Sono tre le componenti che figurano in tutte le definizioni più complete di atto terroristico: violenza, obiettivo politico, audience. Raymond Aron, filosofo e scienziato politico francese, così scriveva in Pace e guerra tra le nazioni, nel 1970: “Un’azione violenta è detta terroristica quando i suoi effetti psicologici sono sproporzionati rispetto ai suoi risultati puramente fisici,” fornendo così le fondamenta per le successive sistematizzazioni del concetto di terrorismo, che ora figura nel glossario del Dipartimento della Difesa americano, così come nella Direttiva del Consiglio europeo sulla lotta al terrorismo, del 15 marzo 2017.
Facendo una summa di tutte queste definizioni, un atto terroristico è così definibile: l’uso o la minaccia dell’uso di violenza – spesso motivato da convinzioni di tipo ideologico, religioso o politico – che mira a intimidire la popolazione e a costringere i governi e le società a perseguire obiettivi tendenzialmente di tipo politico. O a evitare di farlo.
Luca Traini, la mattina del 3 febbraio, ha sparato oltre venti colpi di pistola da un’auto in corsa contro i cittadini di Macerata, cercando deliberatamente di colpire persone di colore (secondo varie fonti, avrebbe più volte annunciato di andare “a sparare ai neri”). Ha ferito sei persone, cinque uomini e una donna, tutti originari dell’Africa subsahariana. Ha persino sparato contro la sede del Pd, sebbene questo partito non si sia distinto per una gestione particolarmente umanitaria dei flussi migratori, vedi il decreto Minniti-Orlando. Una volta bloccato, è sceso dalla macchina, si è avvolto nel tricolore, che aveva avuto la premura di portarsi dietro, ha fatto il saluto romano e ha declamato: “Viva l’Italia”. Abbiamo quindi l’elemento della violenza, l’obiettivo di intimidire la popolazione (il sindaco di Macerata Carancini ha indetto un coprifuoco, poi revocato in serata) e di spingere il governo a un giro di vite in materia di immigrazione, la chiara connotazione politica dei fatti, e, inevitabilmente, abbiamo un’audience: tutti coloro che si sono trovati a leggere ciò che è stato riportato in tempo reale dai media.
A livello di diritto italiano, l’articolo 270 sexies del codice penale stabilisce che “Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o a un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale […]”.
Se consideriamo la possibilità di emulazione degli atti di Traini un grave danno al Paese, allora sì, anche secondo il diritto italiano ciò che è accaduto a Macerata sarebbe un atto terroristico. Lo è, probabilmente, a livello di diritto comunitario. L’articolo 3 della Direttiva europea, infatti, include tra i reati di terrorismo gli attentati alla vita di una persona che possono causarne il decesso o gli attentati alla sua integrità fisica (paragrafo 1), mentre tra gli scopi degli stessi figurerebbero l’intimidazione grave della popolazione e la costrizione indebita dei poteri pubblici a compiere o ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto.
Un articolo del 23 giugno 2017 del Guardian titolava: “Perché l’Italia negli ultimi anni è stata risparmiata da attacchi terroristici di massa?”. Nel leggerlo tutti quanti abbiamo tirato un sospiro di sollievo, ci siamo tirati delle pacche sulle spalle per l’infallibilità dei nostri servizi segreti, delle nostre forze dell’ordine. Nel pezzo, Francesca Galli, assistente presso l’Università di Maastricht, faceva notare che in Italia, a differenza di altri Paesi europei, non abbiamo una popolazione di immigrati di seconda generazione abbastanza consistente, radicalizzata o potenzialmente radicalizzabile. Qui c’è una falla nel suo ragionamento, però. Perché un ragazzo musulmano non ha più possibilità di essere radicalizzato da un imam di quante non ne abbia un militante di Forza Nuova durante un comizio. Ed è un punto che sfugge a molte persone, quando si discute di atti estremistici.
Tutto il discorso sulla sicurezza nazionale, fin dall’11 settembre, si è concentrato sull’immagine di un nemico esterno, un “altro”, il cui volto poteva essere modificato a seconda delle contingenze politiche. L’individuazione di un nemico esterno è una tattica politica ormai consolidata, e dovrebbe avere la finalità di unire la popolazione contro questa presunta nemesi alloctona. Negli ultimi tempi non sta andando così. I politici che hanno capitalizzato sull’emergenza migratoria hanno giocato sulla retorica del mostro immigrato, puntando tutto sulla risposta emotiva dell’elettorato e lasciando che razionalità e prudenza passassero in secondo piano.
Tutto questo mentre le formazioni neofasciste venivano trattate coi guanti di velluto, dai media come dai politici. Perché democrazia è dialogo, inclusione. Altrimenti si rischia che la rabbia di tali movimenti fermenti ancora di più. Ha funzionato questa strategia? Chiediamolo a Enrico Mentana o a Corrado Formigli, che in nome dei valori democratici e della notiziabilità hanno offerto un megafono a istanze neofasciste che in un ordinamento democratico non dovrebbero nemmeno essere contemplate.
E che dire di Salvini, tra i principali artefici di una divisione tra individui di prima e seconda classe, che, commentando l’accaduto, denuncia la violenza a priori, ma torna a dire che l’immigrazione clandestina è la vera responsabile? Perché è molto più semplice dividere il mondo con l’accetta, tra gente intrinsecamente cattiva o buona. E così si concentra tutta l’attenzione sui presunti mostri, dimenticando che la radicalizzazione – forse ce lo siamo scordati – non è un’esclusiva della religione islamica o di “popoli arretrati”, ma naturale prerogativa di qualsiasi ideologia, politica o religiosa. Gli atti disumani non fanno parte del folklore di una singola popolazione. Innocent Oseghale, il nigeriano che avrebbe ucciso Pamela Mastropietro, risvegliando il patriottismo di Traini, non ha brutalizzato il cadavere della ragazza più di quanto non abbiano fatto criminali italiani altrettanto feroci in altre occasioni. Testate come Libero, però, colgono subito l’opportunità per esoticizzare e spettacolarizzare un fatto che, ancora una volta, si presta a una precisa narrativa politica. Il mostro nigeriano, o “verme”, come l’ha definito Salvini, avrebbe cercato di compiere un rito voodoo – fatto subito smentito dagli inquirenti. Ma il danno è fatto, lo straniero è la personificazione del male, è solo da lui che arriverà violenza. A questo punto possiamo stare tranquilli, abbiamo isolato ed esposto la fonte di ogni male.
Nella frenesia di mettere in sicurezza i confini e di monitorare gli arrivi, si è lasciato spazio ai movimenti neofascisti per crescere, rilegittimarsi e trovare sempre più spazio nel discorso pubblico. A chi importa delle irruzioni di gruppi naziskin a Como, dei raid di Forza Nuova sotto la sede di Repubblica, quando il pericolo arriva e può arrivare solo dai barconi? Esso ha un identikit ben preciso, una fisiognomica chiaramente delineata, con buona pace dei lombrosiani.
Poi, contro ogni pronostico, ecco Luca Traini: apparentemente borderline, “fisico atletico, calvo [sic]” – così lo descrive Il Corriere, mentre la maggior parte delle testate riscopre per l’occasione il daltonismo – e compie quello che potrebbe essere definito il primo attacco terroristico sul suolo italiano in tempi recenti, almeno stando alle fonti discusse sopra. Incensurato, porto d’armi regolarmente registrato, candidato della Lega Nord per le amministrative a Corridonia (preferenze raccolte: zero). L’uomo che la mattina del 3 febbraio ha ferito sei persone ha avuto tutto lo spazio per maturare le proprie idee politiche, il medesimo spazio che continuiamo a dare a gente dalle chiare posizioni neofasciste. Perché questo è il sale della democrazia.
Giorgia Meloni, che nella sua campagna elettorale ha più volte parlato di espulsioni e di blocco navale, su Facebook definisce l’attacco il “gesto folle di criminali squilibrati”. Perché se sei bianco e italiano è tutta questione di malattia mentale, mentre se sei musulmano o non caucasico, la classificazione di attacco terroristico diventa subito molto più automatica. La segretaria provinciale della Lega, Maria Letizia Marino, suggerisce un possibile rapporto tra Traini e la Mastropietro, cercando forse di liquidare la vicenda come un delitto passionale, ma viene subito smentita dagli inquirenti e dagli stessi parenti della vittima.
Minniti alle 17.30 è arrivato a Macerata per partecipare alla riunione del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza, dimenticando per un attimo la sua encomiabile gestione dell’emergenza migratoria.
Al di là di tutte le manifestazioni ufficiali di cordoglio da parte dei politici, occorrerebbe, però, una drastica revisione dei principali rischi alla stabilità sociale. Individui come Salvini e la Meloni dovrebbero smettere di capitalizzare sull’emotività di una popolazione già fin troppo polarizzata. Più di ogni altra cosa, bisognerebbe non dare più spazio a movimenti e istanze politiche che, in quanto intrinsecamente anti-democratici, non hanno alcuna ragion d’essere in un ordinamento democratico.
Il terrorismo – è bene ricordarlo – trova terreno fertile in situazioni di forti tensioni sociali, a prescindere dalla provenienza dei membri di quella società. E la stabilità politica e sociale arriva quando si alleviano tali tensioni, non ostinandosi a demonizzare una determinata categoria di individui – per quanto più comodo e immediato – lasciando il fianco scoperto a tutto il resto. C’è già chi, quasi a giustificarne i gesti, ha tracciato una diagnosi psichiatrica completa di Traini – lusso che gli spetta, forse, perché nato dal lato giusto del Mediterraneo.
Foto di copertina da cronachemaceratesi.it