È possibile sostenere in assoluta tranquillità che “il parere del Consiglio Superiore della Sanità sulla commercializzazione di prodotti contenenti Thc” sia l’equivalente del “Mettiti la biancheria pulita che potresti fare un incidente.” Più che una raccomandazione scientifica, il principio di precauzione sbandierato dal Css sembra l’ennesimo tentativo – per quanto educato e civile – di istituzionalizzazione del proibizionismo.
Il parere del Consiglio, richiesto a febbraio dall’allora ministro Beatrice Lorenzin, consegnato il 10 aprile e reso noto la scorsa settimana dal neo ministro Giulia Grillo, raccomanda di “predisporre misure atte a non consentire la libera vendita dei prodotti contenenti o costituiti da inflorescenze di canapa”, nell’interesse, si legge, “della salute individuale e in applicazione del principio di precauzione.”
Una raccomandazione che è avvertita come una minaccia al mercato in pieno sviluppo della cannabis light, ma che non avrà in realtà nessun effetto. Almeno nell’immediato.
Il ministro Grillo ha già mostrato una migliore capacità di reazione rispetto al suo predecessore, quel ministro Lorenzin diventata famosa più per l’infelicità di alcune sue “uscite progresso” che non per il suo lavoro parlamentare. La titolare del dicastero della Salute ha infatti comunicato che, prima di qualsiasi provvedimento a riguardo, bisognerà attendere il parere dell’avvocatura dello Stato. L’ipotesi più verosimile sembra essere l’introduzione del divieto di vendita ai minori di 18 anni, e che vengano inserite scritte sulle confezioni per indicare al consumatore i rischi che corre. Magari una bella scritta “Occhio perché non si sa mai.”
Ma l’uscita del Consiglio superiore un effetto, per quanto indesiderato, l’ha avuto: ha infervorato gli animi intorno al dibattito sulla legalizzazione o liberalizzazione della cannabis. Un tema che, dopo migranti, tasse, rom, scorta di Saviano e benpensatignégnégné è sicuramente nella top list di Matteo Salvini. Proprio nei giorni scorsi il ministro dell’Interno ha ribadito la sua volontà di combattere gli “spacciatori di morte”, piazzando polizia e carabinieri davanti le scuole. “Lo dico da papà non da ministro,” precisa Salvini, e si vede, perché un ministro dell’Interno dovrebbe sapere che gli istituti scolastici in Italia sono 40mila e il costo di un’operazione di tale portata sarebbe davvero poco sostenibile.
Ancora più preoccupante è però l’affermazione fatta dal ministro durante la trasmissione Matrix di Radio 105. Senza sforzarsi di entrare nel merito delle azioni da intraprendere, Salvini ribadisce un pensiero caro ai proibizionisti, che tra l’eroina e la cannabis non esiste alcuna differenza: “Non distinguo tra pesanti e leggere.” Le parole del segretario della Lega suonano superficiali, approssimative: non sono frutto di un attento studio del caso, né hanno una base scientifica – come per quanto riguarda i vaccini.
Sia il nostro ministro sia il Css risultano disallineati rispetto all’evoluzione dello scenario internazionale. Solo qualche giorno fa, l’Organizzazione mondiale della Sanità ha annunciato l’avvio, per la prima volta nella storia, di una revisione delle proprietà terapeutiche della cannabis, con probabile declassificazione della sua pericolosità nelle tabelle internazionali. La stessa Oms che, nel dicembre 2017, si era già pronunciata anche sul Cbd, dichiarando che il cannabidiolo non crea dipendenza, non provoca effetti psicoattivi o cardiovascolari avversi e non comporta rischi per l’individuo né per la società. Di più: possiede proprietà terapeutiche promettenti.
Se è vero che la letteratura medico scientifica a riguardo è decisamente contraddittoria, è bene affidarci allo studio più recente, autorevole e completo che abbiamo a disposizione. Un rapporto pubblicato nel 2017 dalla National Academies of Sciences ha esaminato gli oltre 10mila studi, a partire dal 1999, sull’utilizzo della cannabis a scopi medici o ricreativi, e ha stabilito per la prima volta con chiarezza quali siano gli effetti positivi e negativi sulla salute dell’uomo. Sul sospetto che la marijuana sia la porta d’ingresso per consumo di droghe pesanti, la ricerca ha trovato prove che variano dal “limitate” al “moderate”.
Anche uno studio del 2015 pubblicato sulla rivista Scientific reports ha confermato come la marijuana sia decisamente meno pericolosa di altre droghe. I ricercatori Dirk Lachenmeier e Jurgen Rehm, della Klinische Psychologie & Pshychoterapie presso l’Università tecnica di Dresda, hanno messo a confronto gli effetti sulla salute di sette stupefacenti (alcool, tabacco, cocaina, ecstasy, metanfetamina, eroina e marijuana), scoprendo che la marijuana è la più innocua della lista. Centoquattordici volte meno pericolosa, in termini di mortalità, rispetto all’alcool.
Probabilmente Salvini non ha letto nessuna delle due indagini. Forse non le ha nemmeno cercate. E anche stavolta, caro ministro, le informazioni corrette le daremo la prossima volta.
Un altro degli spauracchi utilizzati da chi si oppone alla legalizzazione delle droghe leggere è l’implicito incentivo al consumo che ne deriverebbe. I Paesi Bassi sono uno stato pioniere in termini di “legalizzazione” intesa come un complesso regime di tolleranza del possesso e della vendita delle sostanze stupefacenti, risalente all’Opium Act del 1976. Per questo rappresenta il principale esempio per un’analisi degli effetti di una possibile legalizzazione anche altrove. Se si confronta il numero di persone tra i 15 e i 64 anni che hanno utilizzato cannabis di recente, o che l’hanno provata almeno una volta nella vita, non risulta che l’Olanda abbia consumi molto diversi rispetto agli altri Paesi occidentali. Secondo uno studio dell’Open Society Foundations del 2012 sono infatti il 7% gli olandesi che hanno fatto uso di cannabis di recente, contro il 6,7% della media europea, il 9,1% del Canada e l’11,5% degli Usa. Per quanto riguarda chi l’ha provata almeno una volta, si arriva al 25,7%, molto indietro rispetto al 39,4% canadese e al 41,9% americano, e poco sopra la media europea del 23,2%. Lo studio sostiene inoltre che, tra il 1996 e il 2012, il consumo di cannabis tra i giovani nei Paesi Bassi abbia visto un calo costante, e che nella fascia di età tra i 15 e i 34 anni la media olandese fosse in linea con quella europea. Quindi no, stando all’esempio olandese la legalizzazione (o un regime di tolleranza del possesso e della vendita delle sostanze stupefacenti) non aumenta il consumo di cannabis. E questo grazie anche ai sostanziosi investimenti dello stato olandese in politiche di informazione, prevenzione e riduzione del danno, finanziate dalle tasse (circa 400 milioni di euro all’anno) sugli introiti generati dalla vendita di droghe leggere nei coffee shop.
Ma l’Olanda non è più l’unico metro di paragone. Dal primo gennaio 2018 la California ha dato il via libera al commercio della marijuana per uso ricreativo. Lo Stato più popolato degli Stati Uniti si va ad aggiungere agli altri stati americani in cui il consumo e il commercio della marijuana sono già legali, come Alaska, Colorado, Nevada, Oregon e Washington. Nel Maine per il momento è possibile avere dosi per uso personale, e la vendita al dettaglio dovrebbe iniziare a metà del 2018, mentre in Massachusetts sarà legale dal luglio 2019.
Nel frattempo, il Canada è stato il primo paese del G7 a legalizzare a pieno titolo la marijuana a scopo ricreativo.
Come specificato dalla relazione annuale dell’Onu sul contrasto alla droga, è ancora presto per valutare i risultati di questi provvedimenti. Le considerazioni più attendibili si posso fare analizzando la situazione in Colorado, il primo Stato Usa a legalizzare la marijuana a scopo ricreativo. E anche in questo caso, dai dati contenuti in un report del governo statale, risulta che la misura non abbia portato a un aumento del consumo tra gli adolescenti.
La realtà statunitense è ancora più interessante se consideriamo l’impatto benefico che, secondo recenti dati della polizia di frontiera americana, la legalizzazione ha prodotto sulle importazioni illegali di stupefacenti dal Messico. È un dato che si dovrebbe tenere in grande considerazione: il nostro è infatti il Paese con le organizzazioni criminali più potenti e pericolose al mondo, che su produzione e vendita di sostanze stupefacenti hanno costruito, e continuano a alimentare, le proprie fortune.
Se il vicepresidente e ministro dell’Interno si degnasse di approfondire la questione, per citare Giorgia Meloni, saprebbe che è opinione pressoché unanime che la “war on drugs“ sia stata un totale fallimento. L’ha affermato l’Onu già nel 2016, ma anche la Direzione distrettuale antimafia. Il procuratore nazionale Franco Roberti ha sottolineato come anni e anni di proibizionismo non siano riusciti a contenere il fenomeno, evidenziando come la legalizzazione potrebbe liberare risorse utilizzabili nel contrasto alle droghe pesanti.
Perché, che ne dica Salvini, la differenza fra droghe pesanti e leggere esiste. E dovrebbe averlo imparato visto che la Lega (allora Nord) faceva parte del governo Berlusconi III, che nel 2006 ebbe la geniale idea di votare la Fini-Giovanardi, più che una legge una tragedia. Il primo ed enorme problema di quella legge era proprio la comparazione errata tra droghe pesanti e leggere, che nel 2014 ha portato la Consulta a giudicarla incostituzionale. In otto anni quella legge è riuscita a fare tutti i danni che poteva, in particolare sulla popolazione carceraria: il 38,6% degli attuali detenuti sono imputati o condannati per reati di droga. Si tratta di una proporzione di quattro su dieci, un dato che riassume bene il sovraffollamento carcerario. La legalizzazione potrebbe aiutarci a risolvere anche questo problema.
II parere del Consiglio superiore della sanità è stata l’ennesima occasione per tentare di affermare un proibizionismo fine a se stesso. Soprattutto per quei padri-non-ministri che prima di parlare avrebbero bisogno di pensare. Pratica che per il principio di precauzione andrebbe sempre rispettata. In alternativa, meglio forse farsi una canna, con la biancheria pulita s’intende.