È il 1955 quando viene pubblicato Paolo il caldo di Vitaliano Brancati, romanzo postumo e incompleto degli ultimi due capitoli. Come già nel Don Giovanni di Sicilia e nel Bell’Antonio, anche in quest’opera lo scrittore siciliano riflette sul gallismo, che consiste – come lui stesso annota in una postilla – “nel dare a intendere di essere in possesso di una straordinaria forza virile, spesso facendosi onore con una donna”. Qui protagonista è Paolo Castorini, il perfetto masculu per la società patriarcale siciliana e a differenza dell’impotente Antonio Mangano – altro famoso personaggio brancatiano – è in piena salute, scoppia di forza virile e, anzi, ha un rapporto sessuale dopo l’altro.
Come ogni “vero maschio” che si rispetti, Paolo vive la sua prima esperienza con una donna assai più grande, una serva di nome Giovanna, che però abbandona subito, consapevole che non potrà mai essere “moglie di nessuno” data la sua umile condizione. La donna viene prima sfruttata come strumento di iniziazione sessuale e poi, esaurito il suo breve compito, messa da parte. Da questo momento in poi, tuttavia, Paolo dimostra di essere un vero e proprio erotomane: il gallismo diventa una malattia debilitante e così, anche nel momento in cui il protagonista cerca di inseguire uno stile di vita più equilibrato e regolare, dedicandosi all’arte e sposando Caterina, finisce per sentire “l’ala della stupidità sfiorargli in cervello”.
La “smania” di dimostrare la propria forza virile nasce, per Brancati, durante l’età giovanile. Non a caso, il protagonista viene presentato con un episodio singolare ma sintomatico, cioè intento a masturbarsi insieme ad altri compagni di scuola, attraverso un rito quasi tribale: “Disposti in riga, l’uno accanto all’altro, a gambe larghe come un plotone d’esecuzione, essi avevano fatto di un vizio intimo solitario uno sport insipido, e cercavano di battersi a vicenda in celerità raccogliendosi in una concentrazione che corrugava penosamente le loro fronti piene di acni e riuscendo a malapena a tener ferme nella fantasia le immagini necessarie al loro giuoco”. Un racconto simile è tutt’altro che di secondaria importanza. In poche righe, infatti, Brancati mostra come, fin dalla giovane età, la mascolinità venga sancita per via sociale attraverso continue e affannose dimostrazioni pubbliche di sé. Da vizio solitario, la masturbazione diventa sfida collettiva: uno sport certo “insipido” ma comunque inscritto nella dimensione militaresca del “plotone d’esecuzione” che certifica e rende oggettiva, davanti agli altri, la propria forza virile e permette l’appartenenza al gruppo dei “veri uomini”.
Un’iniziazione di questo tipo, vissuta però con tutt’altro spirito, è descritta anche in Camere separate, ultimo e più maturo romanzo di Pier Vittorio Tondelli, pubblicato nel 1989. In esso, lo scrittore racconta la storia di Leo, un giovane scrittore omosessuale, alter ego dello stesso Tondelli, alle prese con l’enorme dolore per la perdita del compagno Thomas, ma anche con una società che considera diverso e poco degno di attenzione tutto quello che non è incluso nei suoi parametri eteronormativi e patriarcali. La prova che il protagonista deve superare per ottenere la “patente di mascolinità” è quella di portare, insieme ad altri ragazzi, la statua della Madonna in spalla durante la festa patronale: “Aveva ricevuto un solo cambio lungo la durata del percorso […]. Si sforzava di tener duro vedendo che gli altri ragazzi stringevano i denti. Quando finalmente, in chiesa, lo sollevarono dal peso di quella effigie che per anni e anni avrebbe poi maledetto, non si sentì, come gli altri, fiero di avercela fatta ma profondamente umiliato, proprio ferito nell’intimo, per essere stato costretto a sopportare qualcosa contro la sua natura, per essere stato obbligato a dimostrare agli altri la cosa più stupida e insignificante di questo mondo, e cioè che lui era uguale a loro”.
Sostenere il peso della statua, mostrandosi forti e capaci di sopportare il dolore, diventa una dimostrazione pubblica di sé – ancora una volta, della propria virilità; una prova attoriale con tanto di pubblico – la comunità dei fedeli – pronto a dare un proprio giudizio. È una fatica, però, di cui subito dopo Leo si pente, cosciente che questi riti di passaggio socialmente riconosciuti non hanno – o meglio, non dovrebbero avere – alcun valore. Il carico delle aspettative maschile grava, tuttavia, su di lui anche quando si innamora di una ragazza, “la più bella del giro, la più alta, quella dagli occhi più azzurri”. Ancora adolescente, Leo “non la desiderava, perché non conosceva gli impulsi del corpo, eppure l’amava con un turbamento particolare”. Agli occhi del gruppo dei pari, però, un tale sentimento – spogliato dell’aspetto erotico e sessuale – nei confronti di una donna non può che apparire strano, una falla, un inceppamento del sistema naturale delle cose. Perciò, come una sorta di polizia di genere – attenta a valutare il livello di mascolinità dell’altro – gli altri ragazzi “lo disprezzavano, lo schernivano promettendogli che lo avrebbero spogliato per accertarsi in gruppo se lui fosse già uomo, cosa improbabile visto il suo aspetto da bambino, le guance imberbi, le ascelle glabre”. Dinanzi al peso delle aspettative maschili, Leo non riesce a reggere e così, quando la ragazza decide di fidanzarsi con il suo migliore amico, è felice e addirittura sollevato. “Non si disperò. Continuava ad amarla ma ora poteva nascostamente, da una posizione laterale”.
Questi due romanzi raccontano perfettamente come, all’interno di una società patriarcale e sessista, gli uomini siano spesso vittime di un canone di mascolinità che impone continue e potenzialmente infinite dimostrazioni di sé. Ma soprattutto, ci mostrano come l’adesione alle norme di genere avvenga fin dall’età infantile, quando il bambino è incoraggiato dai genitori, dai fratelli maggiori o dai compagni ad assumere comportamenti consoni al proprio sesso, a nascondere eventuali “segnali femminili” del proprio carattere, a praticare sport, giocare, vestirsi e addirittura parlare assecondando il canone imposto dalla società e non i desideri personali. Tali meccanismi sono anche più pericolosi e oppressivi nell’adolescenza. Infatti, se le donne mostrano la loro maturazione sessuale attraverso l’arrivo del primo ciclo mestruale, i maschi non hanno altro modo di dare prova del passaggio all’età adulta se non attraverso continue prestazioni virili. Vere e proprie verifiche d’identità, incessanti riti d’iniziazione molto spesso pericolosi. Lo stereotipo dell’uomo forte e coraggioso condanna soprattutto i più giovani a controllare le proprie emozioni, a soffrire in silenzio o, peggio, a reprimere quei sentimenti, come la tristezza, la paura, il dolore e l’affetto, che appaiono incoerenti rispetto a questo ideale maschile. La società patriarcale è riuscita a “biologizzare” persino il nostro mondo emotivo, convincendoci che l’interiorità sia una questione soltanto femminile, tracciando una linea di demarcazione fra ciò che va intimamente provato e mostrato e ciò che invece è giusto – e anzi “naturale” – nascondere se non si vuole apparire deboli.
Non deve stupirci, dunque, che l’inibizione dei sentimenti possa essere una seria causa, in età adolescenziale, di problemi come l’aggressività e l’autolesionismo, fino alle varie forme d’abuso di sostanze, come tabacco, alcool e droghe. Nel tentativo di manifestare le proprie qualità virili, sempre più ragazzi infatti adottano comportamenti pericolosi come sopportare il dolore fisico, praticare attività ad alto rischio, sport fondati sullo scontro fisico diretto, o superare i limiti di velocità – in tal senso, è impressionante il dato raccolto dall’ETSC nel 2021, secondo cui ben il 25% delle vittime della strada ha tra i 15 e i 30 anni ed è, nell’81% dei casi, costituito da uomini. Anche in fatto di salute mentale e fisica, molti dei problemi vissuti dal maschile sono strettamente connessi ai condizionamenti sociali e all’immagine che gli uomini vogliono dare di sé: rispetto alle donne, infatti, sono generalmente meno disposti ad ammettere di avere dei problemi psicologici, a intraprendere percorsi di psicoterapia, ad accettare cure mediche e a chiedere aiuto.
Nella società patriarcale anche l’alimentazione può far viaggiare informazioni circa il nostro ruolo sociale e definirci rispetto alla normata mascolinità tradizionale. Esistono – anche se la cosa può apparire assurda – cibi adatti agli uomini, perché in grado di renderli virili, e cibi, invece, “da femmine”. Fra questi ultimi troviamo la maggior parte degli alimenti che compongono una dieta sana: frutta, verdura, cereali, pesce e più in generale alimenti con pochi grassi. A questo stile alimentare i maschi preferiscono invece quello meno salutare costituito soprattutto da carne rossa e carni processate, oltre che da cibi grassi e bibite alcoliche o zuccherate. Come sia stato possibile trasformare la carne nell’alimento del “vero maschio” è presto detto. Da un lato, certamente, ciò ha a che fare con l’immagine virile del cacciatore, in grado di uccidere e sventrare animali per procurarsi il cibo per la propria famiglia; dall’altro, la carne è fin dall’antichità associata all’idea di forza per via del suo elevato valore biologico.
In questo senso, la mascolinità ha anche un forte impatto sull’ambiente. La dieta degli uomini causa il 40% delle emissioni in più rispetto a quello delle donne: colpa, certo, del fatto che i maschi consumino in media più cibo, ma anche e soprattutto delle loro abitudini alimentari a base di prodotti animali e carne rossa – il cui settore contribuisce da solo a oltre il 15% dei gas serra prodotti nel mondo. Alle scelte alimentari si affiancano, poi, anche altre prove: sempre più ricerche confermano infatti che gli uomini si impegnino molto meno in comportamenti per mitigare il cambiamento climatico perché associano ambientalismo, ansia climatica e scelte green a una dimensione femminile e quindi, ancora una volta, a una presunta fragilità – considerata come qualcosa di negativo. La diffidenza verso il cambiamento climatico può spingersi fino all’aperto negazionismo, inteso come un’espressione di protezione dell’identità di gruppo – di cui il patriarcato e la mascolinità tossica si nutrono da sempre.
Nella costruzione della virilità, un ruolo centrale è svolto – come abbiamo visto – dagli influssi familiari. Altrettanto vero è che lo stesso sistema sociale patriarcale promuove e ci inculca, fin dall’infanzia, un pensiero binario, che distingue in maniera netta e rigida le cose da uomini da quelle da donne, condannando come “innaturali” differenze, particolarità e, più in generale, tutto ciò che non segue il modello eterosessista. Basti pensare al modo in cui i negozi differenziano in reparti diversi i giochi d’infanzia sulla base del sesso; all’uso separato dei colori – il rosa colore “delle bambine” e il celeste “dei bambini”; e ai sempre più frequenti stereotipi di genere nei libri delle elementari. Come dovrebbe apparire chiaro, non c’è assolutamente niente di biologicamente femminile o maschile in un giocattolo o in un colore, né una regola per cui un papà non possa stirare e una mamma non possa leggere il giornale, eppure, continuiamo ancora ad accettare questi pregiudizi e abitudini sessiste come parte “naturale” delle cose, senza mai tentare di decostruirli o metterli in discussione.
L’immaginario maschile veicolato dalla virilità tradizionale va tutto a vantaggio di pochissimi uomini in cima alla piramide del potere che stabiliscono le regole del gioco ed è, all’opposto, estremamente dannoso per tutti gli altri, costretti a certificare costantemente l’immagine di sé. È perciò quantomai urgente riflettere sui rapporti di dominio nella società patriarcale e stimolare un dibattito sulle possibilità che abbiamo, come società, per arginare convenzioni e luoghi comuni e rendere gli uomini liberi da vincoli, gerarchie e competizioni. Se da un lato è arrivato il momento, per i maschi stessi, di prendere coscienza di avere un gran problema come genere e di riconoscere le proprie colpe e responsabilità, dall’altro è più che mai necessaria una costante sensibilizzazione sul tema attraverso, per esempio, scelte inclusive come quella di portare sullo schermo una famiglia con due mamme in Peppa Pig o una sincera amicizia fra due maschi nel film di animazione Disney-Pixar Luca. Una rappresentazione non stereotipata delle minoranze e delle categorie marginalizzate dai mass media e dalla legge permette non solo a queste di sentirsi parte della società, ma offre anche uno sguardo più ampio a tutti gli altri sulla varietà dell’essere umano, aiutando ciascuno di noi a liberarsi da pregiudizi e abitudini interiorizzate e discriminanti, che il tempo ha coperto sotto una patina di “naturalità”, educandoci a coltivare un pensiero inclusivo e stratificato.
Crescere senza pregiudizi di genere al momento è probabilmente ancora molto difficile, se non impossibile. Liberarsene, però, è l’unica scelta che oggi ci si offre a disposizione per essere più giusti e sereni e dar vita a una società realmente democratica.