Il 9 novembre 2017 il New York Times ha pubblicato un articolo in cui cinque donne raccontano gli incontri avuti con Louis C.K, il celebre comico statunitense protagonista della serie Louie, prodotta da FX. Conosciamo il nome di quattro di queste donne, tutte comiche. Si tratta di Julia Wolov e Dana Goodman, Rebecca Corry e Abby Schachner. Una di loro, invece, ha chiesto che la sua identità fosse mantenuta anonima per preservare la privacy della propria famiglia.
Quello che è successo, secondo quanto riferito nelle testimonianze riportate dal Times, può essere descritto alla perfezione con la citazione di un episodio di Seinfeld: “He took it out”. Insomma, l’avrebbe tirato fuori e avrebbe costretto le malcapitate a guardarlo mentre si masturbava. Abitudine che gli consente di entrare nel club esclusivo degli uomini della liberal élite che si sono di recente rovinati la carriera con le proprie mani, tra cui Kevin Spacey e Harry Weinstein. Ad oggi C.K. è stato scaricato dal suo management, dal suo addetto stampa, da Netflix, HBO e FX. Il suo film I Love You, Daddy non sarà più distribuito.
In una lettera pubblicata sempre sul Times, Louis C.K. ha confermato tutto. E visto lo standard infimo di scuse cui ci aveva abituati Kevin Spacey, sarebbe anche riuscito a uscire relativamente meglio dei suoi colleghi, se non avesse imperniato l’intero discorso su quanto le donne lo ammirassero. Così ha commentato su Twitter lo statement Megan Amram, comica americana: “Queste donne mi ammiravano e mi scuso di aver esaudito il loro più grande desiderio tirando fuori davanti a loro il mio cazzo così talentuoso. Avrei dovuto aspettare che fosse il loro compleanno. Chiedo scusa”. Noi, invece, lo potremmo commentare così:
I rumors sul vizio di C.K. si conoscevano in realtà da anni: Gawker, ad esempio, aveva pubblicato un pezzo già nel 2012 intitolato “A quale amato comico piace costringere comiche a guardarlo mentre si masturba?” Il pezzo, non firmato e uscito senza che venisse riportata l’identità del comico in questione, raccontava anche come Louis C.K. fosse riuscito a preservare la sua immagine (fino a pochi giorni fa): un “manager estremamente potente”, si legge nell’articolo, sarebbe infatti riuscito a impedire che le vittime riportassero gli incidenti a suon di intimidazioni. Il manager in questione sarebbe Dave Becky e rappresenta molti dei comici più celebri in circolazione. L’Huffington Post ha provato a contattare alcuni dei suoi clienti per avere un commento, tra cui Amy Poehler, Kevin Hart e Aziz Ansari, senza ricevere risposta.
Sempre Gawker aveva poi pubblicato un secondo articolo, il 15 maggio 2015, in cui si diceva che il comico incriminato fosse proprio Louis C.K. Una fonte anonima aveva inoltrato alla testata uno scambio di mail in cui pregava il comico di smettere di importunare le sue colleghe donne: “È molto imbarazzante dover chiedere al proprio eroe di smettere di tirare fuori il proprio pene di fronte a ragazze spaventate e non interessate, ma così è la vita”. C.K. avrebbe risposto nel giro di pochi minuti chiedendogli il numero di telefono, chiamandolo e cercando di capire cosa esattamente sapesse, stando a quanto riferito dalla fonte.
L’articolo del New York Times è stato tutto tranne che uno shock; le abitudini del comico statunitense erano infatti ben note nell’ambiente di stand-up americano. Abitudini che sono diventate un rumor di dominio pubblico, quando fonti interne al settore hanno iniziato a parlare.
Nessuno ha fatto niente, perché Louis C.K. era il nostro comico preferito, portava sul palco un’onestà tutta nuova, non aveva paura di affrontare i doppi standard cui dovevano sottostare le donne della comicità e della società in genere, tirava sberle alle contraddizioni di una cultura ossessionata dal politically correct, ma soprattutto era uno dei pochi comici a parlare di sesso senza scadere nei canonici stereotipi di autocelebrazione. La sua fissa per la masturbazione e il modo autodenigratorio con cui ne parlava erano topoi dei suoi stand-up, e per anni Louis C.K. ha fatto delle sue abitudini lontano dal palco un prodotto artistico di successo. Chi non si ricorda la puntata di Louie in cui compare su Fox News in quanto “aficionado della masturbazione”? O la puntata della quarta stagione, Pamela Part.1, in cui cerca di costringere la co-protagonista a fare sesso con lui? Ma non abbiamo visto i vari segnali d’allarme, perché in fondo era tutto così onesto, così sincero nel descrivere un generale senso d’insicurezza sessuale.
Ciò che ora rischia di polverizzarne la carriera, per anni è stato un pilastro della sua comicità. Chiunque avesse letto l’articolo di Gawker nel 2015, per quanto questo non costituisse una prova definitiva, sapeva, ma ha preferito relegare tutto nelle pieghe più remote del suo cervello. Non poteva essere così. Punto.
Così si arriva alla domanda che molti di noi si sono posti man mano che le accuse di molestie sessuali si sono diffuse fino a coinvolgere i nostri artisti più amati. È possibile dividere arte e artista? Esiste una linea di demarcazione tra personaggio e persona? Il caso di Louis C.K. ci spiega che quella linea esiste, e che l’abbiamo tracciata senza troppi crucci o scrupoli di coscienza. Anzi, in quest’ultimo caso abbiamo fruito di una comicità basata per buona parte sui fatti che ora ci scandalizzano tanto.
Tracciamo questa linea con Roman Polanski, che a inizio ottobre è finito sotto inchiesta per il quarto caso di violenza sessuale nei confronti di un minore. Il fatto sarebbe avvenuto a Gstaad nel febbraio del 1972. Forse continuiamo a tracciarla per Woody Allen, la cui figlia adottiva, in una lettera pubblicata sul New York Times nel 2014, proprio mentre il regista si preparava a ricevere un Golden Globe alla carriera, ha raccontato di come il patrigno l’avrebbe violentata da bambina. Quanti film di Allen sono usciti dalla pubblicazione della lettera? Quattro, contando Wonder Wheel, che arriverà nelle sale il prossimo dicembre. In tutto il caos dello scandalo Weinstein, sembrerebbe che ci siamo dimenticati di lui. “Qual è il vostro film di Woody Allen preferito?”, chiedeva Dylan Farrow alla fine della sua lettera. Moses Allen, altro figlio adottivo di Allen, a oggi nega tutta la vicenda.
L’industria della moda ha fatto per anni la stessa cosa con Terry Richardson, i cui metodi “poco ortodossi” erano una sorta di inside joke della fotografia, o un inconveniente del mestiere. Alcune accuse erano state mosse già nel 2010, ma Condé Nast ha deciso di rompere i rapporti con il fotografo solo ora, perché solo dopo Weinstein, forse, il danno di immagine è diventato un deterrente adeguato.
L’hanno fatto Netflix e i produttori di House of Cards, che – a quanto riferito da personale presente sul set – erano perfettamente a conoscenza di tutto quanto stava facendo Kevin Spacey. Ma è stato solo dopo le sue scuse, o pseudo tali, dell’attore che il colosso dello streaming ha deciso di prendere le distanze da lui. “Netflix non sarà più coinvolta con altre produzioni di House of Cards che includano Kevin Spacey,” fa sapere un portavoce con un comunicato datato 3 novembre 2017.
Certo, lo spessore personale e morale dell’artista non può incidere sul valore oggettivo dell’opera artistica, ma inevitabilmente l’immagine emotiva che abbiamo del primo dovrebbe finire per esserne intaccata, giusto? In realtà c’è un portentoso meccanismo mentale, entrato in azione nel caso di Louis C.K. come in quello di tutti quei registi e attori che tanto ammiriamo, che ci permette di fare una comoda selezione della realtà. Non vogliamo in nessun modo che l’immagine dei nostri beniamini venga rovinata da una verità discordante, e quindi voltiamo la testa, ci tappiamo le orecchie finché è possibile. E quando non è più possibile per noi, non lo è più neanche per case di produzione e distribuzione, che si affannano per chiamarsi fuori da dinamiche che per anni hanno lasciato accadere, quando non facilitato.
È possibile quindi far convivere artista e arte, quando l’artista in questione non coincide più con l’immagine che abbiamo voluto a tutti i costi continuare ad appiccicargli addosso? Parrebbe proprio di sì. L’abbiamo fatto con Louis C.K. per anni, è stato fatto con Spacey e Richardson. Lo facciamo con Polanski, e forse continuiamo a farlo con Woody Allen. Umanamente è possibile e ce lo insegnano tutti questi esempi. A rendere ancora più facile questo processo di rimozione delle responsabilità nella vita privata alla luce dell’amore e della stima per le opere d’arte, sono anche tutte le persone in posizioni di potere nei propri settori che, per anni, hanno saputo quanto stesse succedendo, ma solo ora, sull’ondata del momento, si ergono a intoccabili difensori delle vittime di molestie cancellando serie e interrompendo produzioni. È forse questa una delle più grandi ipocrisie di tutta la vicenda. È servito un caso come quello di Weinstein affinché si trovassero finalmente costretti a prendere una posizione netta.
Arte e artista hanno continuato a convivere, a prescindere dalle accuse sulla vita privata di quest’ultimo, perché così volevamo che andasse, ci faceva stare meglio. Eliminava eventuali dissonanze cognitive, troppo difficili da gestire. Forse è vero che ora qualcosa sta cambiando. Ma non credo ci si debba preoccupare per la sorte del nostro comico preferito, perché tra qualche mese o anno avremo altro a cui pensare, ricominceremo a girare la testa e torneremo a dire quanto fa ridere Louis C.K. che parla di topi che si masturbano.