L’uomo guarda il giovane al di là della scrivania, lo scruta con fare analitico mentre l’altro – visibilmente teso – è seduto sul bordo della sedia. L’uomo gli chiede quali sono le sue ambizioni, le sue capacità e le motivazioni che l’hanno spinto a candidarsi per quel posto di lavoro. Il giovane cerca di rispondere nel modo più convincente possibile. Poi l’esaminatore prende in mano il curriculum e lo legge distrattamente, alza le sopracciglia, accenna un sorriso. Il ragazzo è ormai aggrappato al bordo della scrivania, in attesa di una risposta. L’uomo gli rivolge lo stesso sorriso di poco prima e, con tono sarcastico, articola: “Lei parte già con un handicap: ha conseguito una laurea in lettere.”
Questo non è l’inizio di un racconto sul precariato, e nemmeno una scena di Smetto quando voglio, ma una situazione in cui molti si ritrovano ogni giorno. “Ti sei laureato in lettere, che cosa ti aspetti?” è una frase che si sente dire spesso. Sembra che in Italia si sia diffusa la convinzione, anche sulla base di dati reali, che le lauree umanistiche non servono a niente, sia da parte di chi il lavoro lo offre, sia di chi lo cerca.
I giovani laureati in lettere, filosofia e storia dell’arte conoscono bene quell’ansia che prende la bocca dello stomaco i mesi prima della laurea, quando ti rendi conto che dovrai fabbricarti un’alternativa ad hoc; e conoscono anche quella serie infinita di dinieghi, alcuni sotto forma di cordiali “Le faremo sapere” o più diretti “Non cerchiamo personale”; o ancora, le giornate passate a navigare in cerca di annunci, a stilare curriculum con l’ansia di compilare tutto alla perfezione, perché una virgola fuori posto potrebbe rovinare quei cinque minuti di attenzione che qualcuno dedica alla tua biografia. I neolaureati conoscono la sensazione di essere lentamente declassati, guardati con condiscendenza, mentre, dopo molti mesi di fallimenti, si decidono ad accantonare il sogno di trovare un lavoro in continuità con ciò che hanno studiato – anche solo una supplenza in un paesino a 80 chilometri dalla propria residenza, uno stage sottopagato in un’agenzia di comunicazione o un posto nella biblioteca di quartiere ad annoiarsi guardando gli adolescenti fare i compiti.
Dalla frustrazione nascono i ripieghi, e i neolaureati iniziano a distribuire i loro curriculum per diventare commessi o camerieri, ben consapevoli il più delle volte di non avere affatto le effettive capacità per sostenere quel lavoro. Se tutto va bene, rimedieranno un contratto a termine in qualche grande catena, si sveglieranno all’alba per fare caffè o piegare mucchi di vestiti tutto il giorno. E al cugino di qualche anno più piccolo, in procinto di iniziare l’università, consiglieranno di fare ingegneria, anche se non gliene frega niente.
Se il neolaureato è fortunato, avrà dei genitori che – memori di come funzionava il mercato del lavoro quando loro, con un semplice diploma, sono diventati impiegati comunali – gli diranno: “Non ti preoccupare! Una persona piena di talenti come te troverà qualcosa! Tutto si risolverà!” Il neolaureato ringrazierà, ma dentro di sé penserà che questi cinquantenni che desumono la propria visione del mondo dalle fiction family friendly di Rai Uno abbiano perso il contatto con la realtà. Se, al contrario, il giovane è sfortunato, a nulla varranno le fatiche per cercare un posto decente. I familiari che hanno fatto un investimento su di lui, saranno impazienti di essere risarciti. Ma l’investimento è stato a perdere. La madre inizierà a guardarlo con apprensione, il padre gli ricorderà che alla sua età lavorava già da due anni. Il conto in banca vicino allo zero spingerà il neolaureato a investire gli ultimi risparmi per l’acquisto di una bici nuova: sarà arrivato il momento di fare il fattorino.
Un giorno il neolaureato, bardato nella casacca multicolore da rider, incontra un suo ex compagno di università. Si sono laureati nella stessa sessione e con lo stesso professore. Entrambi sanno che arriverà il fatidico momento di aggiornarsi sulle proprie rispettive situazioni esistenziali. La domanda “E ora tu cosa stai facendo?” segna lo spartiacque di molte conversazioni fra i quasi trentenni. Bisogna inventarsi una risposta convincente, evitando di far trasparire la disperazione. Il neolaureato indica allora la divisa da rider che si commenta da sola. L’altro, invece, inizia a disquisire di Kant o Hegel: sta facendo un dottorato e sembra molto soddisfatto. Il neolaureato si congratula, ma in realtà gli rode. L’altro non era più brillante di lui o più interessato alla materia: come ha fatto, allora, si chiede, a raggiungere quel traguardo? Magari è stato più fortunato, o forse un po’ più determinato, sicuro di sé, pazzo, convincente, coraggioso, sognatore, o magari suo zio è un accademico.
Questo non è un racconto distopico, ma l’affresco della quotidianità di molti giovani fatti passare per choosy. Lo dimostrano le statistiche: secondo il rapporto Ocse del 2017, se il tasso di occupazione per i laureati in ingegneria è dell’85%, e nelle materie economico-giuridiche dell’81%, per le materie umanistiche scende al 74%. Fra i laureati tra i 25 e i 34 anni solo il 64% ha un lavoro, a fronte di una media europea dell’83%. Intraprendere un percorso umanistico non paga, per questo il 53% degli adolescenti italiani è iscritto a un istituto tecnico, d’altronde il 68% dei diplomati in istituti professionali lavora, una percentuale superiore al dato occupazionale dei laureati. Eppure, nonostante questo, c’è ancora un 30% di neolaureati che ha intrapreso e concluso un percorso umanistico.
I datori di lavoro nostrani non riconosco ai laureati in materie umanistiche capacità tali da essere applicate nel contesto aziendale. Eppure dovrebbe essere palese che un caposaldo della cultura umanistica è proprio la flessibilità, la capacità di risolvere problemi utilizzando un pensiero laterale, creativo, lontano dal meccanicismo. In Questa è l’acqua – il celebre discorso tenuto ai neolaureati del Kanyon College, nel 2005 – David Foster Wallace spiegava ai ragazzi che il pensiero umanistico non educa solo a “come pensare”, ma anche a “cosa pensare”. Wallace sottolineava le peculiarità di un approccio duplice: da una parte un metodo in grado di connettere saperi lontani fra loro, dall’altra la possibilità di creare il proprio paradigma, rielaborando le informazioni in materia critica.
Il sapere umanistico in ambito lavorativo non solo permette di adattarsi alla continua richiesta, oggi, di padroneggiare presunte tecniche di storytelling, ma rinfresca – e si esprime in risvolti estremamente pratici – le nozioni di problem solving. Inoltre, grazie all’abitudine a una prospettiva critica, iscrive il lavoro in un orizzonte etico. Non si può fare un paragone univoco fra Italia e Stati Uniti, perché il sistema educativo è differente. In Italia si predilige l’aspetto teorico, volto a una formazione che spesso è slegata dall’ambito lavorativo. Negli Stati Uniti si insegna un sapere utilitaristico, che fornisce precisi strumenti di orientamento nel mercato del lavoro. Tanto che non si parla di “cultura umanistica”, ma di humanities e liberal art, discipline che forniscono competenze in grado di rimodulare il sapere in senso strumentale. Un esempio è il counseling filosofico, una figura che si affianca allo psicologo e lo psicanalista, mettendo a frutto gli studi in filosofia per fornire supporto psicologico.
Una relazione dell’American Academy of Arts and Sciences mette in luce come negli Stati Uniti il reddito degli umanisti sia di 72mila dollari, sempre inferiore agli 82mila dei colleghi laureati in materie scientifiche, ma comunque discretamente superiore rispetto ai 34mila dollari dei semplici diplomati.È il settore delle nuove tecnologie a dare una spinta decisiva: le aziende della Silicon Valley, per lo sviluppo di software complessi e progetti legati all’intelligenza artificiale, stanno assumendo laureati in filosofia. Allo stesso modo le grandi compagnie di Wall Street cercano di sperimentare nuovi approcci assumendo laureati in letteratura e storia dell’arte.
L’obiettivo non è magnificare l’approccio statunitense a discapito di quello italiano: entrambi hanno le proprie criticità. Ma, come detto, se uno dei punti di forza del sapere umanistico è il pensiero critico, rendere questo tipo di formazione unicamente finalizzata alla ricerca del lavoro significherebbe impoverirla, minarne il significato profondo. D’altro canto, l’attuale approccio italiano predispone a un precariato cronico per il neolaureato che si trova disorientato, incapace di muoversi in ambiti non accademici.
Il prestigio della cultura umanistica, almeno fino al liceo, e la successiva svalutazione sul mercato del lavoro, che non è in grado di comprendere il valore di quel tipo di formazione, è una contraddizione tutta italiana. Il patrimonio umanistico viene inteso come serie di conoscenze che nobilitano la persona, ma che non hanno modo di essere applicate, quasi fossero solo citazioni colte da sfoggiare nelle chiacchiere fra amici.
Sembra che in Italia lo scenario sia rimasto quello descritto da Ermanno Olmi ne Il posto: una faticosa avanzata verso la scrivania successiva, grazie solo al proprio puntiglio da ragioniere, l’unica capacità riconosciuta nell’azienda.
Si tratta di un film del 1961, ma sembra che non sia cambiato nulla nella testa dei datori di lavoro. Bisogna stare al proprio posto e sgobbare seguendo un modo di pensare sorpassato, e a nulla vale l’approccio critico che può donare lo studio delle discipline umanistiche. Dovrebbe essere evidente che, in un mondo che diventa di giorno in giorno più complesso, saper variare la propria metodologia di lavoro e avere attorno a sé collaboratori in grado di sperimentare diversi approcci, non è solo una questione di buonsenso, ma riguarda piuttosto la sopravvivenza e la compatibilità della propria azienda con ciò che le sta intorno. Il sapere scientifico è uno strumento potente, ma non affiancargli la componente umanistica significa guidare un corpo con cento braccia e privo di testa.