty: ci siamo trasformati in una società di piccoli rentiers.
Dunque, “la lotta tra generazioni non ha sostituito la lotta di classe”, sintetizza l’economista francese. Sarebbe davvero stupido per i giovani accanirsi nel conflitto contro i vecchi. Non è nel loro interesse, sia perché per 7,4 milioni di famiglie le pensioni sono un indispensabile ammortizzatore sociale per sopravvivere, sia perché regole più rigide oggi, come la Fornero, condurranno domani a un’uscita dal lavoro oltre i settant’anni, con pensioni da fame. Sarebbe più furbo attaccare i veri ladri di futuro: le rendite. Piketty propone una tassa europea sui grandi capitali (dal milione di euro in su, per capirci), che frutterebbe il 2% del Pil Ue. Non una semplice patrimoniale sui beni immobili, giacché le vere ricchezze sono annidate negli attivi finanziari. D’altronde non si spiega perché la tassa sui redditi d’impresa sia stata dimezzata dal 50% degli anni Novanta al 24% di oggi, o ancora perché in Italia la tassa di successione, già abolita da Berlusconi e fondamentale per colpire i grandi patrimoni, sia ridicola rispetto alla Francia (tredici volte inferiore) o a Spagna, Regno Unito e Germania (cinque volte inferiore). O meglio, in realtà si capisce alla luce della cosiddetta “controffensiva capitalistica”, che in tutto l’Occidente, a partire dalla fine degli anni Settanta, ha eroso i salari a beneficio delle rendite. Una controffensiva reazionaria che ora si fa generazionale.
A questo proposito, la storia della guerra ai boomer è stata ben ricostruita dalla sociologa inglese Jennie Bristow, che ha mostrato come questa narrativa, dapprima anglosassone e poi globale, sia nata in ambienti conservatori. L’autore di La fregatura: come i baby boomer si sono impossessati del futuro dei loro figli è, ad esempio, David Willets, membro Tory della Camera dei Lord britannica, già vicino a Margaret Thatcher. E che dire di I barbari: come i baby boomer, gli immigrati e l’Islam hanno fregato la mia generazione di Lauren Southern, nazionalista bianca canadese, fermata in Italia dalla Guardia Costiera per un blitz in mare contro la nave di una Ong? Se i millennial, però, non invertono presto rotta, saranno i soldati di una guerra per procura dei reazionari per sottrarre diritti a tutti, compresi loro.