Salari, famiglia, tampon tax: leggi utili per le donne ma la parità resta un problema culturale - THE VISION
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Negli ultimi giorni, nel nostro Paese si è parlato di due importanti provvedimenti per le donne. Il primo riguarda l’approvazione unanime, da parte della Camera, della legge sulla parità salariale tra uomo e donna che comporta misure per ridurre il gender pay gap nel settore pubblico e privato e sgravi contributivi per le aziende più virtuose in tal merito. Il secondo è il taglio dell’Iva sugli assorbenti dal 22% al 10% previsto nella bozza della legge di bilancio. In entrambi i casi, si tratta ancora di ipotesi che vanno confermate: nel primo serve ancora il voto del Senato; e nel secondo bisogna attendere la versione definitiva del testo e la sua approvazione. Le due iniziative si uniscono al Family Act, un disegno di legge presentato dalle ministre per le Pari opportunità e la Famiglia Elena Bonetti e del Lavoro Nunzia Catalfo che, oltre a un assegno universale mensile per ogni figlio a carico, prevede anche l’estensione del congedo di paternità e incentivi per il lavoro femminile. Anche in questo caso, il ddl va approvato da Camera e Senato.

La legge sul gender pay gap è un testo unificato che porta la firma della relatrice Chiara Gribaudo, del Pd, e che andrà a modificare e a integrare il Codice delle pari opportunità del 2006. Nel nostro Paese, il divario retributivo tra uomini e donne non sembra così alto come in altri: siamo infatti al 4,7% per l’Eurostat e all’8,4% per l’Organizzazione internazionale del lavoro. Queste cifre non rispecchiano però la complessa realtà del gender pay gap in Italia. I numeri, che rappresentano la paga oraria lorda, sono bassi perché in Italia i salari lo sono altrettanto e man mano che la posizione lavorativa sale di livello, il divario si allarga sempre di più, arrivando a punte del 25%. Bisogna inoltre considerare che al di là della paga oraria, la disoccupazione femminile italiana resta la più alta d’Europa.

 Pagare un uomo più di una donna è, in teoria, illegale: lo vietano la Costituzione – articolo 37: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore” –; la Convenzione sull’uguaglianza di retribuzione per un lavoro di valore uguale dell’Organizzazione internazionale del lavoro, che l’Italia ha firmato nel 1953; e lo Statuto dei lavoratori del 1970, che proibisce la “concessione di trattamenti economici di maggior favore aventi carattere discriminatorio”. Nel 2006 fu inoltre introdotto il già citato Codice delle pari opportunità, che disciplina anche i rapporti di lavoro. Tuttavia, nessuna di queste misure è riuscita finora a contrastare il gender pay gap, che diverse aziende mettono in atto in maniera indiretta, agevolando ad esempio gli avanzamenti di carriera degli uomini rispetto a quelli delle donne o modificando gli orari in una maniera che penalizza le dipendenti che si devono occupare dei figli.

Con la nuova legge, il compito di vigilare sui comportamenti discriminatori passerà dal ministero del Lavoro a una figura apposita e verranno introdotte nuove fattispecie di discriminazioni indirette. Le aziende con più di 50 dipendenti dovranno poi redigere ogni anno un rapporto sulla parità di genere, obbligo che prima spettava solo alle aziende che ne avevano più di 100. Oltre alle quote di genere nell’amministrazione, anche per le aziende non quotate in borsa, viene inoltre introdotto un sistema di trasparenza e di certificazione che premierà con sgravi fiscali le più virtuose. Quella della trasparenza è poi una questione cruciale per il gender pay gap: in fase di negoziazione dello stipendio, le donne tendono infatti a chiedere salari più bassi degli uomini, sia perché temono di risultare troppo arroganti, sia perché non conoscono gli stipendi dei loro colleghi maschi.

La questione dell’Iva sui prodotti di igiene mestruale è invece stata sollevata più volte in passato, a partire dalla prima proposta presentata nel 2016 da Possibile e dagli emendamenti sulla legge di bilancio presentati ogni anno dal 2019 da Laura Boldrini. Anche su spinta di campagne di grande successo come la petizione “Il ciclo non è un lusso” di Onde Rosa, che ha raggiunto quasi 650mila firme, e “Ferma la tampon tax” di WeWorld, quell’anno il governo annunciò il taglio dell’Iva dal 22%, l’aliquota prevista per i beni di lusso, al 5%. Tuttavia, il taglio riguardava soltanto gli assorbenti biodegradabili e compostabili, una scelta ecologica ma ancora molto costosa e poco reperibile in Italia. Proprio perché la riduzione interessava solo una minuscola parte dei prodotti in commercio, la notizia fu accolta con freddezza anche a fronte dei passi in avanti compiuti negli ultimi anni negli altri Paesi europei – dove l’aliquota è già stata abbassata, se non proprio abolita. Il taglio su tamponi e assorbenti green, dopo la bocciatura dell’emendamento presentato da Boldrini per arrivare al 10%, sembrava inoltre un contentino.

Se dovesse essere approvato anche nel testo definitivo, l’abbassamento non incontrerebbe le aspettative delle attiviste che da anni chiedono di ridurre l’Iva sugli assorbenti al 4%, equiparandola a quella dei beni di prima necessità. Si tratterebbe però di un riconoscimento anche simbolico, e non solo economico: come si ripete nelle tante campagne, le mestruazioni non sono una scelta né tantomeno un lusso e per questo i prodotti di igiene mestruale andrebbero equiparati ad altri altrettanto necessari, come ad esempio la carta igienica. La diminuzione al 10% (cioè l’aliquota che già si applica alla maggior parte dei prodotti sanitari) sarebbe comunque un grande passo avanti rispetto anche solo a cinque anni fa, quando la proposta di Giuseppe Civati fu accolta dalle risate dei parlamentari. Anche se in queste ore molti ne parlano come di un dato di fatto, in realtà si tratta ancora di una bozza di programma e bisogna attendere il testo definitivo (e la sua approvazione) prima di cantare vittoria: anche nel 2019 il traguardo sembrava vicino, eppure all’ultimo si optò per una soluzione di cui solo poche persone potevano davvero beneficiare.

A parte il nome un po’ infelice, anche il Family Act può essere una misura molto importante per le donne di questo Paese, in particolare per quelle che hanno figli e lavorano. Oltre all’istituzione di un assegno universale per le famiglie e a misure per il sostegno alla natalità, il ddl prevede infatti anche iniziative interessanti per l’occupazione femminile – come sappiamo fortemente penalizzata dall’organizzazione familiare e dal lavoro di cura ancora svolto in gran parte dalle donne. Il congedo di paternità viene esteso e ampliato e vengono istituiti sostegni e detrazioni fiscali per usufruire dei servizi di cura come gli asili nido. Su quest’ultimo punto anche il Pnrr investe molti soldi nelle strutture per l’infanzia, anche se come hanno fatto notare in diversi ci sono differenze territoriali significative nell’assegnazione dei fondi che rischiano di aggravare una situazione già estremamente sbilanciata: a Bolzano, ad esempio, ci sono 7 posti ogni 10 bambini, a Catania 5 ogni 100.

Queste leggi e provvedimenti sono senz’altro un’ottima notizia in un Paese che è ancora molto indietro sul tema dell’uguaglianza, come sottolinea anche l’Istituto europeo per la parità di genere. Tuttavia, la storia insegna che le leggi da sole non bastano a incentivare il progresso, devono essere accompagnate da un più generale cambiamento dei costumi: una legge sulla parità salariale non fermerà la cultura maschilista che ancora esiste in molti ambienti di lavoro; l’abbassamento dell’Iva sugli assorbenti non risolverà la povertà mestruale o eliminerà il tabù sulle mestruazioni; il congedo di paternità o gli asili nido da soli non basteranno a risolvere il problema dell’occupazione femminile. Perché tutto questo avvenga, è necessaria una rivoluzione culturale che metta le esigenze delle donne al centro dell’agenda politica, speriamo quindi che queste leggi si inseriscano in questo orizzonte e rappresentino degli iniziali passi avanti.

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