In Italia sembra impossibile essere mamma ed essere indipendente. Ciò a causa dei pregiudizi retrogradi che gravitano tuttora intorno alla definizione del ruolo materno e del sistema assistenziale del nostro Paese – che deriva anche dall’instabilità e dalla miopia della classe dirigente. Se scegli di diventare mamma in Italia dovresti sapere che potresti perdere il lavoro, magari senza trovarne un altro, o al contrario potresti essere costretta a passare pochissimo tempo con tuo figlio per non perderlo quel lavoro, subire mobbing dalle colleghe che ti ritengono una privilegiata o dai superiori che ti ritengono un peso, o una parassita, potresti non rimetterti mai fisicamente dalla gravidanza e dal parto (magari dopo un’esperienza di violenza ostetrica) perché nessuno te ne dà il tempo, potresti soffrire di depressione ed essere colpevolizzata per questo, potresti perdere tutte le tue amicizie e conoscenze e – condizionali a parte – una delle poche certezze che ti rimarranno sarà di essere costantemente giudicata in ogni tua scelta, in ogni tua azione quotidiana, anche da chi di bambini e maternità non ne sa niente. Non solo: il tuo stipendio (già in partenza più basso di un uomo) potrebbe non garantirti la possibilità di vivere decorosamente, figuriamoci pagare qualche attività extra per te stessa, o anche solo le spese per il nido, e non parliamone se poi hai deciso di vivere da sola o se ti separi dal tuo compagno o marito.
Se non avessi abbastanza soldi per una tata affidabile potresti chiedere aiuto ai parenti, sempre che vivano nella stessa città e abbiano la possibilità e il tempo di prendersi cura ogni tanto del nipote, ma anche in questo caso è possibile che ti verrà fatto pesare o rinfacciato alla prima occasione. Un rapporto del genere rappresenta un legame di dipendenza, e non va dato per scontato, essendo comunque un piccolo o grande sacrificio non sempre dovuto. Mettiamola così, in Italia, se scegli di diventare madre devi per forza esercitarti a chiedere, scendere a compromessi e imparare a prenderti quello ti serve per non esauriti e sopravvivere, a qualsiasi costo, senza curarti dell’opinione altrui, che ti vorrebbe inchiodata ai fornelli con due bambini in braccio, la scoliosi, i capelli sfatti (la vanità è un vizio) e magari un altro pupo in arrivo o aggrappato alle gambe, visto che le uniche famiglie che ricevono un aiuto tangibile dallo Stato sembrano essere quelle numerose.
Questi scenari vengono raccontati bene nel libro a cura di Paola Setti Non è un paese per mamme (All Around), dove l’autrice ha raccolto diverse testimonianze – per forza di cose anonime. Perché le donne, in Italia, se parlano, se denunciano, ci rimettono, vengono punite, discriminate, e se sei mamma non sei solo responsabile di te stessa, quindi meglio pensarci due volte. Partendo da questa situazione non c’è da stupirsi dunque se i dati Istat riportano nel 2018 un calo di 18mila nascite rispetto all’anno precedente e di circa 140mila rispetto al 2008. In particolare si riduce il numero dei primi figli, dei figli di genitori di nazionalità italiana e di coppie sposate e si riscontra al contrario un progressivo aumento dell’età delle primipare. Diventare mamme nel nostro Paese significa ancora abdicare alla propria libertà. E per molte persone – come biasimarle – non ne vale la pena. Se una donna è abituata a fare tutto da sola, senza chiedere aiuto a nessuno, è molto probabile che una volta diventata mamma debba scendere a compromessi – che possono essere anche molto dolorosi, perché appaiono come rinunce e passi indietro rispetto a ciò che si è faticosamente conquistato. Eppure ne va della propria sanità mentale, del rapporto che si instaura col proprio bambino e della propria felicità. Provate a non dormire per più di due o tre ore di fila per due anni e ne riparliamo. Ma com’è stato detto recentemente sul vertical Parenting del New York Times, i genitori – e le mamme in particolare – non sono tanto esauriti solo per l’assenza di sonno. Presto o tardi, infatti, anche i bambini più difficili iniziano a dormire, quello che snerva i genitori sembra essere l’ansia di non riuscire a fare tutto ciò che vorrebbero fare nel tempo che gli resta a disposizione, la “time pressure”, e dalla mancanza di una parentesi di silenzio in cui pensare solo ed esclusivamente a se stessi, o ancora meglio non pensare a niente, quello che viene chiamato “me time” e che secondo una ricerca del 2014 si aggira intorno a poco più di un quarto d’ora al giorno. Le mamme sono quelle che soffrono di più questa mancanza, perché ancora oggi sono loro a occuparsi della maggior parte delle cose che gravitano intorno alla crescita di un bambino e all’organizzazione della vita in comune e hanno la tendenza al multitasking, abitudine che a lungo andare finisce con l’esaurirle. E col secondo figlio, anche se molti genitori cercano di convincersi del contrario, è dimostrato da studi scientifici che le cose non possono che peggiorare.
Sempre secondo le rilevazioni Istat il tasso di occupazione delle madri di età compresa tra i 25 e i 54 anni è del 57%, a fronte dell’89,3% dei padri; quello delle donne senza figli coabitanti è invece del 72,1%. Inoltre risulta che l’11% delle donne con almeno un figlio non abbia mai lavorato per seguire la famiglia, il 3,7% rispetto alla media europea, e questa scelta risulta spesso tutt’altro che serena. E come al solito c’è un grande divario tra Nord e Sud. “Nel 2018,” dichiara Setti, “le donne che hanno dato le dimissioni sono state 30.672, la maggior parte per l’impossibilità di conciliare lavoro e figli. Quelle che restano in azienda, spesso rinunciano alla prole. Il 57% delle dirigenti, infatti, non ha figli, contro il 25% dei colleghi. In Italia, scrive Setti, lo stato dà solo il 2% del Pil alle famiglie, contro il 4% della Francia ad esempio. Ma allo stato fa comodo avere le donne a casa, perché creare asili e case di riposo costa, mentre il lavoro di cura casalingo è gratuito”. Le donne hanno vinto diverse battaglie per la parità, ma a ben vedere questa è una parità che si inserisce a pieno nei confini del sistema patriarcale, e che ancora una volta le discrimina.
Se ci si sente schiacciate, annichilite nella nostra personalità, frustrate per non riuscire a mantenere un ruolo sociale e per non fare neanche quel minimo che ci servirebbe per mantenere un atteggiamento positivo nei confronti dell’esistenza, diventa molto difficile riuscire a crescere sufficientemente bene un figlio. Così in tante vivono periodi di forte depressione, sindrome dell’impostore, insicurezza, che trasforma un’esperienza che potrebbe essere di profondo arricchimento in un vero e proprio incubo da cui è impossibile uscire. Nell’opinione comune, però, la madre, dal momento che ha scelto di creare una nuova vita, deve rinunciare a tutto, pena il giudizio negativo di chi la circonda. Tanto che se vuoi farti una doccia, senza doverti contorcere sotto l’acqua in buffe posizioni cantando come un juke box per intrattenere il tuo piccolo per evitare che pianga disperatamente giocandosi così fin dall’inizio della sua vita l’equilibrio chimico ormonale che ne garantirà la futura felicità – ma anche semplicemente per non dover sopportare costantemente il suo pianto – o andare a fare un allenamento per rimetterti in forma, vieni considerata un’egoista. Insegnando yoga prenatale e postnatale ho conosciuto diverse donne che si sono lasciate convincere, dai compagni, dalla famiglia e a volte da medici e ostetriche sconsiderate, che pisciarsi addosso dopo una gravidanza o un parto difficile non fosse un problema. Invece è un problema enorme. Da un pavimento pelvico indebolito, infatti, nel tempo possono derivare malesseri e patologie anche molto più gravi, e soprattutto pisciarsi addosso mina profondamente la vita di una donna, la fa sentire a disagio e debole, poco attraente e dal punto di vista psicologico ha riscontri quindi molto invasivi. Eppure anche questo, come molti altri problemi che gravitano intorno alla maternità, potrebbe essere evitabile o facilmente risolvibile con un’opera di sensibilizzazione e assistenza – che le istituzioni però non fanno niente per promuovere e anzi, a quanto mi è stato riferito da diverse ostetriche ospedaliere, viene ancora spesso ostacolato dai medici e ridicolizzato.
Per le mamme non c’è mai tempo. Se anche la loro salute e la loro igiene dunque può aspettare, figuriamoci se poi sentono il bisogno di dedicare tempo ad attività ritenute ancora meno necessarie, come ad esempio leggere un libro, o prendersi una sera per uscire a cena con le amiche (le poche rimaste), figuriamoci dedicarsi a un’arte o a un hobby. Diversi studi dimostrano infatti che le madri hanno a disposizione meno tempo libero rispetto ai padri e che il loro tempo libero è comunque frammentato (così come il loro sonno). Da scrittrice, ogni volta che rifletto su quest’ultimo tema, faccio molta fatica a non pensare a Virginia Woolf e alla sua famosa stanza tutta per sé, ma anche a Sylvia Plath e ad Anne Sexton, la seconda internata a causa della depressione seguita alla nascita della sua seconda figlia. In Italia le mamme non solo non hanno una stanza tutta per sé. In città come Milano per averla dovrebbero guadagnare almeno il doppio, e considerato il divario salariale sarebbe comunque difficile. Ma la verità è che una mamma sola a Milano farebbe fatica a permettersi anche un bilocale. E lasciare la città dove si ha il lavoro per un centro più piccolo comporta cambiare abitudini, scuola, aggiungere la fatica di fare la pendolare, magari rinunciare ai pochi legami che si sono mantenuti e magari fare un vero e proprio salto nel vuoto.
Un’altra cosa a cui penso è la storia di Raymond Carver, il famoso scrittore di racconti americano. Da qualche parte ho letto che ricordava la sua vita con la prima moglie e i suoi tre figli come un incubo perché non riusciva a scrivere, e per farlo doveva fare l’immenso sacrificio di esercitarsi sulle consegne del corso di scrittura creativa – su suggerimento della moglie, che per sostenerlo nella sua formazione ha rallentato i suoi studi – alla sera, in garage, dopo che i bambini erano stati messi a letto. Oggi, che sono mamma di una bambina di quasi due anni, quando penso alla dichiarazione di Raymond mi viene da ridere e penso che da questo punto di vista fosse un dilettante, proprio come i personaggi del suo primo libro, ormai diventato un cult per chiunque voglia dedicarsi alla scrittura. Mi piacerebbe sapere come si sentiva sua moglie, Maryann Burk, come se l’è cavata lei con quei tre figli da sola, se è riuscita a fare quello che desiderava, oltre a sostenere i desideri di suo marito, dimostrando più lungimiranza di lui nel suo talento, se era felice, non come madre, come essere umano. Ma qui la vox populi parla chiaro, la felicità di una madre deve risolversi nel frutto del suo utero. È questo il più grande pregiudizio che dobbiamo riuscire a scardinare. Non essere felice non significa non amare i propri figli. E la personalità di una donna, il suo spirito, non si può esaurire nell’unico archetipo materno.
Quando le madri chiedono aiuto la risposta che di solito arriva, da uomini e donne, è sempre quella: lo hai voluto tu. Che è una sorta di parafrasi del “te lo sei cercata”. Questa espressione nasconde già un insito giudizio della posizione e delle capacità della madre, come se cinque minuti di solitudine al giorno fossero un capriccio, un vizio, un segno di debolezza. O peggio: come se non fosse felice di passare il tempo – tutto il suo tempo – col suo bambino. La cosa però è diversa, un conto è passare insieme del tempo di qualità, un conto è annullarsi finendo per ridursi ad automi dai capelli unti e le occhiaie da panda che si esprimono esclusivamente con onomatopee e il cui climax della giornata è farsi tirare l’omogeneizzato in testa avendo perso apparentemente la capacità di organizzare un pensiero di senso compiuto a causa della stanchezza. Parlando con diverse donne ho ricevuto da tutte la conferma che l’occasione di potersi prendere un po’ di tempo, per quanto poco, per se stesse, da dedicare ad attività o anche solo al riposo, ha fatto sì che anche il tempo che poi passavano coi loro figli fosse migliore e più appagante per entrambi. In Italia però le mamme si sentono così incastrate nel ruolo di madri che alcune addirittura si fiondano al lavoro, che magari prima odiavano, come fosse una boccata d’aria. Altre finiscono invece per costruirsi con minuzia la loro stessa prigione. Per lo stesso motivo, quando i figli crescono e iniziano ad allontanarsi si ritrovano completamente svuotate, come se l’essere madri avesse completamente assorbito la loro identità. Non sanno più chi sono, se è rimasto qualcosa di loro prima che diventassero mamme. Ultimo ma non ultimo è lo stereotipo della madre perfetta, che la psicanalisi contemporanea cerca da tempo di smantellare attraverso il concetto di “madre sufficientemente buona”, eppure sembra molto difficile liberare la coscienza collettiva e le neomadri da questo fardello.
Per farlo è sempre più necessario scardinare questa narrazione tossica della maternità, che sembra rubare l’estetica dai salotti pomeridiani televisivi, diffondendo storie reali. Per fortuna alcune autrici lo stanno iniziando a fare, usando diversi mezzi. Una serie che sbriciola con un’ironia dolorosa e sfatando miti di genere lo stereotipo della madre perfetta – truccata e pettinata, con gli outfit coordinati, sempre sorridente insieme al suo bambino, che trova il tempo per gli aperitivi con le amiche e soprattutto senza un filo di occhiaie – è l’australiana The Letdown. Coprodotta da Netflix e scritta da Sarah Scheller ed Alison Bell, che la interpreta come protagonista, porta alla luce tutta la complessità, la paura e la frustrazione del diventare madre oggi, analizzando diverse figure materne partendo dal racconto di un gruppo di sostegno psicologico per neomamme, che se all’inizio viene visto con sufficienza alla fine si rivela essere una chiave di svolta fondamentale. Poi ci sono i libri che raccolgono altrettante esperienze, non idealizzate e se vogliamo non politicamente corrette, come quello a cura di Paola Setti; o Svegliami a mezzanotte, il racconto lucido e raffinato del tentato suicidio e della depressione post partum trascurata di Fuani Marino, uscito per Einaudi; o ancora il romanzo Baby Blues, di Elisa Albert tradotto da Gioia Guerzoni per Marsilio, che narra delle difficoltà del diventare madre e dell’incubo di riuscire a far convergere il proprio io precedente, le responsabilità che comporta la nascita di un figlio e l’emarginazione sociale che può derivarne; e infine Case vuote, il romanzo profondamente disturbante della scrittrice femminista Brenda Navarro in uscita per Giulio Perrone Editore, che distrugge ogni ipocrisia, retorica ed etichetta rassicurante e univoca legata alla maternità, raccontando di una maternità non desiderata e di una voluta a ogni costo. E di come queste “due donne si trovano ad affrontare condizioni ostili” come “conseguenza di un’omissione dello Stato, di qualsiasi Stato, che non rispetta i diritti delle donne”. “La mia storia [di finzione],” prosegue, “è ambientata in Messico, ma potrebbe essere ambientata in qualsiasi parte del mondo, perché i diritti delle donne non sono sempre garantiti”.
Le donne, infatti, oggi non si trovano solo a lottare quotidianamente per difendere il diritto all’aborto, ma devono lottare anche per il diritto alla maternità. Perché nel nostro Paese bigotto – così come in tanti altri – la donna è e dovrebbe essere prima di tutto madre, ma senza che venga sostenuta in alcun modo e senza che ne venga riconosciuto, nei fatti e non solo nelle parole, nemmeno in questo caso, il valore sociale. Le uniche a pagare quindi sono ancora una volta le donne, e pagano con la loro libertà, subendo un opprimente carico di lavoro di cura e organizzazione famigliare, con le enormi difficoltà sul campo lavorativo, i salari più bassi, le penalizzazioni di carriera, la mancanza di servizi di qualità per l’infanzia, che comunque nella maggior parte dei casi non vanno incontro alla flessibilità della vita contemporanea, senza tempo pieno nelle scuole, né welfare aziendale o accademico.
Oggi dunque sembra che facciano figli solo quelle donne che possono permetterselo economicamente, o quelle che per cultura o contesto sociale vengono indotte, convinte o costrette a rinunciare alla propria vita, quando in un sistema sano la maternità dovrebbe essere sostenuta e riconosciuta come un momento fondamentale non solo per la donna, ma per l’intero sistema, che dal rigenerarsi non può che trarre nuove energie, fondamentali per mantenere quella freschezza di pensiero e di prospettiva che naturalmente finisce per sclerotizzarsi col passare del tempo e che nei bambini è innata.