Il 13 novembre, una settimana dopo le dimissioni del presidente Evo Morales, la senatrice Jeanine Áñez del partito conservatore Unidad Demócrata (Ud) è stata nominata presidente ad interim della Bolivia. La sua proclamazione è stata appoggiata solo dai parlamentari del suo partito e di altre formazioni dell’opposizione e senza il quorum previsto per legge, dato che i rappresentanti del Movimiento al socialismo (Mas) di Morales hanno disertato la consultazione per protesta. Nell’indagare le cause di quanto accaduto ho intervistato il dottor Enrico Buono, uno dei pochi costituzionalisti italiani ad aver lavorato alla Corte costituzionale boliviana e ricercatore presso la Facultad de derecho y Ciencias políticas all’Università San Pablo di La Paz.
Il giudice Giovanni Falcone era solito dire che per trovare il malaffare bisogna “Seguire i soldi”, suggerimento valido in tutto il mondo. Prima che il 10 novembre l’esercito ritirasse il suo appoggio al governo di Morales, costringendolo alle dimissioni, la Bolivia ha conosciuto anni di un progressivo aumento di investimenti da parte del governo cinese. Le partnership con le aziende cinesi sono improntate alla realizzazione di diversi progetti come la costruzione di infrastrutture, ma anche alla concessione di prestiti ingenti – e persino donazioni – che hanno reso Pechino il principale creditore bilaterale della Bolivia, realtà che vale anche per la maggior parte dei Paesi di Centro e Sud America.
Uno dei più grandi progetti in corso ha preso forma lo scorso febbraio, quando il consorzio energetico cinese Tbea Group Co Ltd è diventato partner strategico con una quota del 49% della compagnia statale boliviana per la gestione del litio Ylb: la joint venture è improntata all’estrazione e alla lavorazione del minerale e di altre materie prime presenti nelle saline di Coipasa e di Pastos Grandes. Il valore dell’operazione è stato calcolato in 2,3 miliardi di dollari, cifra che tutte le potenze sono disposte a pagare per guadagnare posizioni di vantaggio nella lotta per il progresso tecnologico. Il litio, insieme al coltan, è il cuore pulsante delle batterie che consentono il funzionamento degli oggetti di cui il mondo non può fare più a meno e su cui investe di più: smartphone, tablet, elettrodomestici senza fili, auto elettriche e sistemi d’arma all’avanguardia in campo militare.
Le scelte economiche del governo di Morales nel corso degli ultimi 13 anni hanno sicuramente contribuito a emancipare il Paese dall’ingerenza del Fondo monetario internazionale. In base a quanto riportato dall’ex presidente in occasione dell’annuncio della “totale indipendenza dal Fmi” il 22 luglio 2017, l’istituzione godeva di un tale potere sulle sorti della Bolivia da avere un proprio ufficio all’interno della sede del governo e il diritto di partecipare agli incontri dell’esecutivo.
Agli osservatori sudamericani e ad alcune Ong boliviane non è sfuggito, però, che servirsi degli aiuti cinesi per allontanare l’influenza statunitense e le onerose condizioni della Banca mondiale avrebbe causato il passaggio da “un imperialismo a un altro”, oltre a scatenare la reazione del vicino nordamericano e dei vecchi partner. “La Bolivia può essere un primo campo di battaglia della guerra tra Cina e Stati Uniti”, sostiene Buono.
Cina e Stati Uniti sono le due superpotenze che investono di più in ricerca e sviluppo: nel 2017 Pechino ha investito 400 miliardi di dollari e Washington 520 miliardi, ma il governo di Xi Jinping programma di superare il competitor statunitense entro il 2023. Il sorpasso può diventare possibile solo sfruttando tutte le risorse che ha a disposizione a livello globale, a partire da quelle messe a disposizione dai Paesi partner in Sud America. La metà delle riserve di litio del mondo si trova infatti in Cile, Argentina e Bolivia,nel cosiddetto “triangolo del litio”. Anche se allo stato attuale i ricchi giacimenti di “oro bianco” della Bolivia non possono essere del tutto sfruttati per la difficoltà di estrazione e le troppe impurità dei lotti di minerale, la Cina ha lavorato per assicurarsi un enorme vantaggio strategico per il futuro dell’attività estrattiva.
Questo quadro geopolitico si inserisce negli eventi di novembre, che hanno modificato il governo della Bolivia e visto Evo Morales costretto a dimettersi su “suggerimento” del generale dell’esercito William Kaliman. Il governo ad interim presieduto dalla senatrice di destra Janine Añez – nonostante la maggioranza in Parlamento appartenga al Movimiento al socialismo (Mas) di Morales – ha approvato la legge per la convocazione di una nuova tornata elettorale in tempi brevi, ma “Se restasse la Añez al potere nulla esclude che gli Stati Uniti potrebbero mettere le mani sulle risorse di litio, perché lei è dichiaratamente filostatunitense”, dichiara Buono. Gli Stati Uniti hanno riconosciuto la sua nomina in poche ore, seguiti a ruota anche dalla Russia di Putin.
Quello che al momento spaventa più del nuovo esecutivo è l’efferatezza dimostrata contro oppositori politici e comunità LGBTQ+. La Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) e l’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni unite hanno già condannato il governo Añez per aver emanato un decreto che esenta da ogni responsabilità penale i soldati che prendono parte alla repressione delle proteste.
“Il vuoto di potere che si è creato fa sì che gli interessi stranieri possano soddisfarsi”, ma questo è anche il risultato della progressiva perdita di fiducia in Evo Morales da parte della maggioranza del popolo boliviano, a cominciare da coloro che in passato lo avevano sostenuto: operai, minatori e contadini. “Quello che io considero il peccato originale del governo Morales e la sua rottura con gli indigeni è il caso Tipnis”, spiega Buono in riferimento al grande parco nazionale – casa di centinaia di indios e di numerose specie protette – che nel 2011 è stato deturpato da un progetto approvato dall’ex governo Morales per la costruzione di un’autostrada che lo attraversasse.
Il progetto è stato fortemente osteggiato dalla Confederazione delle popolazioni indigene della Bolivia, dalla Confederazione degli indigeni degli altopiani e dai manifestanti ambientalisti, dando luogo anche a violenti scontri repressi dalla polizia. La vicenda ha registrato momenti di apertura da parte del governo, ma dopo un referendum, condannato per irregolarità dagli osservatori per i diritti umani, nel 2017 il Parlamento ha promulgato una legge per la revoca dello status di intangibilità del Tipnis.
La fine della stagione politica favorevole di Evo Morales è stata decretata dall’esito referendario del 2016, quando la maggioranza dei cittadini ha negato al presidente la possibilità di correre per un quarto mandato nel 2019: sebbene una sentenza della Corte costituzionale boliviana abbia disatteso il risultato, la popolarità del presidente era già vacillante. Il colpo di grazia alla credibilità di Morales sono state le irregolarità denunciate nel corso delle elezioni presidenziali dello scorso 20 ottobre – brogli riscontrati e subito diffusi dall’OAS, l’Organizzazione degli Stati Americani con sede a Washington, ma non da altri think tank come il Center for Economic and Policy Research –, che hanno causato le rivolte di piazza costate la vita ad almeno 27 persone. Quando Morales, costretto dai manifestanti, si è deciso a indire nuove elezioni è stato troppo tardi e persino il sindacato dei minatori di Potosì ha chiesto le sue dimissioni.
“Sono andato in Bolivia convinto che il loro progetto costituzionale fosse avveniristico e lo è. L’idea di Stato plurinazionale è un’idea rivoluzionaria per la gestione della multiculturalità,” dice Buono, ma adesso il Paese ha smarrito il legame che univa le sue diverse anime ed è in balia dei mezzi di pressione del neoliberismo moderno, compresa “la subdola manipolazione dei social media improntata alla diffusione del caos. Una componente che ha aiutato molto la caduta di Morales, diffondendo, per esempio, fake news sui suoi presunti legami con i narcos”. Come in ogni guerra a pagare il prezzo di tutto questo è il popolo, tanto per la sua sicurezza che per la preservazione del territorio in cui abita.
Morales ha dilapidato l’immenso potere politico e simbolico che si era guadagnato con la sua esperienza di governo – triplicando il Pil del Paese, riducendo la povertà e instaurando una stagione di rispetto e valorizzazione delle culture indigene –, ma ora ha condannato la Bolivia alla mercé di potenze straniere e investitori privati che stanno sfruttando – se non governando – la situazione politica della Bolivia. Tale è la sua gravità che non c’è tempo per indagare gli errori del “Presidente indio”, ormai esiliato in Messico. Gli osservatori internazionali, l’opinione pubblica e le forze democratiche in tutto il mondo devono unirsi per denunciare le violazioni dei diritti umani e i crimini ambientali che si stanno perpetrando in Bolivia, prima che sia troppo tardi.