Durante uno degli interminabili pomeriggi di quest’estate ho scoperto One Million Checkboxes, un gioco online che avevo visto menzionare più volte su vari thread di Reddit. Era un pomeriggio in cui avevo programmato di fare mille cose, senza poi iniziarne neanche una, trovandomi a un passo dal finire risucchiata nel vortice di sensi di colpa che da un po’ di tempo a questa parte mi genera l’improduttività delle ferie, forse perché come molti altri non so più come si fa a fermarsi davvero. One Million Checkboxes fa esattamente ciò che promette: è un gioco il cui fine è spuntare un milione di caselle vuote, tutte identiche e ordinatamente allineate sullo schermo, ripetendo questa banalissima azione in contemporanea ad altre migliaia di giocatori. Ognuno di questi, infatti, può scegliere se spuntare caselle o togliere le spunte che qualcun altro ha messo, rendendo quindi One Million Checkboxes un’impresa praticamente impossibile da realizzare, oltre che evidentemente una colossale perdita di tempo.
A qualche settimana dal lancio, avvenuto alla fine dello scorso giugno, One Million Checkboxes ha registrato un picco di 500 mila utenti coinvolti in contemporanea, per poi continuare a crescere fino a diventare una delle manie estive di internet. La dimostrazione, a mio parere, che in un momento storico in cui continuiamo a sentirci ripetere che siamo sempre più distratti e incapaci di concentrarci, questa nostra distrazione non rappresenta soltanto un automatismo che non riusciamo a evitare, ma un vero e proprio bisogno emotivo a cui cerchiamo di rispondere anche nei modi più apparentemente insensati e surreali. C’è infatti qualcosa di confortevole nell’idea di avere sempre a disposizione un riempitivo che ci consenta di rimanere più o meno distratti da noi stessi e da ciò che ci accade attorno, poco importa se si tratti di un’agenda fitta di impegni o di un milione di caselle da spuntare. Quello che conta è mantenere la giusta distanza di sicurezza dalla nostra emotività e dai pensieri con cui vorremmo poter evitare di confrontarci – soprattutto in un contesto in cui abbondano, tra le preoccupazioni legate all’attuale quadro geopolitico, le potenziali conseguenze inquietanti dell’ondata di estrema destra che sta interessando tutta Europa, passando per il sentimento d’epilogo che gli eventi estremi legati al cambiamento del clima ci trasmettono.
Per molti, una delle risposte più efficaci a questo bisogno di distrazione è il lavoro. Sembra paradossale dirlo, dato che spesso gli impegni lavorativi sono esattamente ciò da cui vorremmo saper staccare – proprio perché oggi riuscirci sembra un’impresa quasi impossibile per sempre più persone. Ma riempirsi la testa di lavoro – anche e soprattutto fuori orario, senza pause, per tutto il tempo che abbiamo a disposizione dentro e fuori dall’ufficio – può diventare una sorta di strategia di evasione da angosce che non hanno nulla a che fare con la nostra carriera, sollevandoci, almeno momentaneamente, dall’onere di affrontarle, o di riflettere davvero su come ci fanno sentire.
Buttarci sul lavoro ci consente così di innescare una sorta di pilota automatico, di concentrarci su un contesto noto e socialmente codificato in cui, anche quando non siamo del tutto a nostro agio, sappiamo bene come muoverci, e di mettere a tacere invece delle fonti di turbamento più profonde connesse con tutti gli altri ambiti della nostra vita, soprattutto quando queste ci sembrano al di fuori delle nostre possibilità. In questi casi, la dipendenza dal lavoro può diventare la risposta a uno stato di disagio e nervosismo generalizzato, che negli ultimi anni stiamo imparando a conoscere. E come tante dipendenze, rischia di peggiorare la situazione che dovrebbe alleviare, per poi ripresentarci, tutto in una volta, il malessere che pensavamo di poter mettere da parte, facendoci sentire ancor più stanchi, oberati e incapaci di farvi fronte.
Si tratta di un effetto sotterraneo, a lento rilascio, molto più sottile e difficile da individuare rispetto alle conseguenze negative esplosive e immediatamente impattanti che la dipendenza da lavoro ha sulla salute mentale – come per esempio il burnout – e per questo, forse, viene tenuto meno in considerazione. Secondo recenti studi, però, può diventare altrettanto dannoso, soprattutto se l’illusoria sensazione di sollievo che deriva dall’avere la testa sempre impegnata in questioni lavorative inizia a essere percepita come un meccanismo di autodifesa efficace, che ci consente di trascurare tutti gli altri fattori che concorrono a determinare il nostro stato emotivo. Come si legge in un articolo pubblicato nel 2016 sulla rivista scientifica statunitense PLOS One, infatti, “la dipendenza da lavoro (in alcuni casi) può svilupparsi anche come tentativo di ridurre sentimenti scomodi correlati con ansia e depressione”. Se da un lato, dunque, sono ormai numerose le evidenze che hanno dimostrato la forte associazione tra la dipendenza da lavoro e l’insorgenza di disturbi della salute mentale, dall’altro lato alcuni psicologi hanno iniziato a sostenere una possibile inversione della causalità, con un crescente numero di persone che tenta di trattare il proprio malessere emotivo riempiendosi di lavoro, quasi tentando di seppellirlo sotto l’accumulo di call giornaliere, scadenze da rispettare e ore di straordinari.
Da un lato, a far sembrare questo meccanismo particolarmente efficace è il ruolo soverchiante che il lavoro ancora riveste nella nostra società, risultando preminente rispetto alle altre attività che svolgiamo. Questo dogma che solo negli ultimi tempi inizia a essere messo in discussione porta con sé il vantaggio – solo apparente – di poter delegare alla nostra personalità lavorativa il compito di rappresentarci in toto, così da condensare la nostra esperienza e ridurla a ciò che ci accade quando siamo in ufficio: i problemi da risolvere coincidono con i task da portare a termine entro fine giornata, i picchi d’ansia arrivano con le consegne, i timori sono quelli legati al feedback del proprio capo o di un cliente. Tutte sensazioni che possono di certo risultare spiacevoli, ma che raramente diventano ingovernabili, e che soprattutto appaiono comprensibili e giustificate. Per questo, anche se la rappresentazione che ci riduce alla nostra identità lavorativa non può che essere insufficiente, essa può risultare in un certo senso rassicurante, perché restringe il nostro mondo e il nostro campo d’azione abbastanza da farci sentire in controllo, sicuri delle nostre scelte e capaci di prevederne le conseguenze – cosa che non accade affatto, invece, quando guardiamo a eventi o sentimenti che riteniamo “più grandi di noi”, e che ci fanno paura proprio perché non sappiamo come agire per farvi fronte.
A differenza della maggior parte delle dipendenze, lavorare troppo è un comportamento che continua a ricevere un enorme apprezzamento sociale – quando non direttamente una ricompensa economica. Un atteggiamento che connettiamo alla capacità di impegnarsi e di porsi degli obiettivi da realizzare, all’affidabilità e alla solidità di una persona, non certo al tentativo di celare o mettere a tacere in qualche misura le sue vulnerabilità. Per questo motivo, oltre che per le conseguenze fisiche che consideriamo imparagonabili, per esempio, a quelle connesse con la dipendenza da sostanze – nonostante esistano e possano diventare gravi, anche nel caso del lavoro – spesso ci sfugge quanto i meccanismi che si innescano a livello psicologico siano molto simili a quelli della ludopatia o della tossicodipendenza. Esiste, per esempio, una sorta di proprietà automedicante che determinate persone attribuiscono alla propria dipendenza, che sia da alcol, stupefacenti, lavoro o gioco d’azzardo. Lo dimostra, tra gli altri, uno studio del 2018 apparso sulla rivista Depression and Anxiety, dove viene riportato che, in media, le persone che provano ad alleviare i propri disturbi emotivi o a compensare degli squilibri di salute mentale attraverso una dipendenza hanno oltre sei volte di probabilità in più rispetto alle altre di aggravare il loro assoggettamento a una determinata sostanza o a un comportamento, che considerano “terapeutici” per il sollievo temporaneo che questi sono in grado di fornire. Lavorare senza limiti, infatti, ci dà la percezione di essere persone efficienti, quindi apprezzabili, e assolutamente autonome nel risolvere i propri problemi: tutti aspetti appaganti e validanti agli occhi degli altri, tanto da non farci scorgere i loro potenziali effetti collaterali.
Spesso, però, al contrario, questo lavoro totale ci rende solamente frustrati, esausti, privi di energie per godere di emozioni positive, figuriamoci affrontare quelle negative. Dovremmo quindi imparare a riconoscere i nostri tentativi di comprimere i sentimenti all’interno della routine lavorativa per ridimensionarli o nasconderceli, in modo che essi non intacchino la nostra salute mentale fino a farci sentire sopraffatti. Un primo passo, in questo senso, può essere quello di diffidare dalla gratificazione momentanea che la dipendenza da lavoro ci dà, cercando di non fondare il nostro valore professionale sulla capacità di sopportare i vari atteggiamenti che, pur facendoci sentire al massimo della nostra produttività, ci impongono di rinunciare a tutto ciò che c’e oltre il lavoro. Dovremmo iniziare innanzitutto a chiederci quante delle cose che facciamo per riempire il tempo siano un tentativo di risposta al nostro bisogno di distrazione, e quindi di evitamento. Non tanto perché individuarle possa automaticamente alzare di qualche tacca l’asticella di 8 secondi entro i quali riusciamo ancora a rimanere concentrati, ma perché esercitare un certo tipo di attenzione e ascolto verso se stessi, i propri ritmi ed emozioni è una delle poche strategie di resistenza che possiamo adottare nei confronti di una serie di meccanismi di difesa illusori, con cui tentiamo di proteggerci dai rivolgimenti che la realtà ci presenta, finendo per accumularli e lasciarli indigeriti a corrodere il nostro benessere. Per trovare un punto d’appoggio saldo tra le nostre paure e incertezze, infatti, non possiamo appellarci a un’efficacia e a una produttività che ci impongono di rimuoverle al più presto, assecondando l’istinto che ci porterebbe a volerle debellare dal nostro sentire. Quello che ci serve è prenderci più tempo per interpretarle, magari non da soli; per renderci conto della loro reale misura e portata, dal momento che spesso, a farle apparire ingestibili, è proprio il fatto di non averle esaminate da subito con la giusta attenzione.