Milano è la città più vivibile d’Italia. È questa la notizia della settimana, che ha dato vita a una rivendicazione collettiva delle propria milanesità, tra chi in città ci è nato, chi ci ha vissuto per un breve periodo, chi ci lavora da pendolare e chi aspira, un giorno, a trasferirvisi. A stabilire questo primato cittadino è stata un’indagine del Sole 24 Ore, che ha preso in esame 42 indicatori di benessere, appartenenti a sei macro-aree: Ricchezza e consumi, Affari e lavoro, Ambiente e servizi, Demografia e società, Giustizia e sicurezza, Cultura e tempo libero. Milano si è piazzata per sette volte sul podio nei 42 indicatori, un risultato che nessun’altra città italiana è stata in grado raggiungere.
Scorrendo il rapporto, si legge ad esempio che il capoluogo lombardo è al primo posto in termini di Pil pro capite, nei depositi in banca pro capite e nei consumi medi delle famiglie in beni durevoli; inoltre, è la città più smart d’Italia. È poi ai primi posti per tasso di occupazione tra i 15 e i 64 anni, per numero di imprese registrate, per speranza di vita media, per spese al botteghino e per offerta di spettacoli culturali e, infine, per numero di Onlus registrate. Insomma, un piccolo paradiso economico, sociale, culturale e tecnologico, celebrato un po’ ovunque in questi giorni con gallerie di boschi verticali, orti urbani, navigli luccicanti: un souvenir di cartoline che hanno accompagnato il raggiungimento di questo agognato primato.
“È una buona notizia, speriamo che siano contenti più che altro i milanesi perché il merito è dei milanesi, il mio è minimissimo: è dei milanesi che stanno rilanciando nell’ambizione di essere una città migliore”, ha dichiarato felice il sindaco Beppe Sala.
Ma Milano è davvero un modello di vivibilità? La risposta è no. O meglio, lo è, ma solo in apparenza.
Milano è la città di Expo, dei fuorisalone, della Darsena e dei Navigli riqualificati, del pluripremiato e plurifotografato Bosco Verticale, della newyorkese Piazza Gae Aulenti, della nuova affascinante Biblioteca degli Alberi con lo skyline che si riflette in una minimalista vasca d’acqua in pietra scura, del quartiere del Portello, con i grattacieli in vetro che si attorcigliano su se stessi e i grandi parchi inframezzati da casoni avveniristici bianco avorio. Milano è città dall’enorme offerta culturale e gastronomica, delle grandi università, degli hub tecnologici e finanziari, della metro che passa ogni tre minuti e delle scuole che non chiudono se cade un centimetro di neve o soffia un po’ di vento.
Milano è questo nell’immaginario nazionalpopolare, un’idealizzazione collettiva di un bello che certamente esiste, ma che nasconde sotto al tappeto tante altre problematiche. Il bello di Milano risulta tale solo se si hanno effettivamente i mezzi per beneficiarne. E nella maggior parte dei casi, questo non avviene. A rivelarlo, in fin dei conti, è la stessa indagine del Sole 24 Ore, che evidenzia indirettamente quella che è una delle principali problematiche della città: il diritto all’abitare. La città più vivibile d’Italia, infatti, si posiziona all’ultimo posto per quanto riguarda il costo medio degli affitti. Oggi per un monolocale in zone periferiche servono almeno 600 euro (in centro, per una stanza singola, è necessaria la stessa cifra, se non più alta, mentre per un monolocale si arriva ad affitti che superano persino i mille euro), un prezzo in linea con quello di altre capitali europee, ma a fronte di stipendi decisamente più bassi. E infatti secondo la classifica di Ubs Wealth Management, basata sul rapporto tra salari e prezzi al consumo, Milano è la settima città più cara al mondo.
La mala gestione dell’edilizia popolare e i prezzi degli immobili in costante aumento hanno contribuito a creare un’emergenza abitativa in città, che sta lasciando in strada migliaia di persone. “Milano ha quasi 10mila alloggi popolari vuoti: 5.800 di proprietà dell’azienda regionale Aler e quasi 4 mila comunali gestiti da MM. Le occupazioni sono 4.600”, spiega Roberto Maggioni sul Manifesto. “Case vuote, con porte e finestre lastrate e spesso riscaldate nonostante non ci abiti nessuno. Degli alloggi sgomberati molti non ritornano nelle graduatorie pubbliche ma finiscono nell’housing sociale o, nel caso dell’Aler, in vendita. E chi è in lista d’attesa ci resterà ancora per un bel po’”.
Prendiamo il caso del Giambellino, quartiere popolare nella periferia occidentale. L’Aler detiene circa 2mila immobili qui, ma quasi la metà – circa 800 – sono da lungo tempo sfitti. I tempi per accedervi attraverso le liste sono infiniti, i progetti di riqualificazione o assegnazione restano bloccati per assenza di fondi e una parte degli spazi è stata occupata da famiglie senza casa. Pochi giorni fa un’operazione di polizia ha portato all’arresto di nove persone, facenti parte di un comitato locale di cittadini. L’accusa era di aver messo in piedi un “racket delle occupazioni abusive”: i giornali parlavano di soldi in cambio di aiuto nell’occupazione di questi edifici. In realtà, come poi sarebbe emerso, le cose starebbero diversamente e la loro sarebbe stata piuttosto una forma di disobbedienza civile: centinaia di persone sono senza casa, molti dormono in strada e a livello istituzionale non si fa nulla per risolvere questa emergenza.
Sullo sfondo, si moltiplicano gli incendi di natura dolosa di edifici sfitti occupati nell’area. L’obiettivo, a quanto si dice, è far sgomberare per vie violente gli occupanti. Al Giambellino è insomma in atto una vera e propria guerra dell’abitare, che oppone occupanti, istituzioni, comitati e semplici cittadini. Tutto questo, ovviamente, nella classifica sulla vivibilità cittadina non compare, per il semplice fatto che non esistono indicatori sul tema. E non si vede nemmeno passeggiando per il centro di Milano, perché il Giambellino è fuori mano rispetto ai luoghi da cartolina con cui siamo soliti identificare la città. Emergenze abitative simili riguardano anche altri quartieri collocati fuori dalla circonvallazione – la linea che, a parte qualche eccezione, segna la frontiera tra la “Milano vivibile” e la “Milano problematica”. Corvetto, Quarto Oggiaro, Via Padova, quartieri caratterizzati allo stesso modo del Giambellino da quel paradosso fatto di edilizia pubblica vuota a fronte di migliaia di persone in attesa di accedervi.
Se in questi casi è l’accesso alla casa a essere messo in discussione, in altre situazioni è la sua perdita a macchiare l’immagine patinata di Milano. E spesso, a essere coinvolte sono le stesse persone, espulse ieri dal centro storico e oggi impantanate nelle sabbie mobili di un’offerta abitativa in periferia che non riesce a incontrare la domanda. La trasformazione del capoluogo lombardo degli ultimi decenni, quella che a detta dei più l’ha avvicinata alle altre grandi capitali europee, è spesso avvenuta sulla pelle dei suoi abitanti. Negli scorsi decenni, la riqualificazione di quartieri popolari come Isola, Brera o i Navigli ha letteralmente espulso gli abitanti originari dalle rispettive case, a causa di affitti alle stelle, innalzamento del costo della vita, stravolgimento dell’identità di quartiere. Riqualificazione e speculazione edilizia sono andati a braccetto, traducendosi in processi di gentrificazione basati su quel paradosso per cui i miglioramenti urbanistici in una certa area diventano motivo di frustrazione o rabbia per i suoi abitanti. I parchi, lo skyline, le piste ciclabili, i bistrot e le gallerie dell’area
Tra chi è rimasto, un caso eclatante è quello degli immobili in edilizia convenzionata intorno al Bosco Verticale: affitti ribassati grazie al social housing, ma spese condominiali superiori agli 8mila euro, che hanno di fatto estromesso i ceti medi dal quartiere e reso gli immobili economicamente sostenibili solo per i più ricchi.Oggi queste dinamiche non si sono fermate, ma riguardano altre aree del centro storico. Un esempio è quello di via Sarpi, la “Chinatown” milanese: la pedonalizzazione della via, l’apertura della metro, i grandi progetti architettonici dell’area hanno senza dubbio dato una nuova immagine affascinante al quartiere, cancellando la dialettica del degrado dei primi anni Duemila. Questo ha contribuito a far salire i valori dell’area nelle classifiche della vivibilità e a guadagnarci sono stati i grandi fondi immobiliari. La conseguente impennata dei prezzi degli affitti (nel caso di Sarpi +10,4% nell’ultimo decennio, quarta microarea su 70 a maggiore incremento) hanno costretto – e stanno costringendo – molte persone a lasciare le loro case. È quanto sta succedendo nel Blocco Sarpi, un complesso di appartamenti abitati in affitto da circa 80 famiglie – soprattutto anziani che ci vivono da oltre 50 anni – e a cui oggi è stato chiesto di lasciare gli immobili, dal momento che verranno abbattuti per farne di più belli e moderni così da affittarli, o venderli, ai nuovi prezzi di mercato del quartiere. Dinamiche simili riguardano altre zone: NoLo, Lambrate, San Siro, Ortica, Bovisa.
Quel bello che va a braccetto con la vivibilità ha lasciato sul campo delle vittime, le stesse che oggi vengono dimenticate nelle classifiche sulla qualità della vita. Operai, insegnanti, impiegati, studenti, migranti – il ceto medio-basso, insomma. Milano, la città delle università, degli eventi culturali, dei perenni stimoli per i più giovani, delle start up e delle politiche di inclusione per le fasce più deboli della popolazione si sta trasformando sempre più in un non-luogo dove per i giovani e i più poveri non c’è spazio. Come può uno studente pagare affitti così alti, senza un sostegno esterno? Come può una persona da pochi anni nel mondo del lavoro e con uno stipendio medio, pensare di costruirsi una famiglia in un contesto in cui oltre il 50% delle proprie entrate se ne va in affitto?
“Una buona casa può rappresentare il più solido dei punti di partenza. Quando le persone hanno un posto dove vivere, diventano genitori migliori, lavoratori migliori e cittadini migliori”, scrive Matthew Desmond, professore di sociologia alla Princeton University e premio Pulitzer nel 2017, nel suo libro Sfrattati. “La stabilità della residenza garantisce una sorta di stabilità psicologica, che permette alle persone di investire nella propria casa e nei rapporti sociali. Garantisce la stabilità scolastica, che aumenta le possibilità che i bambini eccellano e si diplomino. E garantisce la stabilità della comunità, il che incoraggia i vicini a creare forti legami e a prendersi cura del proprio isolato”. Inoltre, come sottolinea Desmond, garantire il diritto all’abitare delle persone si porta dietro numerosi risvolti positivi per la città, in termini economici, sociali, securitari. Non è un caso allora che in un contesto di emergenza abitativa e reddituale come quello milanese, dalla stessa analisi del Sole 24 Ore sulla vivibilità emerga come Milano faccia registrare il risultato peggiore in termini di furti e litigiosità nei tribunali.
Quando il sindaco Sala esulta per il primato nella classifica della vivibilità deve capire che si tratta di un concetto vuoto, finché tutti non potranno goderne. È innegabile che a Milano sia stato fatto molto in tempi recenti in termini di accoglienza e di inclusione sociale, soprattutto per volontà dello stesso sindaco. La difesa costante dei diritti Lgbtq+, l’aiuto istituzionale ai migranti nonostante gli indirizzi governativi opposti, gli efficaci piani di aiuto ai senza dimora, queste e altre misure hanno davvero reso Milano un esempio da seguire per i diritti civili, soprattutto in mezzo a una tempesta nazionale. E bisogna ammettere che anche dal punto di vista del diritto all’abitare si sta provando a gestire l’emergenza: a inizio dicembre, ad esempio, il Comune ha destinato un milione e 350 mila euro per i privati proprietari immobiliari che accettino di rimettere in circolo i propri alloggi o anche singole stanze da destinare, in via transitoria, a persone in situazione di emergenza abitativa. Sullo sfondo, però, si continuano a impiegare ingenti risorse in termini repressivi – come i 2,5 milioni stanziati per chiudere al meglio gli alloggi sgomberati – senza che si intervenga alla radice del problema, vale a dire il modo in cui viene malamente gestito il patrimonio immobiliare pubblico milanese.
La Milano vivibile descritta dalle classifiche del benessere racconta solo un lato della medaglia. Dall’altra parte c’è una realtà fatta di sfratti, occupazioni, miseria di chi non riesce a stare dietro alla trasformazione della città. Ci sono anche studenti e lavoratori che la casa ce l’hanno, l’affitto lo pagano regolarmente. Ma per farlo vivono di sacrifici, dal momento che la casa arriva ad assorbire la quasi totalità delle proprie entrate. Certo, questi aspetti sono intrinseci al concetto stesso di città e non sono peculiari alla sola Milano. Ma che senso ha un primato, se esso ha un valore esclusivamente relativo? Il fatto che il capoluogo lombardo faccia meglio di altre città italiane, non significa che sia il paradiso che ci raccontano. Il primato, semmai, deve essere un punto di partenza.
Il problema di Milano, che è anche la diretta conseguenza della sua rigenerazione in chiave ultra-smart, è che è sempre più una città per ricchi, in un Paese che è invece sempre più povero. Per quanto il Comune provi a farsi portatore di politiche inclusive, il bello resta prioritario e si prediligono sempre nuovi progetti in questa direzione. Un esempio è la possibile, imminente, riapertura dei navigli – che rischia, se non gestita nel migliore dei modi, di regalare alla cittadinanza al massimo nuovi spazi per i selfie, ma poco altro in termini di connessione centro-periferie, sviluppo della mobilità e benefici reali per i milanesi.
Le operazioni di decoro urbano non possono diventare il parametro esclusivo attraverso cui giudicare la vivibilità di una città. Semmai, possono fare da contorno. Là fuori, dietro le foto da cartolina che raccontano quanto sia bella Milano, c’è un esercito di persone che non riesce più a fruire di una città che si sta dimenticando di loro.