Quelli che gridavano onestà continuano a fare regali alla mafia

È il 9 agosto del 2017, siamo sulla statale Sp 272, nei pressi di San Marco in Lamis, un paese di 13mila abitanti nel foggiano. Quattro persone, tra cui il presunto boss Mario Luciano Romito, di Manfredonia, e suo cognato Matteo De Palma, vengono uccisi in un agguato. Secondo gli investigatori, l’obiettivo era proprio Romito, colpito per essersi contrapposto al clan dei Libergolis, nella cosiddetta faida del Gargano. Insieme a loro muoiono anche i fratelli Luigi e Aurelio Luciani, due contadini, colpevoli solo di essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Quello stesso giorno, Matteo Salvini, allora all’opposizione, scrive indignato in un post: “Ennesima strage di mafia sul Gargano, in Puglia. 17 morti dall’inizio dell’anno. E il governo che fa? Niente. Esercito per le strade del Gargano, confische e controlli, pugno di ferro. O lo Stato è complice?”

Matteo Salvini

Siamo nel maggio del 2018, e il contratto di governo, a firma dei due partiti incaricati di formare l’esecutivo, Lega e M5S, contiene un paragrafo che si ricollega a quell’agosto dell’anno prima e a tutti quei giorni che nella storia di questo Paese sono stati macchiati dal sangue degli omicidi di mafia: 69 parole vaghe che riassumono l’impegno del nuovo governo a combattere le organizzazioni di tipo mafioso. Tra queste, le seguenti: “Bisogna potenziare gli strumenti normativi e amministrativi volti al contrasto della criminalità organizzata, con particolare riferimento alle condotte caratterizzate dallo scambio politico mafioso.” In che modo e verso quale direzione non è chiaro.

E infatti sono passati quattro mesi. I partiti che prima erano all’opposizione ora sono al governo – compreso quel Salvini che gridava alla complicità dello Stato – e occupano la maggioranza dei seggi in parlamento. Il 24 ottobre il Senato vota una riforma proprio dell’articolo 416ter del Codice penale, che inquadra e stabilisce le pene per il voto di scambio politico-mafioso. Mattia Anzaldi di Riparte il futuro, nata come campagna di Libera e ora organizzazione no profit a sé stante, ci racconta come – a differenza dell’ultima volta che una simile, perfettibile riforma è passata, nel 2014 – questa volta non sia stata richiesta alcuna consulenza. Non solo non è stata istituita una nuova commissione Antimafia – ancora oggi, a quattro mesi dall’insediamento del governo – ma non sono nemmeno stati interpellati i membri di quella vecchia.

“All’indomani delle due sentenze dirompenti di Palermo sulla trattativa Stato-mafia e di Caltanissetta sui depistaggi di Stato sulla strage Borsellino,” racconta Antonio Ingroia, “ho proposto l’istituzione di una commissione d’Inchiesta ‘mista’ fra membri del parlamento, esperti extraparlamentari e rappresentanti delle associazioni dei familiari delle vittime. Ho incontrato anche il presidente della Camera, Roberto Fico, che ha apprezzato e detto di condividere l’idea, ma intanto sono passati mesi e nulla è accaduto. Nessuno ha raccolto la proposta. Ripeto e mi domando: sono questi il governo e il parlamento del cambiamento?”

Antonio Ingroia

Il relatore della riforma, passata al Senato grazie al pieno supporto della maggioranza e che presto arriverà alla Camera, è Mario Michele Giarrusso. Esponente del M5S, è – per la cronaca – l’ex avvocato che aveva fatto scoppiare una crisi diplomatica per aver accusato il governo di Malta di averlo nominato “persona non gradita”, causandone l’ingiusta espulsione dalla delegazione Antimafia che, all’indomani dell’omicidio di Daphne Caruana Galizia, si è recata sull’isola. Hanno smentito, nell’ordine: il governo di Malta, Rosy Bindi, a capo della delegazione, e persino il M5S.

Il giorno dell’approvazione, Giarrusso ha dichiarato: “Abbiamo spezzato la catena tra crimine organizzato e politica.” I suoi toni entusiasti sono stati subito smorzati dai comunicati delle organizzazioni che si occupano del tema da parecchio tempo, come Riparte il futuro, Libera e Avviso Pubblico. Secondo Mattia Anzaldi, i punti critici della riforma sono diversi. Prima di tutto, ci sono due buone ragioni per credere che la riforma sarà bocciata dalla Corte costituzionale. Infatti, seppure l’aumento delle pene sia positivo, la nuova normativa viola il principio costituzionale della proporzionalità: l’articolo 416ter infatti, che si considera secondario rispetto al 416bis, non può prevedere pene superiori a quest’ultimo. Dunque, per aumentare gli anni di carcere previsti per chi si macchi del reato di voto di scambio era prima necessario fare lo stesso con quelle previste dal reato di associazione di tipo mafioso. Una necessità che forse sarebbe emersa se solo fossero stati chiamati a raccolta giuristi ed esperti sul tema. In secondo luogo, un altro principio fondamentale che rischia di essere violato è quello della tassatività. La Carta prevede infatti che il cittadino debba sapere esattamente in cosa consiste il reato, ma una norma troppo generale e vaga, come questa, rischia di non fornire tale garanzia, e dunque di risultare incostituzionale.

Oltre all’evidente rischio di bocciatura da parte dei giudici della Corte, il problema più grande della riforma del governo giallo verde è il fatto che essa sposta l’attenzione dal metodo, ovvero quello mafioso, al soggetto: attraverso l’inserimento di tre sole parole sono infatti riusciti a rendere la legge inapplicabile. La norma prevede ora che la provenienza mafiosa del soggetto che propone lo scambio debba essere nota al politico che lo accetta. Una simile prova è praticamente impossibile da produrre in sede di processo. Inoltre, non si capisce se questo implichi o meno che il soggetto in questione debba aver ricevuto una condanna con sentenza passata in giudicato per 416bis affinché si possa ragionevolmente dedurre che il politico sapesse della sua condotta criminale – e in uno Stato di Diritto, questo dovrebbe essere l’unico parametro per stabilire la colpevolezza di qualcuno. Anche secondo il sostituto procuratore Nico Gozzo, la norma rischia di “favorire la mafia e i politici che scendono a patto con i clan,” in quanto, affinché si riscontri il reato, “il politico deve interfacciarsi con chi appartiene al sodalizio. Ma in termini penali l’appartenenza implica un vincolo interno se non addirittura una condanna. E, dunque, c’è il rischio di una interpretazione troppo stretta.”

Nico Gozzo

Questo del 416ter non è il primo scivolone – forse volontario, forse dettato dalla sciatteria o forse ancora dall’arroganza di chi crede di non aver bisogno di aiuto – del governo Cinque Stelle-Lega. A inizio ottobre, con l’emanazione del decreto Genova hanno previsto “la deroga a tutte le norme extrapenali,” compreso il Codice antimafia. Su un’opera pubblica di tali dimensioni, nel settore dell’edilizia – il 25% delle aziende confiscate al Nord per mafia lavoravano nelle costruzioni – questo non rappresenta solo un pericolo per la legalità, ma anche per i genovesi stessi. “Non ritengo di dover sottolineare i rischi insiti in tale omissione,” ha spiegato il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, “Soprattutto perché vi sono molte attività connesse alla ricostruzione (dal movimento terra allo smaltimento dei rifiuti, ad esempio) in cui le imprese mafiose detengono purtroppo un indiscutibile know how.” E sempre nello stesso decreto per Genova il governo ha previsto l’aumento del livello legale di sostanze inquinanti che è possibile sversare nell’ambiente attraverso i fanghi di scarto delle aziende: anche questa volta si è forse voluto ignorare che nel 2017 abbiamo registrato il record di inchieste e arresti per crimini contro l’ambiente e che il giro di affari delle ecomafie cresce 4 volte più in fretta del Pil italiano.

Con in decreto Salvini poi, il governo ha voluto spuntare la lama anche a un altro degli strumenti storici della lotta alle mafie, quello che porta il nome di Pio La Torre, il parlamentare che perse la vita proprio per il suo impegno nella promozione di una legge che toccasse le mafie lì Dove erano più vulnerabili: il portafogli. La legge Rognoni-La Torre prevede infatti la confisca e il riuso dei beni confiscati ai mafiosi e, dal 1996 a oggi, ha trasformato le proprietà illecite in scuole, case di accoglienza, comunità di recupero, attività che danno lavoro e promuovono la cultura della legalità. Il 7 ottobre 2018, è passato al senato il dl Sicurezza, che all’articolo 36 modifica la normativa in merito alla razionalizzazione delle procedure di gestione dei beni confiscati, permettendo anche ai privati di partecipare a quella che diventa a tutti gli effetti un’asta pubblica. Questo significa rendere infinitamente più semplice per un mafioso rientrare in possesso di ciò che aveva precedentemente acquistato tramite proventi illeciti. Ovviamente nel decreto è scritto che l’acquirente non può essere condannato per 416bis, né può essere un parente o un amico. Ma anche in questo caso: quanto può essere semplice provare che un prestanome abbia comprato il bene sotto pagamento o minaccia di un mafioso? Perché rendere le cose più complesse di quanto non lo siano già?

Raffaele Cantone

E quindi assistiamo giornalmente allo spettacolo dell’incoerenza giallo-verde. Da un lato le esternazioni di indignazione di Salvini e Di Maio contro l’Europa cattiva che condanna l’Italia per aver inflitto una pena inumana a Bernardo Provenzano – i vicepremier fingono peraltro di ignorare che la Corte europea dei diritti dell’uomo non ha niente a che vedere con la Corte di Giustizia europea, e quindi con l’Unione. Dall’altro una riforma che distrugge uno degli istituti giudiziari più utili contro il potere mafioso, su cui si fonda il più antico e pericoloso legame tra mafie e politica, il voto di scambio. Oppure la promessa di abbattimento del tetto al contante, un regalo con tanto di fiocchetto alle organizzazioni che riciclano denaro, oltre che ai normali evasori. Per non parlare poi delle contraddizioni che emergono dalle inchieste giornalistiche e giudiziarie che hanno individuato inquietanti legami tra la Lega e l’organizzazione mafiosa più potente del mondo, la ‘Ndrangheta, originaria di una regione che solo qualche anno fa Salvini avrebbe probabilmente cancellato dalla cartina politica del Paese.

Luigi Di Maio

Tra i documenti raccolti nell’inchiesta “Infinito” della Dda di Reggio Calabria – considerata la più grande mai condotta ai danni dell’organizzazione calabrese – c’è un video in cui si vede l’allora assessore leghista alla provincia di Pavia, Angelo Ciocca – sì, quello della scarpa made in Italy “spalmata” sui documenti di Moscovici – incontrare il boss Pino Neri, membro della locale di ‘Ndrangheta pavese, condannato in Cassazione a 18 anni per associazione mafiosa. Il tema degli incontri, secondo gli inquirenti, riguardava proprio i pacchetti di voti da destinare a un candidato gradito all’organizzazione mafiosa. Certo, Ciocca non è stato indagato e non possiamo sapere chi abbia cercato chi e in cambio di cosa, ma questo dimostra proprio che puntare sulla dimostrazione della consapevolezza da parte del politico dell’appartenenza mafiosa di chi lo contatta significa rendere impossibile il lavoro degli inquirenti. La maggior parte dei processi di voto di scambio si apre con l’imputato che afferma di non conoscere quel tizio che gli ha promesso voti in cambio di favori, che in campagna elettorale si stringono molte mani, che lui non poteva sapere. Lo stesso Ciocca si è difeso dicendo che, “Ahimè, [Pino Neri] non aveva scritto ‘‘Ndrangheta’ in faccia” e che, anzi, i risultati dell’inchiesta Crimine Infinito – che ha impegnato magistrati e pm di tutta Italia per decenni – sarebbero merito dell’indirizzo politico dettato dal leghista Roberto Maroni, allora ministro dell’Interno. Uno che ha negato fino all’ultimo anche solo l’esistenza della mafia al Nord.

Roberto Maroni

È difficile, molto difficile dimostrare l’effettiva consapevolezza del politico in oggetto; e se è giusto che in un sistema garantista non si condanni chi non è nemmeno indagato, o chi dopo un processo risulta innocente, resta però necessaria la distinzione tra garantismo e opportunità politica. Di episodi quantomeno inopportuni ce ne sono diversi, sia per la Lega, che per il M5S. Come quel candidato reggino arrestato per ‘Ndrangheta o l’attivista rinnegato che ha avuto la stessa sorte. Per non parlare poi delle bizzarre uscite della mente del M5S, Beppe Grillo: “La mafia non ha mai strangolato il proprio cliente [come hanno fatto i partiti], la mafia prende il pizzo, al massimo il 10%…” oppure “La mafia non metteva bombe nei musei o uccideva i bambini nell’acido. La mafia aveva una sua morale”. Claudio Fava, figlio di Giuseppe, il fondatore del giornale I Siciliani, ucciso proprio per i contenuti scomodi che pubblicava, ha rimproverato proprio il M5S per non aver parlato a sufficienza dell’argomento durante la campagna elettorale in Sicilia, dove ha fatto il boom di voti. I partiti oggi all’opposizione non sono esenti da simili esempi, ma la grossa differenza è che la Lega è cresciuta sull’idea che il popolo del Nord fosse migliore, più onesto e integro di quello del Sud, e i Cinque Stelle sull’idea che loro fossero semplicemente meglio di qualsiasi altro essere umano che abbia mai militato in politica.

Beppe Grillo
Alessandro Di Battista

Ma se la mafia ti “fa schifo”, come dichiara a ogni piè sospinto il ministro dell’Interno, o se citi tronfio in diretta tv chi diceva che “la mafia è una montagna di merda”, come amava fare Alessandro Di Battista prima di migrare al momento opportuno, perché poi quando sei al governo e metti mano a una normativa fondamentale per il contrasto alle organizzazioni mafiose, lo fai senza consultare nessuno? Perché non ascolti chi ti sta dicendo che, forse, non hai fatto proprio un buon lavoro? Forse per sciatteria, forse per l’arroganza di chi crede di non aver bisogno di aiuto. O forse per volontà.

Segui Antonella su The Vision | Facebook