Sono passati quasi vent’anni da quando Mario Borghezio salì sull’intercity Milano-Torino e spruzzò del disinfettante su un gruppo di donne nigeriane, definendo il proprio gesto “Un’azione di bonifica delle puttane africane che occupano il nostro Paese.” Fu un episodio dal forte impatto mediatico, che spiazzò l’opinione pubblica e da cui presero le distanze anche esponenti della destra e del suo stesso partito: era una questione di dignità umana, a prescindere dalla propria posizione politica sull’immigrazione.
Se proviamo a ricollocare quel fatto nell’Italia di oggi, è facile immaginare un Borghezio applaudito e sostenuto, probabilmente da una considerevole fetta di italiani, con il video condiviso sul web centinaia di migliaia di volte. Si ha questa impressione scorrendo le migliaia di commenti sui social, con toni sempre più intolleranti, a tratti feroci, nei confronti degli immigrati. Ma anche al bar o in strada, dove abbondano i “non sono razzista, ma…” e i “se ne tornino al loro Paese”.
E se i messaggi della “pancia” del Paese non possono bastare a rispondere al dubbio se siamo davvero diventati un popolo di razzisti, o se lo siamo sempre stati, è certo che la direzione indicata dai sondaggi, dalle statistiche e dai recenti fatti di cronaca non è confortante. Nell’indagine di Swg “Nella società del rischio le paure emergenti”, pubblicata a novembre 2017, il 65% degli intervistati ammette la propria chiusura verso i migranti. E alla domanda se determinate forme di discriminazione e razzismo possano essere giustificate, solo il 45% risponde “no, mai”, contro il 29% per cui “dipende dalle situazioni”. Anche la Commissione europea, con l’ultimo Eurobarometro sull’immigrazione, rivela che l’opinione degli italiani sugli immigrati è quasi sempre più negativa della media europea.
Ci sono poi i numeri dell’Oscad (Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori), un piccolo ufficio del ministero dell’Interno che conteggia i reati che le forze dell’ordine catalogano come “crimini d’odio”. Un lavoro importantissimo, anche perché in Italia ancora non esistono agenzie o dipartimenti centralizzati incaricati di produrre statistiche e report sui crimini di questo tipo. Dal 2010, anno della sua istituzione, fino al 31 dicembre 2017, su 2.030 segnalazioni più del 60% riguardano la discriminazione razziale. Ironia della sorte, l’Oscad è parte del ministero ora guidato da Matteo Salvini, che ha sempre negato l’esistenza di un problema razzismo in Italia.
Tuttavia è la cronaca – negli ultimi mesi a cadenza quasi quotidiana – a dare i numeri di un dell’escalation di violenza nei confronti degli stranieri, in cui non mancano i morti: ad Aprilia, il marocchino Hady Zaitouni è morto dopo essere stato inseguito da due italiani che lo credevano un ladro, mentre a San Calogero, in Calabria, due colpi di fucile non hanno lasciato scampo al sindacalista maliano Sacko Soumayla. Tra gli episodi più forti c’è senza dubbio quello di Macerata, dove Luca Traini, ha sparato per strada a sei africani; gli spari contro il senegalese Cissè Elhadji Diebel, colpito a una gamba a Napoli, e quelli a Pistoia contro il gambiano Buba Ceesay, al grido di “negro di merda”. C’è poi l’aggressione nei confronti di una donna nigeriana, malmenata mentre era in fila al bancomat a Sassari, e una serie di episodi meno gravi ma forse ancora più simbolici, e che danno l’idea di un popolo in preda all’ira, che ha inspiegabilmente perduto la sua umanità.
Si va dal campione di pallavolo Ivan Zaytsev, per gli anti-vax colpevole di aver vaccinato la figlia – “Zingaro, spero che Salvini ti rimandi al tuo Paese” – alla teoria complottista dei bambolotti spacciati per cadaveri di bambini dopo un naufragio al largo di Tripoli, dove c’è stato anche chi ha commentato “Solo 100 morti? Peccato”. O, ancora, l’imprenditore che ha minacciato di morte il dipendente marocchino assente al lavoro per malattia – “Islamico di merda, ti posso anche ammazzare ora che è andato su Salvini”– fino al cane aizzato contro un venditore ambulante di colore, tra l’entusiasmo generale e al bambino di 5 anni insultato dalle coetanee perché “sei nero, fai schifo, vattene via da qui”. È un clima di intolleranza che a volte coinvolge persino i membri delle istituzioni: “Devi morire in galera,” dicono i carabinieri a un ghanese arrestato con la falsa accusa di terrorismo.
Non è un caso se, in occasione dell’Ottantesimo anniversario del Manifesto della razza, è arrivato il monito del presidente della Repubblica: “Il veleno del razzismo continua a creare barriere nella società.” Non c’è un razzismo istituzionalizzato, ma è innegabile che l’azione politica di certi amministratori – pensiamo al “prima gli italiani” leghista, declinato in varie forme – alimenta le tensioni sociali e in alcuni casi finisce per legittimare, anche indirettamente, pulsioni e sentimenti razzisti. Se da un lato c’è chi si limita, per ora, agli slogan, come il ministro della Famiglia Attilio Fontana che vuole abolire la legge Mancino, c’è anche chi sembra provare ad agire nel concreto: è il caso del governatore del Veneto Luca Zaia, promotore di una legge che avrebbe negato l’accesso agli asili ai figli dei residenti nella regione da meno di quindici anni, bocciata dalla Consulta perché giudicata lesiva dei principi di uguaglianza e di tutela dell’infanzia, sanciti dagli articoli 3 e 31 della Costituzione.
Sempre la Consulta ha bocciato una legge della Regione Liguria, che prevedeva l’ammissione degli stranieri ai bandi per le case popolari solo se regolarmente residenti in Italia da almeno dieci anni. L’indignazione di Giovanni Toti, che aveva commentato con un “è gravissimo,” è stata seguita da una protesta popolare, fisica e via social. La tendenza è trasversale: se la sindaca leghista di San Germano Vercellese si è inventata una multa per chi ospita i migranti, il sindaco del Pd di Ventimiglia ha emesso un’ordinanza – poi revocata – per vietare la distribuzione di cibo ai migranti in attesa alla frontiera.
È un fatto che nel nostro passato recente ci siano diversi momenti di cui vergognarsi, attribuibili a matrici razziste. Il mito degli “Italiani brava gente”, nato nel 1964 con il film di Giuseppe De Santis, puntava proprio a ripulire la fama dell’Italia dopo i misfatti di cui ci eravamo macchiati durante il fascismo, e prima ancora nel periodo coloniale. Stragi, esecuzioni sommarie, deportazioni di massa: il mito del “bravo italiano” ha scricchiolato fin dai giorni della costruzione dell’Italia unita, quando il razzismo degli italiani era contro i connazionali del Sud: “Questa è Africa, altro che Italia! I beduini a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele!”, disse il generale Enrico Cialdini a Napoli, poco prima di ordinare il massacro di 900 civili a Pontelandolfo e Casalduni. Ed era solo una delle tanti stragi di innocenti con cui il neonato Stato italiano giustificò la guerra al brigantaggio. Un secolo dopo, avremmo ritrovato tracce di quel razzismo nei cartelli che i lavoratori del Sud trovavano a Milano e Torino: “non si affittano case ai meridionali.”
L’Italia è innanzitutto il Paese del fascismo e del Manifesto della razza. Ed è anche quello degli antropologi Cesare Lombroso e Giuseppe Sergi, teorici del “razzismo scientifico”, secondo cui l’attitudine al crimine dipende dall’etnia e dalle caratteristiche fisiche degli individui; o del “maresciallo d’Italia” Rodolfo Graziani, conosciuto in Libia come “il macellaio”, ai vertici militari della nazione per un trentennio e mente di decine di stragi di civili in Libia, Etiopia e Somalia. Il 20 febbraio del 1937, in seguito a un fallito attentato contro di lui, le migliaia di italiani residenti ad Addis Abeba si armarono di mazze e spranghe di ferro per una sanguinosa caccia al nero, che terminò con un bilancio da 2.500 a 10mila civili morti, bambini compresi, a seconda delle fonti.
I libici con cui oggi facciamo accordi per fermare i flussi di migranti, sono gli eredi di quei 100mila morti per mano italiana durante l’occupazione, tra il 1911 e il 1932. E ancora oggi, girando per Lubjiana, capitale della Slovenia, si trovano targhe che ricordano le vittime dell’occupazione italiana tra il 1941 e il 1943: in questo caso il numero della vergogna è 50mila, per lo più civili, tra morti, torturati e deportati. I numeri sono dello storico Angelo Del Boca, che nel suo libro Italiani, brava gente?, edito da Neri Pozza nel 2005, racconta in dettaglio le pagine più nere della storia patria, ricordando che nessun italiano, militare o civile, ha mai pagato per quegli atroci delitti.
In anni più recenti, quando arrivarono i primi venditori ambulanti dal Nord Africa, si è affibbiato loro il nomignolo sfottente di vucumprà, e non si è urlato all’invasione solo perché erano pochi e si limitavano a girare per le spiagge o i parcheggi. Poi lo sbarco della nave Vlora nel porto di Brindisi, nell’agosto del 1991, fu il primo vero segnale dell’era della grande migrazione che sarebbe arrivata qualche lustro dopo. Dopo averli rinchiusi in migliaia dentro lo stadio della Vittoria, a Bari, a temperature insostenibili e nutriti con acqua e cibo lanciati dagli elicotteri, come fossero animali, li abbiamo poi rispediti in Albania con l’inganno, salvo quelli che erano riusciti a fuggire prima. Qualche anno dopo, anche giornali che oggi definiamo progressisti, guarderanno con sospetto all’aumento degli arrivi di migranti.
Chissà dunque se c’è un razzismo latente ad animare molti connazionali, pronto a riemergere in determinate fasi storiche o ogni qual volta è sdoganato da legittimazioni politiche. E se non si può parlare di razzismo tout court, è senza dubbio vero che oggi, in Italia, si manifestano forme di razzismo negli atteggiamenti sociali, nel linguaggio pubblico e in politica. Chi scrive si è trovato spesso, negli ultimi anni, a seguire vicende di cronaca e ha rivolto la stessa domanda a centinaia di italiani — di diverso sesso, età e posizione lavorativa — diffidenti nei confronti degli immigrati: “Ha mai avuto a che fare con qualche immigrato?” Nella maggior parte dei casi la risposta è stata un silenzio spiazzato o un “No, ma non mi interessa.” La sensazione è che l’ostilità verso lo straniero non sia quasi mai prodotta dall’esperienza diretta ma sia pregiudiziale, di “posizione”, e giustificata con slogan presi in prestito da qualche politico o personaggio pubblico.
Nel bel libro Non sono razzista, ma, pubblicato nel 2017 da Feltrinelli, Luigi Manconi e Federica Resta ipotizzano che, dietro quel “ma” ci siauna chiara richiesta di aiuto a “non diventare razzisti”. Oppure, chissà, il “ma” potrebbe essere solo l’ultimo baluardo del pudore, che sopravviverà fino a quando verrà il coraggio di ammettere che, in fondo, un po’ razzisti lo si è davvero.