Una legge contro l'omofobia è necessaria. La Cei probabilmente no. - THE VISION

La Conferenza episcopale italiana si è espressa sul disegno di legge sull’omofobia che giace nei cassetti della Commissione giustizia del Senato dal 7 ottobre scorso, che è stato presentato dal deputato del Pd Alessandro Zan il 2 maggio 2018 e la cui votazione è prevista a luglio. La Cei ha detto che “un’eventuale introduzione di ulteriori norme incriminatrici rischierebbe di aprire a derive liberticide, per cui – più che sanzionare la discriminazione – si finirebbe col colpire l’espressione di una legittima opinione”. Descrivere la legge sull’omofobia come un attacco alla libertà di opinione degno di una dittatura alla Orbán è un’operazione davvero singolare, visto che la meritoria proposta di legge di Zan è in realtà il minimo sindacale per un Paese dove negli ultimi sei anni si sono verificate più di mille aggressioni omotransfobiche.

Il disegno di legge in questione non fa altro che aggiungere agli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale in materia di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa la dicitura “oppure fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”, ma queste dieci parole sono bastate a far strappare i capelli agli ultracattolici la cui unica e martellante argomentazione è che questa legge sia lesiva nei confronti della libertà di opinione. A leggere il comunicato dei vescovi infatti, pare che reclamino il diritto di insultare a piacimento chiunque non risponda esattamente ai canoni della “famiglia tradizionale”. Evidentemente i porporati ritengono che un’aggressione, verbale o fisica che sia, mossa solo dall’intenzione di umiliare gay, lesbiche e persone trans sia una forma di libertà di espressione. Ma se le opinioni di cui si dovrebbe difendere la libertà hanno lo stesso calibro di quelle espresse dal professore emerito di Diritto penale Mauro Ronco – che nella giornata di audizioni per la legge ha parlato di omosessualità come di un “disturbo di carattere sessuale” paragonabile al voyeurismo, al masochismo e al sadismo – è chiaro che questa legge sia più che necessaria.

Nel nostro Paese l’omofobia dilaga. Ci sono gli insulti per strada, i pestaggi e anche gli omicidi. 212 attacchi registrati soltanto lo scorso anno, senza contare tutti quelli non denunciati per paura di vendette ancora più gravi. Secondo il progetto Hate Crimes No More del Centro Risorse Lgbti, il 73% delle persone della comunità LGBTQ+ ha subìto violenza omotransfobica e il 76,4% non ha denunciato l’accaduto. Questi episodi dunque non sono “casi isolati”. Al pari della violenza di genere, la violenza omofoba esiste perché c’è una cultura che la permette e la tollera, se non addirittura la incoraggia. Una cultura che continua a dire che i gay sono malati e l’omosessualità si può curare, che le donne trans non sono donne, che le famiglie con due mamme o due papà non sono vere famiglie, che sono un pericolo per “l’identità”, che sono uno scherzo della natura. Tutte argomentazioni che per la Chiesa sono “libertà d’opinione” e con cui si riempiono le prime pagine dei giornali conservatori. Poi c’è lo step successivo: bandiere arcobaleno bruciate, funerali inscenati durante un’unione civile da militanti di Forza Nuova, striscioni e cartelloni in difesa della famiglia tradizionale appesi di notte. Tutte azioni difese e rivendicate come innocenti libertà, ma che oltre a risultare molto offensive alimentano l’idea che essere gay, lesbica, trans, queer sia un errore, qualcosa di intrinsecamente sbagliato che va corretto anche a calci, pugni e coltellate.

Se la Cei, come scrive nel documento, è davvero contraria a “trattamenti pregiudizievoli, minacce, aggressioni, lesioni, atti di bullismo, stalking” in quanto “violazione della dignità umana”, dovrebbe avere l’onestà di riconoscere che sono proprio quelle “libertà personale, scelte educative, il modo di pensare e di essere, l’esercizio di critica e di dissenso” che vengono da loro rivendicate ad avallare questo tipo di episodi. È molto facile condannare la violenza, più difficile riconoscere le proprie responsabilità ideologiche. Ed è proprio la chiusa della nota a esprimere questa contraddizione, in cui la conferenza episcopale invita a “promuovere l’impegno educativo nella direzione di una seria prevenzione”. Potrebbe cominciare proprio la Cei, ad esempio, smettendo di parlare dell’inesistente “teoria gender”, prendendo le distanze dai gruppi e dai partiti di estrema destra – gli stessi che agiscono la violenza che i vescovi condannano – nei movimenti pro famiglia, condannando pubblicamente le teorie riparative per guarire dall’omosessualità, promuovendo finalmente la “pastorale omosessuale” e smettendo di cacciare i cattolici gay dalle parrocchie.

Poi sarebbe bello anche capire come si dovrebbe concretizzare questo “impegno educativo”, visto che ogni tentativo di portare l’educazione all’identità di genere e all’orientamento sessuale nelle scuole viene sistematicamente ostacolato o censurato e bollato come “teoria gender”. “Nel 2016 papa Francesco definiva la ‘teoria del gender’ una ‘colonizzazione ideologica’”, scrive il giornalista Simone Alliva in Caccia all’omo. “Oggi in Italia chi parla di gender ritiene che nelle scuole, sulla base delle strategie europee in linea con l’Oms, i ragazzi verrebbero spinti a esplorare i propri genitali. Tutto questo avrebbe come fine la distruzione della famiglia formata da un uomo e da una donna”. È dal 2013 che la Chiesa porta avanti questa crociata contro l’inesistente ideologia gender, “una vasta campagna di mobilitazione il cui principale obiettivo è quello di fabbricare una controversia sul genere definito non tanto a partire dai suoi usi teorici e politici emersi nel campo degli studi femministi e queer, ma nell’accezione deformata datane dal Vaticano”, come scrivono Sara Garbagnoli e Massimo Prearo, i massimi esperti in Italia sull’argomento. Teorie elaborate direttamente dal Pontificio Consiglio per la Famiglia che ha stabilito in maniera inequivocabile l’attacco del “gender” contro i valori cristiani.

La Chiesa, insomma, sembra avere diritto di parola in ogni questione che riguardi la comunità LGBTQ+ e, più in generale, sulle decisioni politiche del nostro Paese, come è accaduto ad esempio con le leggi sull’eutanasia. L’ipotesi che la nota della Cei freni il già difficile percorso del ddl non è poi così lontana. Già nel 2013, quando Ivan Scalfarotto del Pd (oggi Italia Viva) propose il suo disegno di legge sull’omofobia – naufragato in Senato – per accontentare la Chiesa fu approvato un emendamento firmato da Gregorio Gitti (sempre del Pd) secondo cui “non costituiscono discriminazione né istigazione alla discriminazione la libera espressione e le manifestazioni di convincimenti od opinioni riconducibili al pluralismo delle idee”. L’emendamento, soprannominato “salvavescovi” di fatto vanificava gli sforzi della legge, aprendo quel vuoto normativo che il ddl stesso si proponeva di colmare. E infatti, il promotore del nuovo disegno Zan ha già rassicurato i vescovi che “non verrà  esteso all’orientamento sessuale e all’identità di genere il reato di ‘propaganda di idee’”.

Gregorio Gitti

Il problema dell’assenza di una legge sull’omotransfobia, come sottolinea Alliva, non è solo ideologico, ma “gli effetti di una mancata legge sono nelle cronache dei processi di aggressione omotransfobica che arrivano a sentenza ma senza l’aggravante”. Perché una legge sull’omotransfobia non colpirebbe solo qualche alto prelato che pontifica sulla “lobby gay”, ma sanzionerebbe più correttamente i crimini d’odio sulla base dell’orientamento sessuale e sull’identità di genere. Infatti non si capisce bene su quali basi la Cei sia riuscita a stabilire che “esistono già adeguati presidi con cui prevenire e reprimere ogni comportamento violento o persecutorio”. Lo vadano a dire al 38enne a cui è stato rotto il naso e la mascella a suon di “brutto finocchio di merda”, ma per il quale non è stata riconosciuta nessuna aggravante omofoba. Il quotidiano della Cei, Avvenire, che oggi alcuni celebrano come un baluardo di progressismo, ritiene che la legge Mancino sia sufficiente per condannare le discriminazioni. Ma non tutti sembrano pensarla così negli ambienti cattolici, dato che altri giornali di ispirazione religiosa sostengono che sia inaudito applicare la legge Mancino per la “cosiddetta omofobia”.

Insomma, dei dubbi vengono se l’Italia – in cui si consumano circa 200 aggressioni l’anno contro la comunità LGBTQ+ – è, a detta della Chiesa, già perfettamente equipaggiata contro l’omotransfobia. D’altronde parliamo dello stesso Paese in cui l’omofobia non esiste, ma in cui il presidente del Consiglio pochi anni fa diceva pubblicamente “Meglio le belle ragazze che essere gay”; dove il vicepresidente del consiglio comunale di Vercelli scrive su Facebook “Ammazzateli tutti ‘ste lesbiche, gay e pedofili”; dove una consigliera comunale di Rieti vieta il Pride “perché sdogana la pedofilia”; dove il consigliere comunale di Trieste scrive su Facebook che i gay “Si sfondano il culo e litigano quando manca la vaselina”. Ma, d’altronde, stiamo pur sempre parlando di libertà d’opinione. Forse, più che della Cei, il nostro Paese avrebbe un disperato bisogno di laicità e di una legge che si cerca di far passare da 23 anni senza risultati.

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