La vicenda delle procedure per far ottenere la cittadinanza italiana al calciatore uruguaiano Luis Suarez ha scandalizzato l’opinione pubblica non solo per le tempistiche, accelerate per favorire lo sportivo, ma soprattutto per i suoi retroscena. Secondo quanto emerge dalle indagini della Procura di Perugia, l’esame sarebbe stato concordato con il candidato, che “non spiccica ‘na parola”, come avrebbe detto una delle esaminatrici. E ancora, che: “passerà, perché 10 milioni a stagione di stipendio non glieli puoi far saltare perché non ha il B1”. Lo sportivo per svolgere il suo esame non solo ha dovuto aspettare meno di un mese, mentre migliaia di persone aspettano anni, ma l’avrebbe concluso in pochi minuti, anziché nelle due ore previste.
Oltre alla presunta irregolarità che ha dato il via alle indagini, quanto accaduto per Suarez offre uno spaccato perfetto sul delirio burocratico che è costretto a subire chi vuole diventare cittadino italiano. Il problema non è, infatti, che il calciatore ottenga la cittadinanza – che è un suo diritto – ma sono problematiche le modalità che hanno permesso a un milionario di diventare ufficialmente italiano in poche settimane, quando migliaia di persone vivono e lavorano in questo Paese da anni senza nessun riconoscimento da parte dello Stato. Mentre la macchina della burocrazia si è mossa per cercare di andare incontro alle necessità del calciatore – che si è trovato quasi la cittadinanza in tasca, grazie alla corsia preferenziale dovuta a stipendio stellare e notorietà – chi lavora in Italia e magari conosce la lingua alla perfezione deve risiedere sul suolo italiano da 10 anni per mettersi in coda e presentare documenti su documenti per venire riconosciuto come cittadino italiano.
Al di là della possibile truffa, il caso di Suarez rientra in una delle possibilità messa a disposizione dallo Stato per richiedere la cittadinanza italiana, cioè quella per matrimonio, grazie alla doppia cittadinanza italiana e uruguayana della moglie, che ha un nonno friulano nell’albero genealogico. Al di fuori di questa situazione particolare, secondo quanto previsto dall’obsoleta legge 91/1992 ancora vigente, possono fare richiesta di cittadinanza solo coloro che risiedono in Italia da almeno dieci anni, hanno un reddito sufficiente a mantenersi, non hanno precedenti penali e non rappresentano un pericolo per la sicurezza della Repubblica. La cittadinanza italiana si acquisisce automaticamente, invece, solo in forza dello ius sanguinis, cioè nascendo o venendo adottati da genitori italiani.
Chiunque sia nato all’estero o sia nato in Italia da genitori stranieri, comunque, non sfugge a procedure che sono interminabili. Come documenta Eleonora Camilli su Redattore Sociale, i tempi della burocrazia sono già di per sé estremamente lenti: ci sono persone in Italia da 20 anni che nel 2017 si sono viste accogliere la domanda di cittadinanza e da allora sono in attesa. In seguito all’entrata in vigore dei cosiddetti decreti sicurezza voluti dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, poi, i tempi per la richiesta di cittadinanza si sono allungati fino a quattro anni nel caso di richiesta per matrimonio o residenza. “Anche solo ottenere tutta la documentazione necessaria è un processo lungo, dal reperimento dei documenti originali alle traduzioni. Questo porta molte persone a rinunciare”, ha denunciato una volontaria della Caritas che da anni segue i lavoratori stranieri nell’iter. Un ulteriore rallentamento delle tempistiche è stato causato dal lockdown, che ha bloccato gli esami di lingua italiana, introdotti dalle stesse norme firmate dall’ex ministro dell’Interno, secondo cui i richiedenti devono dimostrare una conoscenza dell’italiano di livello almeno intermedio (B1), attraverso prove di ascolto, comprensione di testi scritti e produzione scritta e orale. Un esame che non è affatto una formalità, dato che anche i candidati che conoscono bene la lingua incontrano spesso difficoltà nel sostenerlo.
Chi nasce in Italia da genitori stranieri, che magari lavorano e vivono stabilmente nel Paese da anni, della cittadinanza ha bisogno per esercitare i propri diritti civili e politici, a partire da quello di voto, per usufruire di un passaporto tra i più forti al mondo e per acquisire in contemporanea anche la cittadinanza europea e i vantaggi che questa comporta. Invece può fare domanda solo dopo aver raggiunto la maggiore età. A oggi, sono circa 800mila i minori che non si vedono riconosciuto questo diritto in Italia, dove proprio gli under 18 rappresentano il 20% circa sul totale dei residenti stranieri, mentre sarebbero oltre 530mila gli studenti stranieri nati in Italia (cioè coloro che seguono un percorso scolastico, uno dei maggiori requisiti dello ius culturae). Le difficoltà nel vedersi riconosciuta la cittadinanza spingono molti a lasciare il nostro Paese dopo essersi formati qui, alla ricerca di mete più accoglienti dove mettere a frutto le loro capacità e ambizioni: la ristrettezza delle norme, quindi, si traduce in una perdita anche economica per lo Stato, che da anni si somma alla sempre più massiccia emigrazione dei cittadini italiani.
Nell’ottobre 2015 la Camera ha approvato un disegno di legge per modificare l’acquisizione della cittadinanza, introducendo lo ius culturae, modalità inedita per l’ordinamento italiano, per chi fosse nato in Italia o vi fosse arrivato entro il compimento del dodicesimo anno e che in Italia seguisse o avesse seguito un percorso di studi regolare di almeno cinque anni. La proposta introduceva anche una forma di ius soli per chi fosse nato sul territorio italiano da genitori stranieri di cui almeno uno in possesso del permesso di soggiorno europeo permanente o di lungo periodo, con residenza in Italia di almeno cinque anni. Si tratta di una visione molto lontana dall’acquisizione automatica della cittadinanza sulla base del luogo di nascita che vige, per esempio, negli Stati Uniti e in Canada, e più simile alle forme condizionate di ius soli in vigore in diversi Paesi europei, dalla Germania al Portogallo, dal Belgio all’Irlanda.
Nonostante si trattasse di una forma molto edulcorata, il Senato ha bloccato il disegno di legge e da allora la possibilità del riconoscimento dello ius soli è stata accantonata. Archiviato il periodo di Salvini al Ministero, sembrava in programma un processo di riforma per snellire i tempi a cui chi richiede la cittadinanza italiana deve adeguarsi. Lo scoppio della pandemia è però stato un’altra battuta d’arresto, facendo passare la questione ancora una volta in secondo piano. In questo modo si continua ad accettare l’assurdità per cui un cittadino di fatto non viene riconosciuto come parte attiva del Paese in cui vive, lavora e paga le tasse. Il riconoscimento dei diritti e della parità di tutti i cittadini davanti allo Stato dovrebbe essere invece la priorità del nostro Paese. Intanto, a causa delle restrizioni imposte dai decreti sicurezza nel 2018, sono sempre più in calo le acquisizioni di cittadinanza, secondo i dati Istat riferiti al 2018, con un 23,8% in meno rispetto all’anno precedente, che ci riporta ai livelli del 2013; le flessioni più consistenti riguardano proprio le acquisizioni per trasmissione dai genitori.
Il 22 settembre, alla domanda se ius soli e ius culturae siano nell’agenda del suo governo, Giuseppe Conte ha risposto che “Ci rifletteremo”. Una riflessione che riguarda anche la posizione dei rifugiati provenienti da Paesi extra-comunitari: i decreti sicurezza dello scorso esecutivo non sono stati abrogati, né modificati come promesso agli esordi dell’alleanza tra M5S e Pd, anche se il premier Conte ha da poco annunciato che le modifiche al testo sono state concordate, pur non avendo chiarito in quali termini. Una speranza è che la posizione della presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen, intervenendo sulla necessità per l’Europa di superare la Convenzione di Dublino, contribuisca a una rivalutazione delle politiche sull’immigrazione anche da parte del governo italiano.
Se la vicenda Suarez ha suscitato polemiche, quel che deve davvero scandalizzare è la condizione in cui sono costrette a vivere migliaia di persone che contribuiscono al benessere della società italiana con il loro lavoro e le loro tasse, in molti casi sono e si sentono a tutti gli effetti italiane. Si pone una volta di più la questione del diritto di cittadinanza, che dovrebbe essere per l’appunto un diritto, ma che somiglia sempre di più a un privilegio, se chi la richiede incappa in lungaggini burocratiche senza fine per ottenere il riconoscimento. Un Paese che da anni accantona il riconoscimento dello ius culturae, danneggiando la vita quotidiana di migliaia di persone che ne avrebbero i requisiti, dimostra il grave livello di ipocrisia che da anni domina il dibattito pubblico e politico italiano. La vicenda in cui è coinvolto Suarez non fa che aggiungere allo stato delle cose anche una buona dose di razzismo economico, quel bias per cui, per esempio, i paladini delle crociate contro la cittadinanza agli “stranieri” non si esprimono altrettanto violentemente sul caso dello sportivo uruguaiano. O non si esprimono affatto. Anche se nei tribunali campeggia la scritta “La legge è uguale per tutti”, per una parte degli italiani e dei loro politici di riferimento vale ancora una volta l’antico adagio secondo cui “per qualcuno è più uguale che per altri”. Specialmente se non sei un anonimo operaio o un bracciante, ma un calciatore di fama mondiale con diversi zeri sul conto in banca.