Da quando il COVID-19 ha stravolto le nostre abitudini, anche i media hanno iniziato a riconoscere che il virus non è democratico, che la pandemia non è una livella e che non per tutti la crisi è una sfida irripetibile che porta con sé grandi opportunità. Così, sembriamo ricordarci improvvisamente oggi che esiste il lavoro nero, che ci sono famiglie che si reggono su un solo stipendio o non hanno nemmeno quello, che le donne sono, manco a dirlo, destinate a pagare il prezzo più alto, perché è dato per scontato che debbano essere loro a occuparsi del lavoro di cura: se in coppia con un uomo, infatti, ha più senso che a lavorare ci torni lui, che in genere guadagna di più. Alcuni rimangono esclusi dai provvedimenti del governo, altri persino dagli approvvigionamenti dei dispositivi di protezione, perché i profitti e la corsa contro il tempo per ottenerli vengono ritenuti più importanti, non solo nel caso dei riders ma anche dello stesso personale sanitario o dei negozi di alimentari e della grande distribuzione organizzata.
Si sono spesi fiumi di parole per raccontare la pandemia, eppure i rappresentanti delle istituzioni ne hanno dedicate pochissime ad alcuni settori chiave, come quello dell’istruzione. Lo Stato è avvertito da molti come assente, salvo quando si tratta di multare due precari che manifestano (è accaduto lo scorso 27 aprile a Milano) per chiedere internalizzazioni e assunzioni di tutto il personale scolastico. Si è però parlato molto, non certo nelle dirette a cui ci ha abituato il Presidente del Consiglio, della didattica online, che è parsa l’unica soluzione possibile al tempo del distanziamento sociale, e lo si è fatto in un crescendo che la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina non ha esitato a definire “un successo”. Fin dall’inizio però le riflessioni di numerosi insegnanti hanno trovato spazio sulle riviste, esprimendosi su come tale distanza sia problematica ed escludente.
La didattica di quarantena si distingue enormemente dall’esperienza dell’apprendimento in presenza, che è fatto di incontri in carne e ossa, sensazioni che si esprimono con immediatezza, percorsi di relazione che si costruiscono ora dopo ora e progetti che si condividono in modo circolare, concorrendo a rafforzare quella dimensione collettiva e sensoriale che nella versione streaming delle lezioni viene completamente a mancare.
I materiali proposti dal docente non sono che un surrogato di quello che fino a febbraio era la quotidianità, e non sempre sono di sua fattura, complice il minor tempo ora a disposizione per chi magari ora deve occuparsi tutto il giorno di figli – a loro volta impegnati nella didattica a distanza – o magari di anziani che richiedono cure, e farlo magari lavorando in uno spazio inadeguato, usando la connessione internet personale. In linea con l’aziendalizzazione dell’intero settore dell’istruzione operato lungo venticinque anni di riforme incompiute da Berlinguer in poi, i docenti si trovano oggi a esibirsi come performer, intrattenitori che non potendo più occupare lo spazio della relazione impegnano la dimensione del tempo supportati da contenuti multimediali, con il compito di far allontanare il ricordo di una didattica vissuta appieno in prima persona.
Se davvero si ritiene che l’istruzione sia alla base della formazione dei nuovi cittadini non si può osservare la situazione senza attivarsi per predisporre un’analisi che sia occasione per ripensare anche il rapporto scuola-famiglia: la didattica online è accettabile solo in un’ottica di riduzione del danno (ora come ora, con il divieto di assembramento, o si fa così, o niente) e praticarla non è affatto semplice, sia per le limitanti disuguaglianze già rilevate, sia perché nessuno è stato formato per metterla in atto per un lungo periodo.
I docenti di diversi Paesi coinvolti nella riflessione di LavoroCulturale.org e UniCovid2020 prevedono infatti, sulla base della propria esperienza, che se gli Stati colpiti dalla pandemia non metteranno in campo opportuni e corposi interventi la didattica rimarrà in parte online anche quando sarà conclusa la pandemia, ci saranno licenziamenti negli atenei, verranno ridotti i finanziamenti, non rinnovati contratti e abbassate le retribuzioni, con la motivazione secondo cui preparare lezioni telematiche richiederebbe meno lavoro. E la cosiddetta fuga di cervelli non si interromperà, dato che già si manifesta dove sono attivi insegnamenti interamente online o blended, cioè misti a quelli in presenza, dato che entrambi permettono agli atenei di risparmiare parecchio.
Il sotto-finanziamento degli atenei del Sud d’Italia non smetterà di causare migrazioni verso il Nord per chi vuole rimanere in questo settore, mentre saranno in molti a doverlo abbandonare, a meno di poter contare sulle entrate di genitori abbienti e magari non particolarmente colpiti dalla crisi. Di conseguenza, a oggi chi non può permetterselo non si iscrive all’università, e chi è costretto a trovarsi un lavoro per mantenersi, prima o poi abbandona l’università perché non riesce a dedicarle il tempo che si rivela necessario, dimostrando così che il nostro sistema seleziona in parte con il criterio del censo. Anche stress, ansia e depressione continueranno a essere una realtà per docenti e dottorandi, selezionati in parte con il criterio del censo e retribuiti sulla base del rispetto delle scadenze, costretti a regalare ore di lavoro gratuito e a sfidarsi in termini competitivi per primeggiare all’interno di un sistema mercantilizzato, che difficilmente tollera il passaggio al grado superiore e che non a caso ha introdotto termini quali “utente” per indicare chi frequenta le biblioteche – anzi i “sistemi bibliotecari” – per la propria ricerca.
Siamo ben lontani dall’idea di accademici come privilegiati che ancora permane in una parte della società, quella che viene puntualmente indirizzata verso la guerra tra poveri. In realtà il mondo dell’università italiana chiede da anni (anche attraverso scioperi e manifestazioni represse più volte con violenza) le stesse cose: assunzioni, abilitazioni, internalizzazioni, stabilizzazione dei precari, aumento dei salari per raggiungere la media europea, finanziamento degli enti di ricerca e dell’edilizia scolastica, fine dello sfruttamento da parte dei baroni, partecipazione nei processi decisionali, e più recentemente il respingimento della proposta della cosiddetta “autonomia differenziata”. E in queste settimane si sta organizzando una nuova mobilitazione (una lettera aperta, uno sciopero e un’auto-inchiesta sono tra le proposte emerse durante l’assemblea di UniCovid2020).
Ha poi fatto discutere lo scorso dicembre la scelta di separare i ministeri di Scuola e Università, impedendo così un’azione concertata rispetto al percorso di crescita degli studenti, che andrebbe pensato nella sua interezza – oltre al fatto che il ministro dell’Università (ex Rettore dell’ateneo Federico II di Napoli e presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane), Gaetano Manfredi, rischia di andare a processo per il crollo dei balconi delle case per gli sfollati del terremoto a L’Aquila. Scuola e università si scontrano infatti molto spesso con gli stessi problemi di gestione, ma mentre il mondo universitario conosce diversi strumenti per sollecitare l’opinione pubblica, le fasce più giovani e i loro genitori rischiano di non poter far sentire la propria voce e rappresentarsi, per far emergere le diseguaglianze e le ingiustizie portate a galla con ancora più forza dall’emergenza COVID-19.
Diversa è quindi la didattica se vista da bambini e adolescenti, coloro che dovrebbero poter godere quantomeno di un diritto di replica attraverso cui dare conto di cosa significhi studiare nel 2020. Da oltre vent’anni, infatti, apprendere significa essere sottoposti a prove spesso mortificanti, come i test Invalsi (l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione), già confermati come facoltativi per il prossimo settembre, che dal 2003 accompagnano tutto il percorso di studio e per i quali bambini dai 7 anni in su devono ad esempio riconoscere in due minuti più parole possibili, dopo essersi esercitati fino all’esasperazione durante l’anno. L’intento dichiarato da Invalsi e dal ministero è quello di giudicare le singole classi e i singoli istituti, ma la realtà si risolve in una schedatura basata sui numeri e paragonabile a una competizione sportiva utile a stabilire chi saranno gli agonisti su cui puntare e chi i dilettanti destinati a rimanere parcheggiati in serie C.
I criteri premiali fabbricano così gli ultimi della società, stigmatizzandoli e relegandoli con le rispettive famiglie ai margini. Valutare e punire, insomma, come ha sintetizzato la filosofa Valeria Pinto con il titolo di un libro pubblicato per la prima volta nel 2012, allo scopo di stilare classifiche, confermando la volontà ministeriale di standardizzare la scuola, rifondandola sul principio imprenditoriale della concorrenza e annullando l’identità propria di ogni allievo. Questionari che peraltro costano milioni di euro. La conferma che i ragazzi sono visti come pedine in una scuola che deve assomigliare sempre di più a un’azienda è anche nell’invenzione dell’alternanza scuola-lavoro, che costa circa 100 milioni l’anno. Resa obbligatoria dal 2015, i promotori renziani la vorrebbero non inferiore a 400 ore per gli istituti tecnici e professionali e 200 ore per i licei, per garantire ai richiedenti (tra cui troviamo Mc Donald’s, Fico, Zara, Accenture, Bosch, Eni, Coop, Fiat Chrysler, Fai, General Electric, IBM, Intesa San Paolo, Confindustria e Federmeccanica; quindi anche colossi che non rispettano i diritti dei lavoratori e l’ambiente o evadono le tasse) un più lungo periodo in cui approfittare di forza-lavoro gratuita in cambio di semplici buoni pasto e senza consultare i diretti interessati in merito alle loro aspirazioni.
La crisi in corso sarebbe quindi potuta essere un’occasione per ripensare il rapporto scuola-famiglia e per mettere al centro del discorso politico il tema dell’istruzione, ma a oggi non è ancora successo perché in primis i due ministri hanno ritenuto di non intervenire efficacemente a riguardo. Iniziare a farlo ora significherebbe raccogliere un malcontento diffuso. A fronte di un sovraccarico cognitivo (information overload) per i ragazzi abbiamo quindi il silenzio di chi fino a poco prima che la situazione precipitasse sosteneva che proprio loro sono il nostro futuro (come giustamente dovrebbe essere).
Solo il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha dedicato – a due mesi dall’inizio dell’operazione – cinque minuti agli studenti tramite un videomessaggio registrato per promuovere un nuovo programma Rai in collaborazione con il Miur. Un annuncio che arriva dopo che il ministero dell’Istruzione ha garantito per settimane a Tim e Google la possibilità di acquisire nuovi spazi con la digital education, senza che fossero invitate a sostenere economicamente la ripresa, favorendo così una modalità di apprendimento che compromette la relazione tra insegnante e allievo, con ripercussioni sull’apprendimento anche molto gravi. Il tutto mentre nelle scuole mancavano già da prima persino gessetti, cancelleria e carta igienica, cui spesso provvedevano insegnanti o genitori, i quali sono ora in attesa della cassa integrazione, degli ammortizzatori sociali o senza lavoro (3.7 milioni di italiani l’hanno perso con la pandemia), con la possibilità concreta che molti studenti lascino gli studi perché costretti a cercare un impiego per garantire un’entrata in casa e ingrossare così le fila della gig economy, venendo sfruttati come ai tempi dell’Alternanza.
Secondo uno studio Ipsos concluso il 23 aprile, infatti, oltre il 60% dei giovani italiani tra i 18 e i 34 anni vede il proprio futuro come già scritto in negativo, aggiungendosi così ai tanti che stanno dicendo “Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema”, specialmente le donne: sono il 67% (contro il 55% degli uomini) a ritenere che i propri progetti di vita siano a rischio. Infine, avvolti in un buco nero, nominati sempre per ultimi quando ce ne si ricorda, sono gli studenti con disabilità, più di un terzo dei quali è stato di fatto eliminato dalla didattica di quarantena. Vanno affrontate dunque questioni che non coinvolgono solo chi frequenta la scuola. A pesare non sono solo le differenze di censo e di classe, ma anche le modalità con cui si è deciso di rispondere all’emergenza. Ad esempio, le task force governative includono pochissime donne, mentre queste sono una parte consistente del corpo insegnante e oggi si occupano, in genere da sole, della casa e dei figli, e magari lavorano ora in un contesto che è quanto di più lontano da ciò che si può chiamare smart working. Chi lo sa, a giudicare da quello che succede in altri Paesi, rispetto all’emergenza sanitaria data dalla pandemia e al sistema scolastico, forse se le donne avessero più voce in capitolo il Paese ne gioverebbe. Se siamo tra coloro che affermano di voler “ripensare tutto” una volta finita la pandemia, dobbiamo cominciare già ora a ripensare anzitutto la scuola e la formazione, per fare in modo che non siano docenti e studenti di tutte le età a pagare il prezzo più alto. Bisogna progettare una formazione alternativa, che non divida ed escluda in base alle differenze, ma che le accolga tutte, perché l’istruzione è un diritto e le diversità un arricchimento. Altrimenti questa Fase 2 che doveva essere un salto in avanti ci farà fare solo dei passi indietro.