Ogni tanto sui social e in qualche salotto televisivo sento ancora parlare di lotta di classe. Risuona come un’espressione antica alla stregua di perestrojka, pentapartito o materialismo storico. Uno degli uomini più ricchi del pianeta, l’imprenditore ed economista Warren Buffett, in un’intervista del 2006 al New York Times ammise candidamente che la lotta di classe l’avevano vinta loro, ovvero i ricchi. È vero, anche se è una semplificazione, lo ha detto anche lo storico Alessandro Barbero in termini un po’ più complessi, denunciando la tendenza attuale a “ottimizzare i profitti degli imprenditori e a limare il più possibile le garanzie sociali e la redistribuzione”, spiegando che la causa di questo fenomeno è la nostra stessa epoca “in cui la lotta di classe è finita, perché c’è stata e l’hanno vinta i ricchi”.
Bisogna allora chiedersi cosa siano diventate adesso le classi rispetto al periodo di Marx, se ci siano ancora e come il capitalismo abbia inciso su questa struttura sociale. In sostanza: se oggi un operaio vota Meloni, è più che probabile che la causa non sia soltanto la caduta delle ideologie marxiste o l’avvento del neoliberismo, ma una trasformazione più ampia che ha forse smantellato il concetto di classi, ma non quello di sfruttati e sfruttatori. Secondo Marx, nella seconda metà dell’Ottocento l’operaio era una macchina per la produzione di ricchezza per altri, nonché “la bestia da soma” del capitalista. Lui stesso riconosceva l’esistenza di queste dinamiche sin dalle prime forme di società. Parlava di operai e padroni, ma poi nel Manifesto del Partito Comunista ricordava anche patrizi e plebei, uomini liberi e schiavi, baroni e servi della gleba, con “oppressori e oppressi sempre stati in contrasto tra loro”. Anche oggi è così, seppur con un’evoluzione che ha portato le classi a mischiarsi tra loro fino a perdere la loro stessa denominazione identitaria. Un tempo, quando si parlava di proletariato contro borghesia, un operaio faceva parte della prima categoria e un insegnante della seconda. Oggi lo stipendio medio in Italia di entrambi i mestieri è lo stesso: 1400 euro al mese che possono variare in base agli anni di lavoro. E qui entra in gioco la teoria di Max Weber, che contestava a Marx il fatto che le classi fossero costituite in base a un fattore economico. Per Weber contava di più come indicatore lo status sociale e il prestigio percepito e reale. Successivamente sono arrivate altre correnti di sociologia che hanno aggiunto ulteriori parametri: non soltanto un contrasto tra classi intese come ceti sociali, ma anche scontri generazionali, geografici, ideologici. D’altronde nel terzo millennio il capitalismo si sfida anche attraverso la lotta contro i cambiamenti climatici. E a combatterla possono essere contemporaneamente uno studente squattrinato e l’attore di Hollywood miliardario.
Forse anche questo è un sintomo della fine della lotta di classe per come l’abbiamo intesa per più di un secolo. Se il capitalismo ha dato vita all’era del consumo, e questa oggi riguarda individui appartenenti a qualsiasi estrazione sociale (Warren Buffett e l’operaio scrivono dallo stesso dispositivo elettronico prodotto da una multinazionale), significa che siamo “costretti” ad abbracciare il consumo anche quando non abbiamo i mezzi per sostenerlo. Forse siamo arrivati a questo punto non per un errore di calcolo di Marx, ma perché quasi nessuno nel corso del Novecento ha messo in pratica realmente le sue teorie. Il suo progetto era chiaro: il passaggio alla dittatura del proletariato era necessario per attuare la rivoluzione e permettere agli oppressi di ribaltare la loro condizione contro gli oppressori. Eppure le realtà che si sono professate comuniste di stampo marxista non l’hanno mai fatto. La rivoluzione russa, soprattutto in seguito al passaggio da Lenin a Stalin, non ha costruito nessuna dittatura del proletariato, ma una tirannia altrettanto opprimente con dei vertici ben stabiliti e un unico dittatore al potere. Lo stesso è avvenuto con Mao, con Pol Pot e, seppur senza avvicinarsi neanche lontanamente ai crimini perpetrati in Russia, Cina o Cambogia, anche nella Cuba di Fidel Castro. Non a caso oggi la Russia è in mano a un dittatore con dietro l’oligarchia del gas e la Cina si è aperta al libero mercato e a un capitalismo neanche troppo ibrido, con entrambi i popoli schiacciati da chi li governa e nessuna dittatura del proletariato all’orizzonte.
Possiamo quindi scagionare Marx, ma non è sufficiente per trovare una risposta al fallimento della lotta di classe. Oggi al posto di “operaio” e “padrone” possiamo trovare altri sinonimi, ma certe realtà non cambiano. Nel 2024 un rider è altrettanto sfruttato e la multinazionale per cui lavora altrettanto sfruttatrice. Probabilmente se non abbraccia in modo convinto le dinamiche della vecchia lotta di classe è perché manca l’appiglio politico che un tempo prometteva di tutelarlo. Se decenni fa l’operaio votava PCI, oggi uno dei motivi della fine della lotta di classe è l’avvicinamento delle sinistre mondiali al neoliberismo e all’accettazione del capitalismo stesso. Le battaglie della sinistra si sono spostate su altri fronti – altrettanto urgenti e meritevoli d’attenzione, come i diritti civili. Quelli sociali non possono essere affrontati con la veemenza di un tempo proprio perché dalla caduta del comunismo in poi la sinistra si è ristrutturata e ha virato in direzione – a seconda del Paese – di un riformismo light, di una socialdemocrazia all’interno di un sistema capitalistico o, in certi casi, di una connivenza con le dinamiche che in passato contrastava con ardore. “We live in a society”, e politici e cittadini si sono adeguati pur non avendone sempre i mezzi.
E così una resistenza permane, ma non più sotto la logica della divisione tra classi. Anche perché gli oppressi non sono più soltanto i lavoratori “sotto un padrone”, ma ulteriori categorie che sono ugualmente vessate a prescindere dalla dimensione del portafoglio o dal mestiere praticato. Oggi il campo di battaglia si è stratificato su più fronti. Penso a fenomeni come Black Lives Matter, Metoo o Fridays for Future: è comunque una lotta contro gli oppressi, che siano gli afroamericani, le donne molestate o il pianeta stesso. E all’interno hanno sia l’operaio che il padrone, uniti dalla stessa causa. Quella degli scorsi due secoli è invece stata modificata per motivi culturali e sociali. Se, per dirla alla Barbero o alla Buffett, i ricchi hanno vinto e la lotta di classe è finita, significa che la vittoria consiste nel mantenimento del loro predominio. Per esempio attraverso la trasformazione del mondo del lavoro secondo le loro logiche. In primis sfruttando il fattore generazionale e impedendo ai figli di guadagnare come o più dei loro genitori. Poi aumentando ancora di più l’accentramento della ricchezza e la forbice tra poveri e ricchi. Infine dando il colpo definitivo: affossare l’ex-borghesia, il ceto medio, con un’omologazione verso il basso che inevitabilmente impedisce moti di contrasto di ogni tipo, se è vero che “le barricate in piazza le fai per conto della borghesia” e crollata quest’ultima è venuto meno qualsiasi fermento rivoluzionario o scossone intellettuale.
Forse le avvisaglie bisognava scorgerle negli anni Ottanta, quando politici come Reagan e Thatcher resero il neoliberismo una sorta di religione di Stato, a costo di indebolire i sindacati e andare contro la working class. Così la sempre più crescente privatizzazione dell’economia ha appiattito le classi fino a non riuscire più a distinguere proletariato e borghesia, per lo meno per come venivano intese nel tardo Ottocento. I ricchi invece non solo sono rimasti, ma hanno approfittato dell’implosione delle altre classi e della rinuncia alla lotta per incrementare i propri privilegi e i metodi di controllo sull’economia globale. Oggi, come detto, un operaio, un impiegato in banca e un insegnante non appartengono più a classi diverse, e la lotta intestina sarebbe controproducente – mentre quella contro i super ricchi addirittura un harakiri.
L’unica soluzione plausibile è affrettarsi a trovare un’alternativa al capitalismo, ma il capitalismo sembra avere ormai una corazza talmente spessa da essere inscalfibile. Se Gramsci spingeva per la lotta di classe attraverso il “controllo proletario sulla produzione e sulla distribuzione”, oggi la vittoria del capitalismo consiste nel controllo sul consumo. L’operaio produce-consuma-crepa. La borghesia, pure. Ciò che resta, ovvero la minoranza che detiene più ricchezza della maggioranza, conta i profitti sulle “bestie da soma” del terzo millennio. Perché se 26 individui posseggono le ricchezze di 3,8 miliardi di persone qualcosa è andato storto nel processo storico della nostra specie. Oppure fa parte della continuità era dopo era: patrizi e plebei, operai e padroni, multimiliardari e masse di illusi in attesa del Black Friday.