Nel suo discorso a Strasburgo, il presidente francese Emmanuel Macron ha sottolineato ancora una volta la volontà di salvare il progetto europeo. Ha parlato di uno scontro crescente tra la democrazia liberale e il nazionalismo autoritario, ricordando poi quanto fosse importante evitare di seguire l’esempio delle grandi potenze prima della Grande guerra. Sebbene sia evidente a tutti come il progetto europeo non abbia più una direzione precisa e non goda ormai di grande fiducia, l’ascesa graduale dell’identitarismo e i più recenti fallimenti dell’Unione sembrano disincentivare una qualsiasi reazione collettiva.
L’ironia di tutto questo è che dopo il referendum britannico del luglio 2016, la salita al potere di Macron è servita ad alimentare un senso di soddisfazione in Europa, interrompendo il ciclo di shock elettorali. I commentatori liberal, preoccupati dal voto per la Brexit, dalla vittoria di Trump e persino dal “No” incassato da Matteo Renzi, hanno ripreso coraggio con l’ascesa di Macron alle elezioni francesi dello scorso maggio, accolta come il segnale definitivo di un ritorno alla “normalità”.
Macron, però, non si è mai limitato a proporsi come un semplice candidato che avrebbe garantito la continuità. La sua nuova e appariscente piattaforma, En Marche!, si è aggiudicata un vasto supporto – simile a quello di cui un tempo godevano i partiti storici – promettendo non solo di difendere l’Europa, ma persino di rinnovarla. Un anno dopo la sua elezione, però, è ancora difficile capire che cosa intendesse. Persino affrontare i sindacati ferroviari francesi o la questione siriana sembra più semplice che trattare con i partner europei.
Guardando agli ultimi confronti elettorali, vediamo quanto sia debole la spinta alla riforma dell’Europa negli altri grandi Stati membri. Né la campagna elettorale italiana né quella tedesca si sono concentrate su una possibile riforma delle istituzioni europee. La crisi dei rifugiati e la moneta unica rimangono politicamente centrali, ma l’Europa viene sempre più trattata come un complesso di regole imposte dall’esterno, piuttosto che come un work-in-progress collettivo. Le proposte di riforma di Macron parlano di “restituire l’Europa ai suoi cittadini”, ma sembrano un elenco di iniziative sterili, tecniche. Il discorso di oggi non ha fatto che menzionare un’altra volta le iniziative proposte a settembre, che spaziavano dall’Intelligence unica europea a una tassa sul carbonio e una sulle transazioni finanziarie. Si è anche parlato di temi più tradizionali, come la difesa e le iniziative per la politica migratoria.
Tali proposte non sono esattamente lo specchio per allodole in grado di spostare in modo radicale l’opinione dei lettori. Si potrebbe dire lo stesso del piano per far sì che una parte dei seggi del Parlamento europeo siano eletti tramite liste transnazionali. Il problema che l’Unione si trova oggi ad affrontare non è che gli elettori non si sentono europei (come nel caso britannico), ma che ci sono chiare e sempre maggiori divergenze tra gli Stati membri. Questo è palese, soprattutto se prendiamo in considerazione la questione della moneta unica. Macron vorrebbe che l’asse Francia-Germania guidasse il progetto di riforma dell’Europa. Ma la prima economia dell’Unione e altri Paesi settentrionali hanno già respinto la sua richiesta di budget condivisi e di un rafforzamento dei meccanismi di bailout. Il capo della Bundesbank ha già rifiutato la possibilità di una solidarietà su scala continentale finanziata dai contribuenti tedeschi. I risultati elettorali in ogni nazione suggeriscono come l’Eurozona abbia fallito nel tentativo di unire il continente. Ciononostante, le politiche dei singoli Paesi portano a interpretazioni opposte: a una parte il presidente dell’eurogruppo olandese Jeroen Dijsselbloem, in un’intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha fatto eco alla posizione tedesca dichiarando che i Paesi dell’Europa meridionale sprecavano soldi in “donne e alcool”, dall’altra le elezioni italiane sono state dominate dall’idea che le regole dell’Eurozona stessero soffocando l’investimento pubblico.
La difficoltà nel riformare l’Unione Europea riflette la dicotomia tra gli intenti iniziali dei suoi trattati istitutivi e i sentimenti degli Stati membri, esplicitate dai risultati elettorali. E altrettanto divergenti sembrano essere le necessità delle singole nazioni. Se c’è chi ritiene eccessiva la sottomissione dei propri governi nei confronti delle richieste europee, altri vedono le stesse richieste in modo diametralmente opposto. Per esempio, la moneta unica che fa aumentare il costo del lavoro in Italia, attirando malcontento, è la stessa che blocca l’inflazione salariale in Germania.
In tal senso gli appelli limitati di Macron a una riforma dell’Eurozona sono più che altro un tentativo di introdurre misure per la gestione della crisi, piuttosto che una rivoluzione della logica di base della moneta unica. Le riforme tecniche proposte dal presidente francese non fanno nulla per dare una risposta alla questione fondamentale della sovranità democratica.
Oggi ci sono sempre più segnali di un crescente euroscetticismo da parte degli elettori più giovani, cosa che desta preoccupazione per il destino del progetto europeo. Quando è stata fondata, venticinque anni fa, l’Unione Europea si trovava in un momento storico piuttosto diverso da quello attuale. Le istituzioni create nel 1993 volevano l’integrazione sicura di una Germania che era appena stata riunificata, seguita dai Paesi del Blocco Orientale. Quel momento di democratizzazione sembra ormai un lontano ricordo e, cosa ancor peggiore, i trattati stilati allora sono validi ancora oggi. La crisi ha reso evidenti le debolezze dell’Unione, ma non è riuscita a produrre una prospettiva di cambiamento realizzabile.
Non sono solo le problematiche economiche a mettere seriamente in questione il progetto, ma anche il venir meno della missione unificatrice che ha dato inizialmente forma all’UE. La crisi dei rifugiati, le misure antiterrorismo e la chiusura di Schengen – anche sotto l’amministrazione Macron – non trasmettono esattamente uno spirito internazionalista. Persino i partiti più progressisti hanno adottato una retorica centrata sui temi di migrazioni e sicurezza, che fino a poco tempo fa restava prerogativa dei loro rivali euroscettici.
In questo senso, anche la situazione italiana manifesta il malessere generale dell’Europa, e non è quindi un’eccezione. Partiti come la Lega e il Movimento Cinque Stelle esprimono lo scontento nei confronti dell’ordine europeo, senza però promettere né una rottura né una revisione radicale dell’Unione. E nonostante il suo piano per portare il gruppo En Marche! su scala continentale, neanche Macron sta proponendo un progetto fondamentalmente diverso per un nuovo funzionamento dell’Unione. Sembra inevitabile, a questo punto, che crescano i voti di protesta mossi da spinte identitarie.
L’euforia europeista scaturita dalla vittoria di Macron si sta rivelando più che eccessiva: certo, il liberalismo francese ne ha tratto beneficio, ma i voti per le estreme destre hanno raggiunto picchi storici; i giovani e i disoccupati sono ancora meno intenzionati a investire le proprie speranze nei partiti di centro, sebbene le alternative siano poche.
Il progetto europeo non può adagiarsi per sempre sul ricordo della seconda guerra mondiale o addirittura sull’ambizione e l’ottimismo che hanno seguito la caduta del Muro di Berlino. Eppure, guardando alle politiche elettorali nazionali, diventa chiaro come pochi leader siano disposti a sacrificare gli interessi interni del proprio Paese in vista di un necessario cambiamento strutturale dell’Unione. L’attuale Eurozona e l’ordine europeo sembrano destinati a sopravvivere per forza di inerzia, almeno finché non arriverà la prossima crisi.