Come il neoliberismo e il “libero mercato” distruggono le professioni
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La giovane dottoressa era disperata: “Ho bisogno di parlare con i miei pazienti,” diceva, “e dar loro il tempo di farmi domande. Alcuni di loro sono stranieri e fanno fatica con la lingua, e tutti hanno bisogno di aiuto. Ma non ho neanche il tempo di spiegare loro le cose essenziali per via di tutto il lavoro burocratico e della carenza di personale”.

Questo genere di reclami sono diventati tristemente familiari, non solo nella sanità, ma anche nella scuola e nelle strutture di cura. Anche in ambito più commerciale capita di sentire simili obiezioni: l’ingegnere che vuole fare un lavoro di qualità, ma a cui viene detto di concentrarsi solo sull’efficienza; il giardiniere che vuole dar tempo alle piante di crescere, ma a cui viene detto di focalizzarsi sulla velocità. Gli imperativi sono diventati quelli della produttività, della redditività e delle regole del mercato.

Le lamentele provengono anche dall’altro versante. In quanto pazienti o studenti vogliamo essere trattati con cura e responsabilità, e non come semplici numeri. Non c’era forse un tempo in cui i professionisti sapevano come prendersi cura di noi, un mondo ordinato e accogliente fatto di dottori responsabili, insegnanti saggi e infermieri premurosi? In questo mondo, i panettieri si preoccupavano ancora della qualità del pane, e i muratori erano fieri delle loro opere. Ci si poteva fidare di questi professionisti, sapevano cosa stavano facendo ed erano guardiani affidabili delle loro competenze. Perché un tempo le persone ci mettevano l’anima, il lavoro era una cosa importante. Non era forse così?

Nella morsa della nostalgia, è facile lasciarsi sfuggire il lato oscuro di questo vecchio modello di devozione. Prima di tutto un tempo le professioni erano strutturate intorno a gerarchie di genere ed etnia e ci si aspettava dai sottoposti che obbedissero al giudizio degli esperti senza fiatare. La difesa dell’autorità era la norma, e non c’erano molte occasioni in cui i professionisti erano tenuti a rendere conto delle proprie azioni. In Germania, per esempio, i dottori erano soprannominati “semidei in bianco” per via del loro status di superiorità nei confronti di pazienti e membri dello staff. Non è esattamente il modo in cui ora pensiamo che i cittadini delle società democratiche debbano rapportarsi fra di loro.

Una maggiore autonomia e una più ampia facoltà di scelta sembrano molto più allettanti di questo scenario e, in effetti, simili richieste si sono concretizzate con l’ascesa nel neoliberalismo, dopo gli anni Settanta, quando i sostenitori del “Nuovo management pubblico” avanzarono l’idea che lo zoccolo duro dell’ideologia di mercato dovesse essere usato per strutturare la sanità, l’istruzione e altre aree che erano sempre appartenute al lento e complicato mondo della burocrazia pubblica. In questo modo però, il neoliberalismo mise in crisi non solo le istituzioni pubbliche, ma l’idea stessa di professionalità.   

Questo attacco si fece promotore di fatto di due punti di vista particolarmente potenti. Il primo era quello di coloro che spingevano sulla presunta inefficienza dei servizi pubblici e di altre strutture non commerciali in cui erano necessarie particolari professionalità. Ancora oggi, ad esempio, gli scettici del pubblico lamentano le lunghe code, l’assenza di possibilità di scelta, di competizione o via d’uscita della sanità statale. Il secondo invece è quello imperniato sul dibattito tra autonomia, uguaglianza e libertà; quello del “Pensa di testa tua, anziché affidarti agli esperti”. L’avvento di internet è sembrato un’occasione perfetta per offrire al consumatore tutte le informazioni del caso e confrontare le offerte: in breve, per diventare un consumatore consapevole. Questi due imperativi, quello economico e quello individualista, sono conversi molto bene nel neoliberalismo, dove i bisogni del cittadino sono diventati le richieste del consumatore o del cliente.

Oggi siamo tutti dei clienti, e per questo “abbiamo tutti ragione”. Ma se quello del cliente-fornitore fosse il modello sbagliato per la sanità, l’educazione e persino per le professioni altamente specializzate legate al commercio?

Il modello basato sul libero mercato dimentica di tenere in considerazione l’iperspecializzazione, come suggerisce il filosofo Elijah Millgram in The Great Endarkenment (2015). Dipendiamo dalla conoscenza e dall’esperienza di altre persone perché non possiamo imparare e studiare tutto nella nostra vita. Quindi, quando si tratta di conoscenza specialistica, siamo tutto l’opposto di un consumatore consapevole; spesso non vogliamo nemmeno fare le dovute ricerche, che sarebbero comunque insufficienti, e volte semplicemente non siamo in grado di farle anche se vorremmo. È molto più efficiente (sì, efficiente!) fidarsi di qualcuno di competente. 

Ma può essere difficile fidarsi di professionisti obbligati a lavorare in regimi neoliberali. Come l’esperto di scienze politiche Wendy Brown sostiene in Undoing the Demos (2015), la logica di mercato trasforma tutto, comprese le nostre vite, in una continua ricerca di miglioramento del nostro “portfolio”: una serie di progetti atti a massimizzare il profitto sull’investimento. Al contrario, la teoria della professionalità responsabile immagina il lavoro come una serie di relazioni con individui a cui importa di te, degli standard etici e delle responsabilità che ti spettano come membro di una comunità professionale. Trasformare tutto in un mercato minaccia questa concetto di collegialità perché introduce la competitività tra i colleghi e distrugge la fiducia che è necessaria per fare un buon lavoro.

Come uscire da questo dilemma? Si può rinnovare il professionalismo? Se sì, possiamo farlo superando i suoi vecchi limiti legati alla gerarchia e, allo stesso tempo, proteggere lo spazio per l’uguaglianza e l’autonomia?

Alcune proposte promettenti ed esempi pratici di questa teoria esistono. Nel suo studio sul “professionalismo civico”, Work and Integrity (2004), lo scienziato dell’educazione William Sullivan sostiene che i professionisti debbano essere consapevoli delle dimensioni morali del loro ruolo. Devono essere contemporaneamente “esperti e cittadini” e “imparare a pensare e ad agire in cooperazione con noi”, i non esperti. In modo simile, il teorico politico Albert Dzur, in Democratic Professionalism (2008), sostiene un ritorno a una versione più consapevole del vecchio professionalismo, attento ai valori democratici e al dialogo costante con i sottoposti. Dzur descrive, per esempio, il modo in cui, nel campo della bioetica, gli esperti abbiano aperto le loro discussioni a tutti, reagendo alle critiche pubbliche e trovando dei modi per includere nel dibattito dottori, consulenti etici e gente comune. 

Pratiche simili potrebbero essere applicate a molte altre professioni, anche in aree che non sono tradizionalmente intese come “specialistiche”, ma in cui coloro che prendono le decisioni devono riferirsi a settori della conoscenza altamente specializzati. Idealmente, questo potrebbe aumentare la fiducia – non cieca, ma razionale – nei professionisti: una fiducia basata sulla piena consapevolezza del contesto istituzionale che pone gli stessi professionisti in condizione di rendere conto del loro lavoro, così come dei meccanismi di controllo e della possibilità di richiedere una seconda opinione all’interno dello stesso settore professionale.

Ma in molte aree, le pressioni del mercato prevalgono. Questo mette i professionisti di rilievo in una posizione difficile, come spiegato da Bernardo Zacka in When the State Meets the Street (2017): sono oberati, esausti, contesi da più parti e insicuri sul senso stesso del loro lavoro. Per queste ragioni, spesso persone altamente motivate, come la giovane dottoressa di cui ho parlato nell’incipit, abbandonano il settore a cui potrebbero contribuire maggiormente. Per alcuni questo è il giusto prezzo da pagare per ottenere benefici maggiori da qualche altra parte, ma la verità è che non è così, e il risultato è che anche noi non esperti diventiamo più vulnerabili. Non possiamo essere consumatori consapevoli perché non abbiamo le conoscenze, ma non possiamo più nemmeno limitarci a essere semplici cittadini.

Fino a un certo punto, la professionalizzazione è costruita sulla persistenza dell’ignoranza: la conoscenza specialistica è una forma di potere, anche difficile da controllare. È chiaro che le strategie del mercato per affrontare questo problema si sono rivelate fallaci, eppure continuiamo a considerarle come gli unici modelli possibili. In questo modo però perdiamo l’opportunità di immaginare ed esplorare le alternative. Nella vita dobbiamo avere la possibilità di ricorrere all’esperienza di altre persone. Per farlo però, come ci ha detto la filosofa politica Onora O’Neill nelle sue Reith Lectures del 2002, dobbiamo poterci fidare di loro.

La giovane dottoressa che ho intervistato stava pensando da molto tempo di lasciare la sua posizione, quindi quando ha avuto la possibilità di lavorare come ricercatrice si è licenziata. “Il sistema mi obbligava continuamente a comportami in modo contrario rispetto alle mie convinzioni,” mi ha raccontato. “Quel lavoro era tutto l’opposto di ciò che pensavo significasse essere una dottoressa”. 

Ora è il momento di ri-immaginare un sistema in cui lei possa riscoprire il senso del suo scopo, per il bene di tutti.

Questo articolo è stato tradotto da Aeon.

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