La retorica contro l’immigrazione in Italia, per quanto zeppa di distorsioni e menzogne, è straordinariamente potente. L’immagine di un popolo – quello italiano – che non riesce ad arrivare a fine mese, trascurato da uno Stato che gli preferisce dei profughi furbacchioni e viziati, che lo tartassa finché può e lo abbandona nel momento del bisogno – crolli e terremoti – è una narrazione distorta: che però, ci piaccia o no, ultimamente è diventata mainstream, e fila come un treno. Una cultura da decenni diffidente nei confronti dello straniero, dei partiti politici irresponsabili, dei mass media sensazionalisti e neanche troppo velatamente xenofobi, un sistema educativo che solo recentemente si sta adattando alla diversità hanno tutti concorso al disastro. Ma bisogna anche ammettere che nella gestione dell’immigrazione in Italia sono stati fatti molti errori e se ne continuano a fare: negarli non fa bene a nessuno.
Il nostro sistema ha elementi di indubbia generosità e abnegazione, ma fa acqua da tutte le parti: i centri di accoglienza straordinaria (Cas), creati al fine di sopperire alla carenza di posti nelle strutture ordinarie, sono spesso ambienti degradati e malsani; molti rifugiati, sopravvissuti a viaggi infernali, vengono abbandonati al loro destino, vittime dello sfruttamento o costretti a vivere in tuguri privi di ogni servizio. Le famigerate “inchieste sulle Ong” di cui ha recentemente parlato a vanvera Marco Travaglio servono per lo più per alimentare il fuoco dei pregiudizi razzisti. Ma il “business dell’accoglienza” in alcuni casi esiste davvero, ed è molto difficile da difendere, specialmente se si ha a cuore l’integrazione reale dei migranti.
Tralasciando casi come quello del sacerdote dimessosi da una cooperativa dopo che i soci avevano votato la redistribuzione di 60mila euro di utili guadagnati coi profughi, è innegabile che quando gli italiani hanno visto per la prima volta il video dello youtuber sovranista Luca Donadel – quello sui migranti recuperati non nel mezzo del canale di Sicilia, come voleva il sentire comune, bensì proprio a ridosso delle coste libiche – si siano sentiti presi in giro, o così si sia sentita almeno quella parte dell’opinione pubblica sostanzialmente disinteressata ai dettagli del problema.
Come ha fatto notare il sociologo e scrittore Luca Ricolfi, quando parliamo di immigrazione in Italia non ci sono solo due opzioni, una feroce e l’altra umana, ma due alternative tragiche: la prima, la linea dell’apertura, che ha avuto per rappresentanti i governi Letta e Renzi, tollera le partenze dalla Libia verso l’Europa e cerca di limitare i morti in mare, ma di fatto finisce per moltiplicarli a causa degli affondamenti (com’è stato nel biennio 2013-2014); la seconda, la linea della chiusura, che ha i volti dell’ex ministro degli Interni Marco Minniti e del suo successore Matteo Salvini, cerca di ostacolare le partenze con l’aiuto della guardia costiera libica, ma finisce per consegnare i migranti nelle mani di torturatori e trafficanti di uomini. “È con questo lato oscuro che ogni politica migratoria, quale che sia il suo orientamento, si trova a fare i conti,” scrive Ricolfi. “Può cercare di occultarlo, e spesso ci riesce anche, ma non può cancellarlo. Vale per le politiche di chiusura, ma anche per quelle di apertura.”
L’Italia ha un problema di vecchia data col razzismo: è una nostra caratteristica culturale, radicata, perdurante, che non c’entra con la crisi economica in corso, quanto piuttosto col ruolo delle tv, del ceto politico scriteriato, della religione. Ciò non toglie che il fallimento delle politiche dei visti e dell’accoglienza, in Italia e in Europa, vada denunciato, salvando invece il sacrosanto diritto all’asilo politico. Il nodo cruciale è che bisogna mandare in pensione, una volta per tutte, la rotta libica: foriera di morte, grande rimosso delle nostre coscienze, e fucina della propaganda politica, che utilizza i salvataggi in mare o i respingimenti, a seconda dei casi, come arma di ricatto morale o occasione di esibizione muscolare.
Questa posizione è sostenuta dal blogger, scrittore e documentarista Gabriele del Grande, studioso del fenomeno delle migrazioni e delle tragedie nel Mediterraneo da almeno tre lustri, una delle massime autorità sul tema nonostante abbia appena 36 anni. In una lettera aperta al ministro degli Interni Matteo Salvini, diventata virale su Facebook, Del Grande ha spiegato che stiamo seguendo da anni una strada clamorosamente sbagliata. “Siamo arrivati al punto,” scrive, “che l’ultima e unica via praticabile per l’emigrazione dall’Africa all’Europa è quella del contrabbando libico. Le mafie libiche hanno ormai il monopolio della mobilità sud-nord del Mediterraneo centrale. Riescono a spostare fino a centomila passeggeri ogni anno con un fatturato di centinaia di milioni di dollari ma anche con migliaia di morti.” Secondo lo scrittore, l’emergenza sbarchi è nient’altro che un’invenzione crudele della politica, che da due decenni ha scelto di voltare le spalle al problema. Una linea che non durerà, non può durare. Per affrontare in modo strutturale le questioni migratorie ci vuole una svolta coraggiosa e non assistenzialista.
La rivoluzione potrebbe essere un sistema di liberalizzazione dei visti. Piuttosto che la guardia costiera, le leggi repressive e i burocrati, gli Stati dovrebbero regolare il flusso di persone guardando alle esigenze del mercato del lavoro e tentando di garantire al meglio la libera circolazione. Bisogna superare il meccanismo perverso delle quote, istituire un asilo politico europeo e il riconoscimento di un permesso di soggiorno che permetta di viaggiare e lavorare in tutta l’Ue. Piuttosto che litigare con Bruxelles per spacciare come credibile una certa idea di sovranismo cialtrone, Salvini dovrebbe chiamare i funzionari europei, i rappresentanti delle istituzioni e insieme alla Farnesina provare a rivedere i trattati già esistenti: non per scaricare la responsabilità dei profughi su altri, quanto per riscrivere i regolamenti per il rilascio dei visti nei Paesi africani, fare in modo che siano validi temporaneamente per la ricerca di lavoro su tutto il territorio dell’Unione, tramite il meccanismo dello sponsor che già vale per altri Paesi, o del ricongiungimento familiare. In questo modo le persone potrebbero lavorare già una settimana dopo il loro arrivo, anziché restare ai margini; e sceglierebbero la città dove vivere non perché c’è il sussidio o il centro d’accoglienza, ma perché c’è un lavoro o un familiare già presente.
L’importante è rompere il monopolio dei trafficanti, che sembra indistruttibile, smettendola di sprecare le nostre tasse per finanziare i carcerieri libici. “Se davvero Salvini vuole porre fine, come dice, al business delle mafie libiche del contrabbando, riformi i regolamenti dei visti anziché percorrere la strada del suo predecessore,” sostiene Del Grande. “Non invii i nostri servizi segreti in Libia con le valigette di contante per pagare le mafie del contrabbando affinché cambino mestiere e ci facciano da cane da guardia. Non costruisca altre prigioni oltremare con i soldi dei contribuenti italiani. Perché sono i nostri soldi e non vogliamo darli né alle mafie né alle polizie di paesi come la Libia o la Turchia.”
Del Grande è stato per oltre un decennio curatore del più informato blog sulle tragedie delle migrazioni, Fortress Europe, prima di girare il documentario autoprodotto Io sto con la sposa ed essere arrestato per due settimane, nella primavera del 2017, dalla polizia turca al confine sud-orientale del Paese, dove si trovava per raccogliere testimonianze della resistenza curda. Su di lui, i cosiddetti rossobruni, che cercano di combinare l’ideologia marxista con gli slogan e le ossessioni complottiste della destra sociale, ha fatto circolare una lunga serie di fake news, dipingendolo come un liberal guerrafondaio e nientemeno che una marionetta di Soros. Lui preferisce la concretezza e dice che alla base di tutto c’è un problema di domanda e di offerta: “Finché qualcuno sarà disposto a pagare per viaggiare dall’Africa all’Europa, qualcuno gli offrirà la possibilità di farlo. E se non saranno le compagnie aeree a farlo, lo farà il contrabbando.”
Eppure, spiega, non è sempre stato così. “Davvero ci siamo dimenticati che gli sbarchi non esistevano prima degli anni Novanta? Vi siete mai chiesti perché? E vi siete mai chiesti perché nel 2018 anziché comprarsi un biglietto aereo una famiglia debba pagare il prezzo della propria morte su una barca sfasciata in mezzo al mare? Il motivo è presto detto: fino agli anni Novanta era relativamente semplice ottenere un visto nelle ambasciate europee in Africa. In seguito, man mano che l’Europa ha smesso di rilasciare visti, le mafie del contrabbando hanno preso il sopravvento,” dice lui. Ai lavoratori africani è stato impedito di emigrare legalmente per un mix di eventi politici e fattori culturali: l’11 settembre, la paura del terrorismo e di malattie come l’Ebola, l’abbattimento delle frontiere intra-europee che rendeva più complicati i controlli, il rallentamento dell’economia in seguito alla recessione, la crescita dei partiti populisti. Mentre chiudeva le porte al sud del Mediterraneo, Bruxelles continuava a firmare accordi di libera circolazione con altri paesi extra-Unione, indipendentemente dal fatto che pianificasse di ammetterli, un giorno, tra gli Stati membri: pensiamo a Romania, Albania, Ucraina, Polonia, ai Balcani, a tutto il Sud America. È da questi territori che sono partiti i flussi diretti nell’Italia degli anni Novanta e Duemila, anni in cui quasi nessuno era costretto nei Cas. Questa potrebbe essere la storia dell’Europa di domani, se ci fosse la volontà politica. Perché solo così si può ridurre il ricorso ai centri d’accoglienza, favorire l’organizzazione sindacale e l’integrazione degli immigrati, che potrebbero beneficiare di un salario senza pesare inutilmente sullo Stato sociale, ma al contrario, versando miliardi di euro di contributi pensionistici.
La politiche migratorie vanno cambiate avendo in mente sacrosanti principi umanitari, ma ricordandosi che a valle ci sarebbero anche indubbi benefici economici. “Un visto europeo di turismo e ricerca lavoro, convertibile in permesso di soggiorno in presenza di un regolare contratto, potrebbe dimezzare il numero degli sbarchi,” dice Del Grande. Questo per il ricercatore dipenderebbe dal fatto che una parte di quei viaggiatori non è costituita da profughi di guerra, ma da “giovani in cerca di un lavoro a cui le ambasciate hanno negato il visto per partire in aereo.”
Intanto ci sono una destra e sì, persino una sinistra che, pur partendo da ideologie differenti, si ritrovano oggi unite contro il velleitarismo dell’accogliamoli tutti, e blaterano di africani che dovrebbero essere rimandati indietro per farli lottare, da soli, contro le dittature locali e le multinazionali. Per sognare una rivalsa dell’uomo disoccupato bianco arrivano a negare la realtà e i benefici della globalizzazione, lasciando la sinistra no border nella difficile posizione di condividere – com’è successo a Catania – il palcoscenico della protesta antirazzista con i liberali pro-global. La verità è che il vecchio Terzo Mondo non esiste più, ed è proprio la giovane classe media africana la più desiderosa di tentare la fortuna in Europa. Del resto basta vedere i numeri per capire quanto siano irrisori: 440 mila persone ogni anno lasciano il continente africano su una popolazione di 1,2 miliardi, appena lo 0,05 per cento. È dello stesso avviso Stefano Liberti, reporter e documentarista che ha realizzato nel 2012, insieme ad Andrea Segre, il documentario Mare chiuso: “Il rischio paventato da molti che in questo caso tutto il continente africano si riverserebbe da noi appare abbastanza infondato: quando sono stati liberalizzati i visti con l’Europa orientale non c’è stata quell’emigrazione di massa dai Balcani o dai Paesi ex sovietici. E, anche a guardare le cifre dei flussi attuali, l’emigrazione africana verso l’Europa è un’opzione tra le meno battute. La gran parte della popolazione non emigra e quando lo fa si sposta nei Paesi vicini al proprio, dove ha reti familiari, amicali, un tessuto di conoscenze meno spaesante rispetto all’Europa.”
Certo, ci sarebbe l’altra parte di viaggiatori, i profughi di guerra. Ci vorrebbe, dicono i due esperti, l’apertura eccezionale di corridoi umanitari o il rilascio, altrettanto eccezionale, di visti umanitari nelle nostre ambasciate, così da evitare l’attuale ressa ai confini balcanici, le stragi in mare e gli arresti alla frontiera. I numeri sono meno allarmanti di quanto sembrano. Su questo, però, deve intervenire l’Europa, spiega Del Grande. “Mentre dall’Italia e dalla Grecia, oggi terre di sbarchi, hanno ripreso a emigrare greci e italiani, Paesi come la Germania, la Gran Bretagna, o i Paesi scandinavi hanno una fortissima richiesta di manodopera straniera. E allora è inutile costringere migliaia di persone a sopravvivere a fatica nelle nostre periferie, “quando potrebbero contribuire allo sviluppo economico e culturale di altre regioni.”
Per quelli preoccupati della correlazione tra criminalità e immigrazione, tutte le statistiche più credibili ci dicono che gli stranieri regolari compiono più o meno lo stesso numero di reati degli italiani. Sono gli stranieri senza permesso, senza possibilità di accedere ai nostri servizi o a lavori regolari che hanno la tendenza a delinquere di più, per le condizioni in cui vivono che li portano inevitabilmente a un più aperto contatto con la criminalità e l’economia informale. Il problema è che gli stranieri senza permesso sono la maggioranza: nel 2016 in 35mila hanno ottenuto una forma di protezione internazionale, mentre poco meno di 32mila hanno ottenuto un permesso di soggiorno attraverso il canale principale, il cosiddetto decreto flussi. Tutti gli altri sono rimasti fuori.
La chiave di volta per convincere i cittadini che si sentono trascurati dalla politica, si legge in una ricerca italo-inglese, è far leva sui potenziali vantaggi derivanti dall’immigrazione: più facile a dirsi che a farsi. Quando il presidente dell’Inps Tito Boeri ha spiegato che gli stranieri contribuiscono positivamente al nostro welfare, il governo lo ha sommerso di critiche, ma non sembra avere alcun piano per salvarci da una demografia sfavorevole.
La prospettiva della lotta per una sembra solo una: ribaltare il destino che ci vuole tutti più vecchi, poveri e rancorosi; aprire le frontiere a un’immigrazione regolarizzata, concedendole visti su scala europea; lottare insieme agli stranieri per i diritti sindacali, per il diritto di voto e per l’accesso razionalizzato al nostro welfare. Finora in Italia abbiamo affrontato il fenomeno migratorio in modo demenziale, favorendo clandestinità, pregiudizi marginalità. Una terza via rispetto al presente confuso e a un futuro da incubo deve esistere: ma è tutta la classe politica continentale a doversi svegliare.