Negli ultimi giorni è stata aspramente criticata la decisione di cambiare la denominazione del dicastero che si occupa di scuola, che da “Ministero dell’Istruzione” è diventato “Ministero dell’Istruzione e del Merito”. Che il diritto all’istruzione sia legato al concetto di merito ha lasciato perplessi non pochi pedagogisti, docenti ed esperti di educazione, tutti concordi nel ritenere che l’istruzione sia prima di tutto un diritto e che questo debba essere garantito.
Contro la decisione del Governo si è subito schierato il pedagogista Daniele Novara, che ha dichiarato che “il merito non è un concetto pedagogico. Quella parola veniva usata negli anni Settanta per opporsi ai cambiamenti scolastici. […] Dobbiamo farci forti di Lettera a una professoressa, dove si dice che ‘non si può fare parti uguali fra disuguali’. La scuola del merito dovrebbe considerare i punti di partenza e valutare gli alunni sulla base delle loro effettive condizioni di partenza”. Come dice Novara, trasformare la scuola nel posto in cui a trionfare sono solo i migliori è antidemocratico e dannoso: da un lato, non si tiene conto che l’apprendimento per studentesse e studenti non è una gara a chi arriva primo, ma un veicolo per capire le proprie inclinazioni, talenti e soprattutto passioni; dall’altro, si ignora che non tutti partono con le stesse possibilità.
La scuola non dovrebbe curarsi di fornire gli stessi strumenti a tutti, indistintamente, ma di creare le condizioni perché ciascuno apprenda al meglio delle proprie possibilità – anche se non sempre questo è facile da realizzare, per esempio nella scuola pubblica italiana, per mancanza di mezzi e risorse. Applicare criteri meritocratici all’istruzione, come in realtà si sta già facendo da molto tempo, significa privarla del suo valore intrinseco, far proliferare nelle classi la competitività e l’individualismo, piuttosto che la collaborazione, e in questo contesto l’ansia da prestazione prende il posto di una serena disposizione all’apprendimento. Sulla scarsa attenzione che una scuola meritocratica pone al diritto alla formazione di ciascuno, si è espresso anche il pedagogista dell’Università Bicocca di Milano Raffaele Mantegazza, secondo cui “chi elogia la meritocrazia non vede che la scuola deve prima di tutto avere in mente i diritti di crescita dei bambini. […] Come si misura il merito a scuola? Temo che possa venire premiato l’adeguarsi a un modello che viene dall’alto. Aberrante l’idea che si possano premiare i migliori, perché a scuola si cresce insieme, ognuno con le proprie capacità”.
A proposito delle possibili insidie del criterio di valutazione meritocratico, il sociologo e britannico Micheal Young nel 1958 pubblicò L’avvento della meritocrazia. Quest’opera di fanta-sociologia descrive un’immaginaria e distopica Inghilterra del 2023 in cui il principio meritocratico, rigidamente applicato a tutte le forme di organizzazione sociale, porta allo stremo le disuguaglianze tra gli individui. In base all’ideologia meritocratica, solo chi è maggiormente dotato può avere accesso a percorsi di istruzione d’eccellenza; il merito del singolo viene stimato attraverso dei test di intelligenza che non valutano l’individuo nella sua interezza, ma che si focalizzano esclusivamente sulla sua capacità di produrre e di essere performante. Quello descritto da Young è un mondo che dovrebbe produrre benessere e che invece fallisce nei suoi intenti aumentando la disparità sociale, le ingiustizie e il malcontento. Così, quelli che, in base ai test, vengono reputati “inferiori”, nella distopia di Young sono costretti a soccombere di fronte ai più dotati. “Non devono forse ammettere di avere una posizione inferiore non, come nel passato, perché gli venivano negate le possibilità, ma perché sono inferiori? Per la prima volta nella storia umana l’uomo inferiore non ha a portata di mano alcun sostegno per il suo amor proprio”.
Nella metafora di Young riecheggia ciò che accade quando il diritto all’istruzione inizia a dipendere dal merito: viene premiato chi ha l’ingegno e le qualità utili a servire lo Stato e le leggi del mercato, non considerando che questo getta l’istruzione nel baratro della prestazione a tutti i costi, del bisogno compulsivo di fare quando ancora non si è capito che si è, dell’ansia di arrivare primi, di essere migliori degli altri, di andare più veloci perché è l’unico modo per guadagnarsi ciò che si vuole, senza contare che ci sono alcune persone che per ottenere determinati risultati devono compiere uno sforzo enormemente maggiore. A questo proposito, il filosofo Micheal Sandel ha pubblicato, nel 2020, il saggio La tirannia del merito. Sandel condanna anche la retorica dell’ascesa, che considera una trappola, perché ci illude di avere le stesse opportunità e che sia sufficiente impegnarsi per ottenere risultati eccellenti nello studio – e spesso anche nel lavoro. Il concetto di merito, infatti, non può prescindere dalle condizioni socio-economiche più o meno favorevoli in cui un individuo nasce e vive. Per fare solo un esempio: a parità di capacità, uno studente con scarse possibilità economiche non potrà pagarsi un corso di preparazione ai test universitari molto costoso, dunque potrebbe risultare meno preparato di un altro che quel corso invece ha potuto permetterselo. Apparentemente risulterà meno “meritevole”, ma in realtà è solo meno abbiente. Ma possiamo citare anche casi in cui deficit cognitivi o disturbi dell’apprendimento derivanti dall’ambiente di sviluppo impediscono a studentesse e studenti di raggiungere risultati uguali ai propri compagni pur avendo a disposizione lo stesso tempo e pur utilizzando le stesse tecniche.
Come scrive Sandel, “in una società caratterizzata da disuguaglianza, quanti stanno ai vertici vogliono credere che il proprio successo sia giustificato dal punto di vista morale. In una società meritocratica, ciò significa che i vincitori devono credere di essersi guadagnati il successo grazie al proprio talento e al duro lavoro”. Secondo il filosofo, la meritocrazia costituirebbe una sorta di alibi e di giustificazione etica per chi riveste posizioni apicali, ma talvolta riesce a raggiungerle grazie a condizioni particolarmente favorevoli. Costoro finiscono per dimenticare il proprio “debito” e alimentano una convinzione fallace: quella di avercela fatta solo con le proprie forze, di essere riusciti a prevalere sugli altri perché questi non si sono impegnati abbastanza.
Quando si accosta il concetto di merito a quello di istruzione, si ignora che la formazione scolastica serve, prima di tutto, a educare esseri umani consapevoli. Come ha dichiarato il docente e scrittore Enrico Galiano, “La scuola non è il posto dove si premiano i migliori: è quello dove si va a tirare fuori il meglio da ciascuno studente e studentessa. E nella logica del premio e del castigo, della competizione, del vince chi se lo merita, lasciatevelo dire, viene fuori solo il peggio di loro.” E Galiano ha ragione: imparare è un diritto, non un premio. Accostare il merito all’istruzione, e far dipendere quest’ultima da un sistema meritocratico, incentiva la competizione malata, ci costringe ad essere sempre più performanti e acuisce il privilegio di quella parte di società che quel merito può “comprarselo”, a suon di corsi privati sempre più costosi o di lezioni intensive individuali. Per evolvere o, quanto meno, evitare di involvere ritrovandosi con adulti fagocitati dall’individualismo, la nostra società avrebbe bisogno di una scuola che faccia emergere le potenzialità dei singoli; che piuttosto che stimolare gli studenti a eccellere indistintamente in tutte le attività sappia individuare le unicità e valorizzare le inclinazioni di tutti; una scuola che possa generare adulti appagati da ciò che fanno, capaci di riconoscere i propri talenti e ambizioni, ma in grado anche di trovare negli altri compagni e collaboratori, piuttosto che accaniti competitor.